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www.ildialogo.org Il perdono come giustizia,di MARCO MARENGO

Il perdono come giustizia

La giustizia riparativa in ambito penale


di MARCO MARENGO

Premessa:  

in un momento in cui tutta l’opinione pubblica ha gli occhi puntati su gravi casi di cronaca nera, nuovi o riportati alla ribalta, che hanno insanguinato le pagine dei giornali e gli schermi dei televisori italiani negli ultimi anni e che, oggi più che mai, sembrano legittimare la caducazione di ogni tutela e garanzia apprestata dall’ordinamento all’indagato e all’imputato, oltre che le incalzanti istanze repressive dei più, spesso fuori da ogni logica costituzionale, colgo l’occasione per proporre, non nascondendo un intento intrinsecamente provocatorio, una riflessione c.a. l’opportunità di ripensare alle fondamenta il nostro attuale sistema di giustizia penale. In particolare si offre al lettore una breve disamina c.a. l’esperienza, più straniera che italiana, della c.d. “restorative justice”, quale modello alternativo di giustizia penale volto ad affiancare quello tradizionale e ad imprimervi un importante vettore di cambiamento. Un cambiamento tuttavia, in questa materia più che altrove, il quale necessita di passare prima che attraverso la norma giuridica, anche, se non soprattutto, attraverso un mutamento della coscienza sociale che coinvolga  non solo quello che Paolo Grossi definisce “l’uomo della strada”, riferendosi al non perito del sapere giuridico, ma anche e fermamente gli avvocati, i pubblici ministeri e i giudici che con questo modello di giustizia penale vetusto, reo-centrico e poco attento alla vittima del reato hanno da sempre lavorato.

L’idea fondamentale che muove il concetto della c.d. “restorative justice” è quella per cui dal reato, quale offesa o lesione di un valore o bene fondamentale, socialmente e giuridicamente riconosciuto come tale attraverso la posizione della norma incriminatrice, sia possibile e si debba trarre l’opportunità di costruire “qualcosa” che si riverberi in futuro sotto forma di reinserimento, e quindi, nella prospettiva della collettività, di prevenzione della recidiva, ma che al tempo stesso guardi con attenzione alla vittima ricercandone un serio ristoro. L’idea, quindi, di agire sul reato in modo costruttivo, segnando per il soggetto attivo dello stesso una netta rottura con la sua appartenenza criminale. Un modello di giustizia che mette in discussione, ma non sostituisce quello tradizionale, indicando peraltro un importante vettore di cambiamento della giustizia penale.

Ma a fronte di questa idea, così forte e netta nei suoi obiettivi, non fa peraltro da riscontro un’altrettanto chiara nozione giuridica di “giustizia riparativa” entro la quale sussumersi questa o quell’altra fattispecie giuridica di risposta dell’ordinamento alla violazione di una norma imperativa. In dottrina il dibattito è acceso, ma ai nostri fini e secondo quanto personalmente ritengo più corretto, adotterò la nozione più ampia che di essa è stata data dal Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite con l’art. 3 della Risoluzione 2002/12, ossia di “restorative justice” non solo come ogni forma di giustizia che si incentri sull’incontro tra la vittima e l’autore, come la mediazione (v. infra), la conciliazione e i c.d. circle, ma altresì come “responses and programmes such as reparation, restitution and community service, aimed at meeting the individual and collective needs and responsabilities of the parties and achieving the reintegration of the victim and the offender” (responsi e programmi, come la riparazione, la restituzione e il servizio di comunità, miranti a soddisfare le individuali e collettive esigenze e responsabilità delle parti, conseguendo altresì la reintegrazione della vittima e dell’offensore).

Un’idea di giustizia già profondamente penetrata nel sistema penale minorile, soprattutto grazie al d.P.R. 448/1988 che, nel dettare apposite norme processuali da applicarsi nel caso in cui l’imputato sia un soggetto minore degli anni 18, ha altresì introdotto nel nostro ordinamento l’istituto della c.d. messa alla prova. Si tratta di una forma di probation la quale tenta di attuare una diversione rispetto al tradizionale ricorso alle sanzioni della detenzione o della pena pecuniaria, permettendo al minore che consegua con successo una serie di obiettivi, elaborati nell’ambito di un programma di messa alla prova proposto dal minore stesso con l’assistenza dei suoi legali e approvato dal giudice naturale del procedimento, di evitare la condanna per il fatto commesso. La messa alla prova, nel sistema della giustizia penale minorile, è inoltre sempre più frequentemente trascorsa presso apposite comunità sorte su iniziativa privata e finalizzate all’accoglimento dei minori autori di reato che non dispongano di un nucleo famigliare a tal fine adeguato, e delle quali la comunità “ARIMO” di Milano offre un paradigmatico e positivo esempio.

Si tratta invero di uno strumento, quello della messa alla prova del minore autore di reato, del quale successo non è dato dubitare, tanto che recentemente, in data 2 aprile 2014, è stata approvata in via definitiva dalla Camera l’estensione di questo istituto anche all’emisfero della giustizia penale degli adulti. In realtà esso non realizza una vera e propria messa alla prova conforme ai principi della “giustizia riparativa” che hanno ispirato e informato la disciplina dell’omonimo istituto previsto per i minorenni, essendo applicabile esclusivamente ai reati per i quali non sia prevista una pena editale superiore nel massimo a 4 anni di reclusione, ed essendo la concessione della messa alla prova per gli adulti subordinata all’accettazione del lavoro di pubblica utilità, circostanza quest’ultima che confligge con l’esigenza di volontarietà e spontaneità dell’adesione delle parti ai programmi di “restorative justice”, connotato che costituisce uno dei principali punti di forza di questo modello di giustizia, la scommessa del quale sta proprio nel provare a lavorare in modo partecipativo sul reato sulla base della libera adesione delle parti.

Ma il principale strumento mediante il quale dovrebbero attuarsi le istanze e gli obiettivi della giustizia penale riparativa si presta ad essere quello della mediazione penale reo-vittima. Un istituto già presente, ma non particolarmente utilizzato nella prassi del nostro Paese e che gode solo di una scarna disciplina, peraltro non accompagnata da una più generale normazione circa i principi e le linee guida della “restorative justice”, come invece in altri Paesi europei, quale ad es. il Belgio, avviene già dal secolo scorso e con ottimi risultati applicativi.

Si tratta (o dovrebbe trattarsi) in particolare di un iter o procedimento, lato sensu inteso, nel quale la vittima, il reo e qualsiasi altra persona toccata negativamente dal reato partecipano insieme, attivamente e volontariamente, alla risoluzione delle conseguenze più importanti e significative (“that metter”) del reato, con l’aiuto di un mediatore o “facilitatore”. Risultato finale di questo procedimento, laddove portato a termine con esito positivo, sarà quello di giungere ad un accordo condiviso che si riproponga di riparare agli effetti negativi del reato con una reintegrazione in natura, ove possibile, ovvero con una ristorazione simbolica del danno patito dalla vittima dell’aggressione al bene giuridico offeso; la restituzione, il risarcimento, il lavoro di pubblica utilità, ma anche la semplice prestazione di scuse a fronte del perdono della vittima, sono tutti possibili esiti del processo di mediazione.

Ciò che rende altresì particolarmente interessante il modello della giustizia riparativa, e in particolare lo strumento della mediazione penale reo-vittima, a differenza di quello tradizionale, è l’attenzione peculiare per il soggetto passivo del reato. Il sistema di giustizia penale cui siamo abituati è invero un modello reo-centrico: perché vi sia giustizia bisogna applicare una pena, con il risultato che se il reo decede, ovvero si tratta di un infraquattordicenne, o altra persona non imputabile, nessuna forma di giustizia è possibile. L’attenzione alla vittima in questi anni è stata portata in emersione anche dalla c.d. vittimologia, quale branca della criminologia che studia il reato partendo proprio dal tipo di vittima che normalmente offende, ma ciò a fini esclusivamente preventivi. Quello che invece contraddistingue i programmi e le procedure di “restorative justice” è proprio, come suggerisce del resto il termine stesso, la tensione alla reintegrazione del danno sofferto dalla persona offesa, che nel sistema tradizionale è lasciata ad una determinazione etero imposta del giudice nelle forme della sanzione detentiva e/o del risarcimento, quali strumenti quantitativi che misurano il riconoscimento dell’offesa, lasciando per questo motivo la vittima sempre insoddisfatta; ma nel sistema della giustizia riparativa la reintegrazione del danno, la misura del suo riconoscimento, è determinata attivamente dalla stessa persona offesa, la quale pertanto non potrà che percepirla come una giusta riparazione di quanto patito.

Non si tratta, è evidente, di un modello di giustizia che possa aspirare a sostituire del tutto quello tradizionale, ma di un sistema in grado di affiancarvisi e imprimere un importante vettore di cambiamento alla giustizia penale tout court. Certo le difficoltà di implementare in un ordinamento giuridico come il nostro, ma anche come molti altri ordinamenti europei, quale ad es. quello spagnolo, dove il pubblico ministero è gravato dell’obbligo di esercitare l’azione penale, sono notevoli, dal momento che anche in caso di esito positivo della mediazione il p.m. non potrebbe comunque decidere l’archiviazione del procedimento, essendo invece costretto a procedere in giudizio. Per questo motivo in Italia la mediazione penale reo-vittima è stata disciplinata quale percorso possibile solo nei casi in cui il reato integrato sia procedibile a querela di parte, così che in caso di buon esito della procedura sarà in potere della vittima rinunciare all’azione penale ritirando la querela. Tuttavia il legislatore dovrebbe, a mio avviso, valutare la possibilità di aprire lo schema della mediazione, e magari anche introdurre altre procedure e programmi di “restorative justice” sul modello anglosassone dei c.d. circle, anche ai reati procedibili d’ufficio, mantenendo fermo l’obbligo per il p.m. di esercitare l’azione penale, ma permettendo al giudice, nella commisurazione della sanzione da irrogare al reo, di tenere conto dell’esito di una eventuale mediazione reo-vittima portata a termine con risultati positivi.  

Nei Paesi dove l’utilizzo di questo strumento è diffuso e monitorato (circostanze entrambe assenti in Italia) si ravvisa che, se nella maggioranza dei casi, c.a. il 40%, l’esito positivo della mediazione, o di altri programmi di giustizia riparativa ad essa analoghi, si realizza nella dazione di un risarcimento in danaro del danno subito, c.a. nel 30% dei casi il procedimento si conclude invece “semplicemente”, anche per gravi reati, con la sola prestazione di scuse da parte del reo e il perdono da parte della vittima. Risultato che non può non dirsi straordinario, possibile probabilmente solo grazie alla presa di coscienza diretta da parte del reo del male afflitto e alla presa d’atto, da parte della vittima, dell’umanità del reo, del suo essere una persona fatta di propri sentimenti, paure e debolezze, ma che invece spesso si era radicalmente e negativamente idealizzata.

Un risultato che fa sperare chi scrive nella possibilità di accedere finalmente, in un futuro non troppo lontano, ad un concetto di giustizia diverso e non coincidente con quello di vendetta, ma che abbracci l’idea che sia possibile un “perdono responsabile” quale nuova e più alta forma di giustizia.
 



Martedì 15 Luglio,2014 Ore: 18:57
 
 
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