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www.ildialogo.org Le varie interpretazioni del Vaticano II,di Carlo Molari

Le varie interpretazioni del Vaticano II

di Carlo Molari

da Adista Documenti n. 37 del 20/10/2012


Il problema dell’interpretazione del Concilio non è solo di carattere teorico, ma concreto e pratico perché l’interpretazione condiziona la recezione. La nostra, oggi, non vuole essere una riflessione teorica o storica, ma una riflessione che conduca a un coinvolgimento personale.

Intenzione pastorale ed elementi dell’ermeneutica del Vaticano II

Intenzione pastorale. La recezione del Vaticano II è ancora in corso. Cinquanta anni non hanno potuto realizzare una recezione piena, perché i cambiamenti introdotti e le riforme sollecitate erano molto numerose e alcune troppo radicali per essere accolte in breve tempo tutte e integralmente. Inoltre erano già presenti all’interno del Concilio resistenze numerose che affidavano all’interpretazione dei testi la possibilità di sovvertirne o relativizzarne le indicazioni. I giuristi avrebbero imbrigliato i movimenti riformatori. Così alcuni pensavano e in parte è avvenuto.

La riflessione sull’ermeneutica deve tener conto anche delle lacune dei testi per supplire alle deficienze nella recezione. Essa deve essere anche suppletiva, sviluppando una fedeltà creativa.

La necessità di un certo cambiamento è stata la ragione del Vaticano II. Il Concilio Vaticano II è stato convocato per introdurre nella Chiesa cattolica cambiamenti giudicati necessari. I termini per esprimerli sono stati vari. «All’epoca in cui il Concilio si aprì l’11 ottobre 1962, tre termini circolavano (…) tra i pensatori cattolici (...) aggiornamento, sviluppo e ritorno alle fonti» (O’ Malley, Ressurcement e riforma al Vaticano II, in Concilium, 3/2012). Ciascuno di questi termini aveva un suo spazio specifico. Mentre “sviluppo” si riferiva alla novità che esprimeva una certa continuità con il passato, il termine “aggiornamento” poteva essere utilizzato per indicare la «riconciliazione con quanto di valido c’era nella Modernità». In questo senso l’aveva utilizzato Giovanni XXIII. Ma a giudizio dello storico ora citato solo il termine ressurcement «fu il modo operativo più approfondito in seno al Concilio».

In realtà, il “ritorno alle fonti” può giustificare solo alcuni, ma non tutti i cambiamenti dottrinali e operativi introdotti dal Vaticano II. (…)

Modello ambiguo: continuità-rottura. (…) L’ambiguità maggiore della formula continuità/rottura risiede nel soggetto della continuità: che cosa deve continuare? Per i tradizionalisti è il complesso delle dottrine di fede che devono rimanere identiche nel tempo e ovunque essere professate da tutti, secondo il detto spesso da loro ripetuto: quod semper, quod ubique, quod ab omnibus creditum est. Nella maggioranza non vi erano, e non vi sono, opinioni omogenee.

(...) Credo che sia opportuno abbandonare questo modello: non è adeguato ai problemi concreti della vita ecclesiale.

Riforma nella continuità del cammino ecclesiale. Ai termini elencati da O’ Malley (aggiornamento, sviluppo, ressurcement) va aggiunto quello di “riforma”, già presente in qualche modo nel Vaticano II assieme al termine rinnovamento, e portato in auge da Benedetto XVI.

Il termine era già stato usato nei Concilii medievali latini, nel Concilio Lateranense V (1512-1517) finalizzato espressamente alla riforma della Chiesa, e anche dal Concilio di Trento per indicare quella che veniva chiamata «la riforma del clero e del popolo» (il termine latino è reformatio). In quel tempo, scrive O’ Malley su Concilium, «la riforma era, tuttavia, la riaffermazione di provvedimenti normativi di epoche antiche e, presumibilmente, meno corrotte». Ma dopo il Concilio di Trento il termine fu progressivamente sequestrato dai protestanti per indicare la loro azione «come termine particolarmente proprio e quale caratteristica del loro ethos. I cattolici a poco a poco accettarono tale appropriazione. Un po’ alla volta prese piede la persuasione tra i cattolici che la loro Chiesa non aveva e non poteva avere bisogno di una riforma». Per questo sul termine “riforma” ancora negli anni ‘50 a giudizio di Yves Congar «pesava un’autentica maledizione».

Il Concilio Vaticano II però non ha avuto difficoltà a utilizzare il termine riforma (22 volte; la maggioranza a proposito della riforma liturgica; 16 volte nella Sacrosanctum Concilium e una volta nel Decreto Ad Gentes 2,14). (…).

La Costituzione Gaudium et Spes, infine, ha parlato della necessaria riforma degli spiriti a proposito della pace: «Nuove strade converrà cercare partendo dalla riforma degli spiriti, perché possa essere rimosso questo scandalo e al mondo, liberato dall'ansietà che l'opprime, possa essere restituita una pace vera» (GS 81, La corsa agli armamenti).

Benedetto XVI ha introdotto il termine “riforma” in modo autorevole in rapporto all’ermeneutica del Vaticano II. Nel noto discorso alla Curia del dicembre 2005, ha parlato della necessità di una «ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino».

La presa di coscienza del cambiamento viene presentata come essenziale alla interpretazione del Vaticano II. La ricerca deve riguardare i cambiamenti introdotti per una maggiore fedeltà al Vangelo. In tale modo ha superato l’ambiguità che esisteva nella alternativa continuità/riforma.

Post-Concilio carente nei confronti dei poveri. Il cammino ecclesiale postconciliare ha trascurato quasi ovunque l’invito che il Concilio, in modo troppo sfuggente, ha rivolto alla Chiesa perché seguisse l’esempio di povertà del Maestro. Il tema è stato richiamato nel titolo del nostro convegno. Jon Sobrino in un recente articolo, intitolato “La Chiesa dei poveri è una lacuna nel Concilio” (Concilium, 3/2012), ha affermato che nessun testo del Concilio tocca «il suo [della Chiesa] essere povera e il suo destino di persecuzione per il fatto di difendere i poveri». Il Concilio ha scritto: «Come Cristo ha compiuto l’opera della redenzione nella povertà e nella persecuzione, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via, per comunicare agli uomini i frutti della salvezza» (LG, 8 § 3). Certamente è esatta la riflessione per gli sviluppi della vita ecclesiale postconciliare. Inoltre è vero che il Concilio non ha messo in luce «il destino di persecuzione per il fatto di difendere i poveri».

Sobrino ricorda a questo proposito la messa celebrata nelle Catacombe di Domitilla alla fine del Concilio da una quarantina di Padri conciliari che poi firmarono il Patto delle catacombe: una Chiesa serva e povera. In tredici punti essi si impegnavano a vivere, scrive Sobrino, «in povertà e senza potere». Egli conclude: «La Chiesa deve servire i poveri, certo, ma i poveri possono salvare la Chiesa». (...)

Cinque tipi di novità introdotte dal Concilio

La novità è essenziale al vivente. Di fronte alle novità conciliari non pochi le hanno assolutizzate. Alcuni (per rifiutarle) le hanno considerate come innovazioni senza collegamento con la Tradizione, altri le hanno proclamate criterio ermeneutico di tutto il Concilio. Non è mancato anche chi ha cercato di ricondurle alle dottrine precedenti negandone il valore innovativo.

Il problema si pone in questo modo: le novità introdotte dal Concilio sono compatibili con la Tradizione? (...).

Stile nuovo. Prima delle novità di contenuto è necessario rilevare le caratteristiche peculiari del Vaticano II. Ogni Concilio ha caratteristiche particolari. Giovanni Paolo II, nella Tertio Millennio Adveniente (n. 18), riferendosi al Vaticano II, sostiene che «la grande ricchezza di contenuto e il tono nuovo, sconosciuto prima di allora con il quale le questioni sono state presentate dal Concilio costituiscono come un annuncio di tempi nuovi».

Daniele Menozzi (il Sole 24 ore, 20 giugno 2010), ha affermato che «la novità effettiva introdotta dal Vaticano II fu un mutamento di stile: alle formule giudiziarie e legislative dei precedenti Concilii, si sostituiva ora il genere epidittico e panegirico che recuperava una tradizione ben presente nella bimillenaria storia cristiana, ma che non aveva fino a quel momento trovato spazio nei documenti conciliari. Ma non si trattava di un mero mutamento di strategia pastorale, perché le trasformazioni del vocabolario implicavano anche la trasmissione di nuovi valori: non più l'affermazione autocratica dell'autorità della Chiesa, ma l'apprezzamento dell’“altro” nella disponibilità a trovare un terreno comune di collaborazione su ogni problema – religioso, politico, sociale – dell'uomo contemporaneo». (…).

Novità come sviluppo omogeneo della tradizione: la tradizione vivente. La difficoltà maggiore deriva dal fatto che nella disputa accesa sulle fonti della rivelazione la stessa nozione di Tradizione è stata approfondita e in certo modo ricompresa.

Il Concilio nella Dei Verbum ne ha parlato in modo nuovo chiarendone le dinamiche e i rapporti con la Scrittura e il Magistero. Il n. 8 è di una particolare importanza: «Questa Tradizione, di origine dagli Apostoli, progredisce nella Chiesa sotto l'assistenza dello Spirito Santo: infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, cresce sia con la riflessione e lo studio dei credenti, i quali le meditano in cuor loro, sia con la profonda intelligenza che essi provano delle cose spirituali, sia con la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma certo di verità» (DV 8).

Per il card. Walter Kasper, «se vogliamo comprendere la continuità accompagnata da un rinnovamento, allora l'ermeneutica del Concilio Vaticano II deve partire dall'idea dello sviluppo dei grandi maestri della scuola di Tubinga e dalla dottrina dello sviluppo di John Henry Newman. (…). Giovanni XXIII espresse questa istanza con il noto termine “aggiornamento”, difficile da tradurre e spesso abusato. Esso non significa adattamento all'oggi, ma significa rendere presente ciò che è stato tramandato nella novità dell'oggi». «Tale “rinnovamento” – proseguiva Kasper – è qualcosa di diverso da una innovazione. Nel termine rinnovamento viene piuttosto espressa la concezione biblica del “nuovo”, cioè di una novità escatologica gratuita, non deducibile, inconsunta e continuamente sorprendente. Il Vangelo non è mai semplicemente ciò che si conosce da antica data, ma il nuovo eterno. Bisognerebbe perciò concepire l'ermeneutica della riforma come un'ermeneutica del rinnovamento e parlare di un'ermeneutica del rinnovamento». «Il rinnovamento non è opera nostra, ma è l'opera dello Spirito Santo, che ci ricorda tutto (Gv 14,26) e ci introduce nello stesso tempo in tutta la verità (Gv 16,13). Il suo rinnovamento non significa semplicemente ripetizione, ma significa attualizzazione del Vangelo rivelato una volta per tutte» (...).

La Chiesa trasmette se stessa, non semplicemente delle dottrine. Suscita esperienze, comunica vita.

(…) Giuseppe Ruggieri, in un libro di piccola mole, ma prezioso, Ritrovare il Concilio, ha sostenuto che «l’aspetto più innovativo dell’evento conciliare fu l’attenzione alla storia», il riconoscimento della storia come luogo teologico.

È comprensibile che questa concezione abbia suscitato le reazioni dei tradizionalisti. Anche Brunero Gherardini (teologo noto come tradizionalista) ha ammesso che il Concilio Vaticano II ha avvertito la necessità di cambiamenti, ma si è chiesto in quale misura e con quali criteri li abbia realizzati. Quando esamina in concreto le novità conciliari ha difficoltà ad ammetterne la legittimità, le riconduce tutte a quello che egli considera il livello meno autorevole e il più discutibile. Nel suo libro Concilio Vaticano II. Il discorso mancato, parlando del giudizio che la teologia postconciliare ha dato del Concilio, scrive: «Più di venti secoli di storia s'eran volatilizzati; un evento epocale, imprimendo la sua spinta in avanti alla novità raggiunta, li aveva neutralizzati. Sui venti Concilii ecumenici precedenti il Vaticano II aveva passato un fatale colpo di spugna. E tutto questo fu detto Tradizione vivente». (…).

Novità come ricupero di elementi della Tradizione originaria trascurati o dimenticati. Non tutte le verità salvifiche o le discipline conseguenti sono state sempre presenti in modo consapevole alle comunità ecclesiali lungo la storia, di modo che alcuni aspetti sono stati di fatto trascurati. Le varie Chiese si sono distinte anche per questi aspetti, che possono essere ricuperati con apparente rottura rispetto alla tradizione recente.

Il card. Kasper (nel libro Il Concilio, la Tradizione, le tradizioni), a proposito delle diverse ermeneutiche, fa un’osservazione interessante: «Occorre distinguere la Traditio (con la lettera maiuscola), permanentemente vincolante e tuttavia sempre giovane, dalle molte traditiones (con la lettera minuscola), che esprimono l'unica tradizione in un modo storicamente condizionato, ma che la possono anche offuscare e deformare. (…). Riforma non significa perciò solo ritorno all'origine o a una forma precedente della tradizione considerata come autentica, ma significa anche rinnovamento, affinché l'antico, l'originario e il permanentemente valido non sembri vecchio, ma si affermi di nuovo nella sua novità e torni nuovamente a brillare». Osserva poi: «Nel periodo postconciliare l'esperienza di tutta la storia del Concilio ha trovato il suo seguito. Alla controversia attorno alla definizione segue sempre la controversia attorno alla sua ricezione.

Già durante il Concilio Vaticano II si erano formate due fazioni, che furono presto dette, rispettivamente, “conservatrice” e “progressista”. (…). Per tener conto delle giustificate istanze di ambedue le parti e per raggiungere, in corrispondenza a una buona tradizione conciliare, il consenso più ampio possibile, furono necessarie in molti casi delle formule di compromesso, pure questo un fenomeno niente affatto nuovo per chiunque conosca la storia dei concilii».

L’interpretazione della liturgia come atto ecclesiale recupera una tradizione dei primi secoli che era stata completamente travisata nei cambiamenti culturali. La collegialità episcopale (e più in generale la sinodalità ecclesiale) riprende un’idea formulata e vissuta fin dall’inizio, che l’oriente cristiano ha sempre sostenuto.

Novità come riparazione di errori o deviazioni rispetto alla Tradizione. (…). Il card. Kasper nel volume citato osserva: «Spesso le discussioni, che si svolsero durante il Concilio, vengono portate avanti con altri mezzi nella controversia sull'interpretazione del Concilio. E così troviamo delle interpretazioni “progressiste” che si richiamano al Concilio per sostenere delle posizioni “neomoderniste”, che il Concilio non ha scientemente fatto proprie a motivo del suo radicamento nella tradizione, e troviamo delle posizioni tradizionaliste, che mettono a volte completamente o parzialmente in discussione il Concilio, lo interpretano nel senso di posizioni preconciliari del XVIII e XIX secolo, che il Concilio volle precisamente superare». (…)

Novità come irruzione dello Spirito attraverso i segni dei tempi e i cambiamenti culturali realizzati dalle scienze e dalle esperienze storiche. Le novità più importanti per la vita della Chiesa sono quelle introdotte attraverso la lettura dei segni dei tempi e quelle indotte dai cambiamenti dell’orizzonte culturale. Sia le une che le altre possono essere ricondotte all’azione dello Spirito, cioè all’azione di Dio che nella storia attraverso le creature conduce la Chiesa alla verità piena. La storia come luogo teologico si traduce nella categoria dei “segni dei tempi”. Essa, già presente in qualche scrittore protestante e cattolico nella prima metà del secolo scorso, entra ufficialmente nel linguaggio cattolico con la Costituzione Apostolica con cui Giovanni XXIII indiceva il Vaticano II: «Facendo nostra la raccomandazione di Gesù che ci esorta ad interpretare “i segni dei tempi” (Mt 16,4), fra tanta tenebrosa caligine scorgiamo indizi non pochi che sembrano offrire auspici di un’epoca migliore per la Chiesa e per l’umanità». Il Concilio (Gaudium et Spes, 4 §1) richiama esplicitamente la formula quattro volte e in altri testi vi è esposta la sostanza. Non è sempre chiara la distinzione tra il significato teologico e quello sociologico. Nel senso teologico (luogo di emergenza dell’azione divina) i segni dei tempi sono spesso marginali, di frontiera, non subito riconosciuti, anzi ostacolati. Nel senso sociologico sono movimenti di masse, mode, tendenze ben visibili anche se contrastate.

Questa visione dinamica della tradizione sconcerta i tradizionalisti.

Il movimento ecumenico può essere un esempio chiaro. L’adesione del Vaticano II al movimento ecumenico ha costituito la conclusione di un lento cammino perseguito da tempo nella Chiesa cattolica per recuperare l’atteggiamento di apertura alle molteplici realtà spirituali e dottrinali presenti nelle varie comunità cristiane. Esso caratterizzava fin dall’inizio la via intrapresa dai primi discepoli di Gesù. Si è trattato perciò di una continuità dottrinale di riforma, compiuta attingendo a valori originari lungamente trascurati, per correggere errori secolari, curare ferite aperte dagli egoismi umani, annullare contrapposizioni nate da volontà di potere degli uni sugli altri, e rispondere con fedeltà alle molteplici sollecitazioni dello Spirito. (…).

In quanto movimento spirituale, il movimento ecumenico non sradica la Tradizione. Al contrario, esso propone una comprensione nuova e più profonda della Tradizione trasmessaci una volta per tutte; grazie ad esso, si fa strada la nuova Pentecoste, preannunciata da Giovanni XXIII nel suo discorso d’apertura al Concilio; con esso si prepara una nuova fisionomia storica della Chiesa, non una nuova Chiesa, ma una Chiesa spiritualmente rinnovata e arricchita. Con la missione, l’ecumenismo è la via della Chiesa nel XXI secolo e nel terzo millennio».

Cambiamenti culturali. Il cambiamento provocato dall’orizzonte evolutivo (cfr. GS 5) è ancora in corso e non viene sufficientemente valutato: nell’antropologia (natura-sopranatura, divenire figli di Dio, valore della storia, la rivelazione come storia e la storia come rivelazione), nella valutazione del creato (la creazione continua, l’ecologia), nella cristologia (il divenire reale di Gesù). Vari scritti recenti di tradizionalisti cattolici contro la Costituzione pastorale del Vaticano II rivelano la difficoltà di accogliere le conseguenze teologiche di questo cambiamento.

Conclusione

Credere in Dio vuol dire ritenere che la Verità è più grande dei pensieri umani, che la sua Parola può risuonare in formule umane inedite secondo gli orizzonti culturali in continuo movimento, e che il suo Spirito può suscitare continue novità nella storia. A volte le novità introdotte mostrano l’inesattezza delle dottrine e l’insufficienza delle scelte compiute nei secoli precedenti. Anche le affermazioni del Vaticano II potranno essere corrette nel futuro, ma non perché non corrispondono alle dottrine dei secoli scorsi, bensì perché non sono efficaci in ordine al cammino della comunità ecclesiale.

Ciò che è consegnato alla Chiesa da trasmettere non è prima di tutto un bagaglio di nozioni, bensì una storia da vivere e da testimoniare nel suo valore salvifico. La continuità perciò non riguarda le idee o le immagini con cui le persone esprimono del mistero di Dio, bensì la sequela di Cristo, cioè l’accoglienza fedele della Parola e dello Spirito che fanno crescere i figli di Dio.

Le prime comunità cristiane vivevano nell’attesa dell’immediato ritorno di Cristo e molte conversioni erano avvenute sotto il segno di questa speranza, (cfr At 3,19-21; At 17,30-31), eppure essa è risultata errata. Essi pensavano che vi fosse un luogo al di sopra dei cieli dove risiedeva e da dove poteva osservare tutto ciò che accadeva sulla Terra.

Questo non implica che la loro fede non fosse autentica.

La continuità del cammino della Chiesa non è data dalle idee dei suoi soggetti, bensì dalla direzione delle scelte nella storia, dalla fedeltà al Vangelo del soggetto Chiesa. Essa cammina nella storia: pur restando se stessa può e deve modificare modelli, prospettive, impegni e propositi. Oggi la continuità del cammino ecclesiale è il nostro passo scandito nella storia. Dalla grazia di Dio e dalla nostra fedeltà dipende che esso proceda nel tempo.

* Teologo e saggista

Articolo tratto da
ADISTA
La redazione di ADISTA si trova in via Acciaioli n.7 - 00186 Roma Telefono +39 06 686.86.92 +39 06 688.019.24 Fax +39 06 686.58.98 E-mail info@adista.it Sito www.adista.it



Sabato 20 Ottobre,2012 Ore: 15:42
 
 
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