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www.ildialogo.org Il decreto svuota carceri,di MARCO MARENGO

Il decreto svuota carceri

di MARCO MARENGO

Dal blog di Renata Rusca Zargar SENZA FINE
Ancora sull’emergenza carceri, le indicazioni e i moniti della giurisprudenza spingono i provvedimenti della XVII legislatura: il d.l. n. 146 del 2013.
di MARCO MARENGO
  1. Quando la giurisprudenza si pronuncia sull’emergenza carceri: a) - la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo condanna (di nuovo) l’Italia; b) - un severo monito dalla Corte costituzionale: la Sent. 22 novembre 2013, n. 279; - 2. Nel tentativo di adempiere alle prescrizioni della CEDU, la risposta delle “Larghe intese” al sovraffollamento: il d.l. 23 dicembre 2013, n. 146; - Conclusione.
PARTE I, POST N. 29 (http://senzafine.zacem-online.org/#post29)
(Parte II)
2. Nel tentativo di adempiere alle prescrizioni della CEDU, la risposta delle “Larghe intese” al sovraffollamento: il d.l. 23 dicembre 2013, n. 146.
La perdurante inerzia del legislatore nell’intervenire sull’ancor grave ipertrofia del sistema detentivo si infrange, il 23 dicembre 2013, con l’approvazione di un nuovo decreto legge, il n. 146, passato alle cronache come “decreto svuota carceri” e recentemente convertito in Legge dello Stato dal Parlamento italiano, peraltro senza significative modifiche in questa sede.
Il Consiglio dei Ministri allora presieduto dall’on. Enrico Letta, nel tentativo di adempiere, entro il termine perentorio stabilito al 28 maggio 2014, alle prescrizioni imposte dalla CEDU con la c.d. “sentenza Torreggiani” (v. post 29), si propone di intervenire sull’emergenza carceri in una duplice direzione: da un lato tentando di introdurre provvedimenti idonei a diminuire concretamente il quantum della popolazione detenuta, dall’altro impegnandosi a rafforzare la tutela dei diritti delle persone ristrette, a vario titolo, nella propria libertà personale.
Tre, in particolare, sono i “settori” di intervento:
  1. La diminuzione della popolazione detenuta per reati di lieve entità concernenti la produzione, lo spaccio e la detenzione di sostanze stupefacenti:
Riguardo, in primo luogo, alla specifica materia degli stupefacenti il decreto è intervenuto modificando la lettera del c. 5 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, che prevedeva un’attenuante specifica per i reati di produzione, detenzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope qualora i fatti commessi fossero da considerarsi “[…] per i mezzi, per la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze […]” di lieve entità. Le modifiche testuali operate dal decreto legge, secondo la maggior parte dei commentatori e di recente anche secondo la Cassazione, hanno fatto di quella che, precedentemente, era da considerarsi una semplice attenuante, una vera e propria fattispecie autonoma di reato (“Delitto di condotte illecite in tema di sostanze stupefacenti o psicotrope di lieve entità”). Quale or dunque la ragione di una siffatta trasmigrazione del c.5 dell’art. 73 del d.P.R. 309/1990 dall’area di rilevanza in quanto attenuante specifica, all’area di rilevanza in quanto autonoma fattispecie di reato? La ratio di questo intervento potrebbe invero sfuggire ai non periti nella materia, ma a ben vedere realizza un’importante funzione deflattiva del sovraffollamento carcerario e segnatamente della popolazione detenuta con problemi di tossicodipendenza. Mi spiego. I più sapranno che le sanzioni detentive nel nostro codice penale sono comminate tra un minimo e un massimo editale, funzionale a permettere al giudice di adeguare la sanzione alle peculiarità del caso concreto. A ciò si aggiunga che, al momento di decidere il quantum di sanzione detentiva da irrogare per il reato commesso, il giudice deve considerare le molteplici attenuanti e/o aggravanti che eventualmente siano da ritenersi sussistenti in favore o avverso l’imputato, le quali possono determinare in vario modo variazioni sulla cornice editale prevista per la fattispecie criminale di base. Qualora sulla stessa condotta convergano sia attenuanti che aggravanti, il giudice è chiamato a procedere ad un giudizio di comparazione fra le stesse, al termine del quale deciderà se siano prevalenti le prime o le seconde. In caso di prevalenza delle attenuanti, solo quest’ultime agiranno sulla cornice edittale, viceversa in caso di prevalenza delle circostanze aggravanti. È chiaro allora come nella prassi spesso poteva capitare che l’ex attenuante di cui all’art. 73, c.5 del d.P.R. 309/1990 fosse ritenuta soccombente nel giudizio di comparazione, e conseguentemente annullata nella sua portata deflattiva in favore, anzi, del riconoscimento delle sole aggravanti. Una circostanza resa ancora più grave dopo lo sciagurato intervento del legislatore, realizzato con l. 251 del 2005, con il quale si prevedeva (prima che la Corte costituzionale intervenisse, di recente, a dichiararne la illegittimità) che il giudizio di comparazione avrebbe sempre dovuto essere risolto, da parte del giudice, in favore delle circostanze aggravanti qualora il reo fosse stato recidivo. Va da sé comprendere come la recidiva, nell’ambito dei reati in materia di sostanze stupefacenti, sia estremamente diffusa a causa della condizione di tossicodipendenza nella quale spesso si trova il soggetto agente che integra la condotta tipica in parola. Il lettore può ora comprendere la portata di questo intervento, apparentemente di sola precisazione terminologica.
Ma il fronte degli interventi sulla specifica materia dei reati relativi alla produzione, alla detenzione e al traffico di stupefacenti e sostanze psicotrope non si limita a quanto detto, bensì si fregia ulteriormente dell’abrogazione del c.5 dell’art. 94 dello stesso d.P.R. 309/1990, il quale limitava l’accesso alla misura alternativa dell’affidamento in prova per tossicodipendenti ai soli soggetti non recidivi, con conseguente restrizione del fondamentale diritto degli altri a protrarre le cure necessarie alla disintossicazione eventualmente intraprese, o che si volessero intraprendere. Due interventi, a mio avviso, pregevoli e necessari. Va invero considerata la troppo elevata percentuale di tossicodipendenti che popola da sempre le carceri italiane, spesso peraltro a causa della commissione di reati anche molto lievi, oltre all’inadeguatezza che una misura come la detenzione in carcere riveste nei loro confronti, sia a fini di cura e disintossicazione, sia e correlativamente al fine di combatterne la recidiva.
  1. La previsione di una serie di modifiche volte al miglioramento delle modalità di controllo degli arresti domiciliari, delle misure alternative alla detenzione, degli istituti della liberazione anticipata e dell’ espulsione del reo extracomunitario:
Sul secondo fronte di intervento, il legislatore agisce nuovamente con il (solo) intento di giungere ad una consistente diminuzione della popolazione detenuta. In particolare, e in primo luogo, interviene sulle modalità di controllo degli arresti domiciliari, realizzando una puntuale modifica dell’art. 275 cod. proc. pen. volta a rendere “ordinario”, per il giudice che ritenga di disporre siffatta misura cautelare, prescrivere altresì l’impiego di “procedure di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici”, opportunità precedentemente lasciata alla sua discrezione. La possibilità di richiedere l’utilizzo di tali strumenti è stata peraltro estesa anche al magistrato di sorveglianza, che potrà quindi disporne l’impiego in costanza con l’esecuzione della custodia cautelare presso il domicilio, ad esempio qualora si verifichino episodi che lo inducano a ritenerlo necessario. L’intento del legislatore è chiaramente quello di rendere più sicura e affidabile la misura degli arresti domiciliari, al fine di aumentarne consistentemente l’utilizzo in luogo della custodia cautelare in carcere. Un ottimo proposito, non fosse che il Paese non è ancora tecnicamente pronto (e viste le difficili condizioni del nostro bilancio pubblico non lo sarà per molto) a predisporre l’utilizzo di queste tecnologie, invero piuttosto costose.
In secondo luogo, nel tentativo di giungere ad un potenziamento delle misure alternative alla detenzione in carcere, il legislatore è intervenuto sulla disciplina dell’affidamento in prova al servizio sociale, introducendo un nuovo comma all’art. 46 della legge sull’ordinamento penitenziario (n. 354 del 1975). L’interpolazione è diretta a permettere un ampliamento dell’ambito applicativo della misura in parola, in particolare prevedendo che vi possano accedere anche i condannati in via definitiva ad una pena detentiva non superiore a quattro anni di reclusione, mentre precedentemente la pena espianda non doveva superare i tre anni. Oltre a dover constatare una curiosa coincidenza con le vicende giudiziarie di un certo uomo politico, duole prendere atto di come l’unico intento che abbia mosso la mano riformatrice del legislatore sembra essere stato quello di un aumento dei soggetti destinatari di tale misura, quando invece sarebbe stato forse più opportuno, almeno a mio avviso, mettere mano alla stessa ‘sostanza’ dell’affidamento ai servizi sociali, anche al fine di sfruttarne appieno le potenzialità rieducative.
Pregevole risulta invece, secondo chi scrive, l’effettuata rimodulazione dei poteri e delle competenze del magistrato di sorveglianza. Entro tale ambito di intervento trovo di particolare interesse l’introduzione di un nuovo comma 4 all’art. 47 della l. n. 354 del 1975, in ossequio al quale egli potrà ora disporre autonomamente, qualora siano offerte concrete indicazioni in ordine alla sussistenza dei presupposti per l’ammissione del detenuto all’affidamento in prova, e al grave pregiudizio derivante dalla eventuale protrazione dello stato di detenzione (e non vi sia pericolo di fuga), il temporaneo affidamento in prova al servizio sociale del detenuto. Decisione la quale, entro sessanta giorni, sarà poi oggetto di revoca o conferma da parte del Tribunale di sorveglianza, ma che intanto si presenta idonea a sottrarre con rapidità il detenuto dall’inadeguatezza di una eventuale (e per vero molto frequente) condizione detentiva degradante e contraria ai suoi diritti fondamentali, conformemente allora a quanto richiesto a più riprese dalla CEDU in occasione della “sentenza Torreggiani” (v. sopra: i c.d. rimedi preventivi).
Tra gli interventi da annoverare entro il preciso intento del riformatore di giungere ad un consistente potenziamento del ventaglio di misure restrittive della libertà personale alternative alla detenzione in carcere, vi è inoltre la stabilizzazione dell’istituto dell’esecuzione di pena detentiva, non superiore a diciotto mesi (anche se residui di una maggior pena), presso il domicilio del condannato ovvero altro luogo, pubblico o privato, di cura o assistenza. Si trattava (v. anche post #21) di un istituto sperimentale, introdotto dal legislatore del 2010 a seguito della prima forte presa di coscienza della grave emergenza carceraria del Paese, peraltro solo in via temporanea. Il d.l. 22 dicembre 2011, n. 211, dell’allora Ministro della Giustizia, Paola Severino Di Benedetto, lo aveva ampliato nella sua portata applicativa, portando la pena espianda da potersi eseguire presso il domicilio da dodici a diciotto mesi, non optando invece per la sua stabilizzazione. Una misura molto utile sul fronte della riduzione della popolazione detenuta in carcere, ma che sarebbe scomparsa ipso iure, a decorrere dal 1° gennaio 2014, se il legislatore del 2013 non fosse finalmente intervenuto ad eliminarne la temporaneità, facendone pertanto un istituto certo e stabilmente inserito nel tessuto normativo.
Costantemente mosso dall’intento di giungere a centrare l’obiettivo pratico dello sfollamento delle strutture di edilizia penitenziaria, il legislatore ha poi proceduto a rendere maggiormente incisivo lo strumento della c.d. liberazione anticipata. Si tratta di una misura molto discussa, in quanto volta a sottrarre automaticamente, senza cioè che sia necessaria l’intermediazione da parte del giudice della cognizione ovvero di quella del magistrato di sorveglianza, ben 75 giorni di pena detentiva per ogni sei mesi di pena espiata. Prima dell’intervento riformatore di cui in parola i giorni detratti erano invece “solo” 45, mentre per converso lo stesso legislatore ha, in sede di conversione del d.l., ridotto la portata dei soggetti che possono avvalersi di questo sconto di pena. Una fuga dalla sanzione che si vedrebbe motivata dall’intento di realizzare uno di quei rimedi compensativi, richiesti dalla CEDU in sede di condanna per il c.d. “caso Torreggiani”, delle attuali degradanti condizioni che connotano l’esecuzione della pena detentiva nel nostro Paese. Proprio queste ultime, in particolare, renderebbero di fatto ciascun semestre di pena estremamente più afflittivo del normale e pertanto legittimerebbero la riduzione di pena. Conformemente a questa ratio, l’istituto della liberazione anticipata dovrebbe decadere a partire dal 24 dicembre 2015, data entro la quale evidentemente il legislatore spera di porre rimedio al problema del sovraffollamento, speranza che, a mio modo di vedere e preso atto dello stato dei fatti, rasenta l’utopia. Peraltro personalmente non ritengo che un’incondizionata fuga dalla sanzione come questa, seppur (sulla carta) condizionata alla dimostrazione, da parte del detenuto, di un certo grado di impegno nel partecipare al progetto di risocializzazione (v. post #20), possa dare esiti positivi. In primo luogo ne risente la credibilità complessiva del sistema sanzionatorio, dal momento che lo sconto di pena è sostanzialmente gratuito, limitandosi nella prassi la constatazione della pretesa partecipazione al percorso rieducativo al semplice accertamento della c.d. “buona condotta”. In secondo luogo, e per quanto poc’anzi affermato, si tratta allo stato dei fatti di una misura priva di qualsivoglia altra finalità se non quella di sfoltire le carceri, obiettivo certamente encomiabile, ma che dovrebbe sempre essere sorretto anche da finalità altre e congruenti con la funzione risocializzante attribuita, nel nostro ordinamento, alla sanzione penale. Peraltro è invalso, nella prassi dei tribunali, l’uso dei giudici di irrogare pene detentive sempre il più possibile prossime al minimo editale, proprio per la ragione addotta alla base dell’istituto della liberazione anticipata, il quale quindi si aggiunge a questa (buona) prassi della giurisprudenza rendendo alle volte ridicole le sanzioni comminate anche per reati molto gravi.
Lo stesso fervore, volto alla deflazione delle attuali condizioni di sovraffollamento delle carceri italiane, ha indotto il legislatore ad intervenire anche in materia di espulsione dei cittadini extracomunitari autori di reato. In particolare l’art. 6 del d.l. n. 146 del 2013 ha esteso l’ambito di applicazione della misura e previsto una più sollecita procedura per l’identificazione dei detenuti, nonché una più “garantita” procedura di espulsione, con quello che personalmente ritengo un intervento sciagurato sotto più punti di vista. Espellere un cittadino extracomunitario, come invero avverrà più frequentemente grazie a questo decreto, spesso può voler dire condannarlo a morte certa, o comunque a gravi condizioni di vita e/o di detenzione in paesi dove guerre, carestie e tortura fanno da padrone. Come sia stato possibile che un siffatto ampliamento delle possibilità di impiego di una misura come questa sia avvenuto in costanza di un Governo, seppur di “larghe intese”, guidato da una decisiva componente di centro-sinistra, probabilmente non è dato saperlo; ciò che invece dovrebbe essere chiaro, quantomeno al legislatore, è che il diritto di potersi avvalere di una sanzione orientata al recupero del reo e alla sua risocializzazione (e quindi, nel caso dell’immigrato, integrazione) non dovrebbe dipendere dal luogo di nascita del detenuto.
  1. Il potenziamento e la concretizzazione degli istituti volti alla tutela dei diritti del detenuto.
Infine, il d.l. 23 dicembre 2013, n.146, si è occupato di una criticità che la CEDU aveva a più riprese individuato come di urgente riparazione, ossia la mancanza di strumenti “effettivi” che permettessero al detenuto di proporre reclami alle autorità competenti per ottenere con celerità provvedimenti che tutelassero i suoi diritti fondamentali, anche eventualmente permettendo a queste ultime, e in particolare al magistrato di sorveglianza, di impartire prescrizioni vincolanti all’autorità amministrativa dell’istituto penitenziario. Il Governo italiano aveva a tal proposito opposto l’esistenza degli artt. 35 e 69 della legge n. 354 del 1975 (legge sull’ordinamento penitenziario), che disciplinano invero il c.d. reclamo generico posto a disposizione dei detenuti per far valere le proprie istanze. Tuttavia la CEDU si era dimostrata glaciale nel constatare che questa misura, pur astrattamente idonea a garantire al detenuto possibilità di fare istanza per la rimozione di condizioni detentive degradanti, non permettevano in concreto di giungere ad una celere sottrazione dalla situazione di pregiudizio e violazione dell’art. 3 della Convenzione, e quindi non garantivano una piena tutela dei diritti, non solo del recluso, ma più in generale di ogni persona sottoposta in carcere a restrizione della propria libertà personale.
Il primo Governo della XVII legislatura è allora intervenuto, in particolare, e in primo luogo, a rideterminare le Autorità destinatarie del c.d. reclamo generico, aggiungendo al direttore dell’istituto, al Ministro della giustizia, alle autorità giudiziarie e sanitarie in visita all’istituto, al presidente della giunta regionale, al magistrato di sorveglianza e al Capo dello Stato, anche il provveditore regionale, il Garante nazionale ed i garanti regionali o locali dei diritti dei detenuti (v. infra). In secondo luogo ha proceduto all’introduzione di un nuovo istituto, il c.d. reclamo giurisdizionale, esperibile con riguardo, da un lato, alla materia disciplinare e, dall’altro, all’inosservanza, da parte dell’Amministrazione penitenziaria, delle disposizioni di cui alla legge n. 354 del 1975 (legge sull’ordinamento penitenziario) e al Regolamento di esecuzione, dalle quali derivi al detenuto o all’internato un attuale e grave pregiudizio all’esercizio dei suoi diritti.
Di particolare interesse è inoltre l’introduzione della nuova figura del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Si tratta di un organo collegiale composto da tre persone nominate dal Presidente della Repubblica. Ad esso sono affidati, in particolare, il compito di vigilare affinché l’esecuzione di qualsiasi misura restrittiva della libertà personale sia attuata in conformità alle norme e ai principi della Costituzione, delle Convenzioni internazionali sui diritti umani, delle leggi e dei regolamenti, oltre che il compito di verificare il rispetto degli adempimenti previsti dalla normativa in materia di Centri di identificazione ed espulsione. A tal fine, tale organismo, è dotato innanzitutto di ampi poteri conoscitivi, godendo della piena facoltà di accedere a tutti i luoghi di esecuzione di pene o misure di sicurezza, ma soprattutto sembra essere investito di specifici poteri prescrittivi, tali per cui egli è chiamato a formulare, ai sensi della lettera del decreto, “specifiche raccomandazioni all’amministrazione interessata”, qualora accerti violazioni delle norme dell’ordinamento, ovvero la fondatezza delle istanze e dei reclami proposti ai sensi dell’art. 35 della legge 26 luglio 1975, n. 354.
Il legislatore si è inoltre preoccupato di giungere a differenziare le forme di svolgimento del procedimento di sorveglianza, riservando quella del contraddittorio alle materie più direttamente incidenti sui diritti fondamentali della persona, al fine di evitare un eccessivo dispendio di energie e risorse per vicende di “secondario rilievo”.
Si tratta invero di provvedimenti, questi ultimi, a mio giudizio certamente positivi. Peraltro la sensazione che emerge, almeno per chi scrive, dalla lettura del dispositivo di condanna della CEDU era nel senso di richiedere al legislatore non solo e non tanto un intervento normativo, quanto più l’attuazione di una serie di comportamenti politici concretamente volti a rendere effettivi, anche e soprattutto nella prassi, tali strumenti di tutela che spesso, come ha efficacemente appreso chi abbia avuto visione dei video posti in calce al post #20, sono resi inattivabili dall’atteggiamento ostativo, non certo encomiabile, di alcuni membri del personale impiegato presso l’istituto penitenziario di volta in volta considerato.
Nel suo insieme non si può negare che il d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, inserito nel complesso degli interventi precedentemente realizzati nell’ambito della XVI legislatura, costituisca un importante passo in avanti verso l’attenuarsi della grave inflazione del sistema carcerario italiano. Peraltro, se la Corte europea dei diritti dell’uomo riterrà sufficienti tali provvedimenti, non ho la competenza per pronosticarlo. Certo è che molto di più si poteva fare. In particolare, ciò che personalmente individuo come una manchevolezza, è che ci troviamo ancora di fronte ad una serie di interventi solamente settoriali, che intervengono volta per volta puntualmente su singole disposizioni dell’ordinamento, mossi esclusivamente dalla volontà di perseguire la riduzione della popolazione detenuta presso le carceri senza però anche preoccuparsi di quale (o quali) funzione attribuire a quelle sanzioni alternative, a quelle misure punitive, che si vengono allora modificando. Una manchevolezza che costituisce del resto il riflesso di quella che personalmente osservo come una società pragmatica, materialista, che non ha tempo o non ha le competenze per pensare ad un obiettivo, o ad una serie di obiettivi, che vadano al di là del mero traguardo pratico.
Conclusione:
Le attuali condizioni di esecuzione della pena detentiva in carcere umiliano la dignità umana del condannato, realizzando un inaccettabile vilipendio ai principi costituzionali della nostra Repubblica e alla stessa immagine dell’Italia tra le Nazioni culturalmente ed economicamente più progredite. Ma L’esigenza, non rinviabile, di pervenire a una risoluzione quanto più rapida ed effettiva di questa emergenza, a mio avviso, potrebbe e dovrebbe costituire la sponda per mettere in atto una più ambiziosa riforma complessiva del sistema sanzionatorio, volta a ricondurre a coerenza e a semplicità il panorama delle sanzioni penali incriminatrici, tanto principali quanto accessorie e cautelari, che allo stato dei fatti hanno ormai raggiunto un troppo elevato grado di complessità, incongruenza e aridità di funzioni meta-punitive; ciò quantomeno nell’attesa di un legislatore sufficientemente competente e illuminato, tale da essere finalmente in grado di cancellare dall’ordinamento giuridico italiano un codice penale tanto inadatto, politicamente prima ancora che tecnicamente, a governare una realtà così mutata rispetto a quella dell’Italia fascista che ne ha visto gli albori. Chi scrive ritiene che la grave ipertrofia del sistema carcerario italiano, descritto nel corso di questi scritti, possa trovare una radicale e definitiva risoluzione solo nella prospettiva di un nuovo codice penale conforme e all’altezza della Costituzione repubblicana. Un codice penale che abbia a suo movente un’idea di giustizia tale per cui non si affidi più alle irrazionali istanze repressive dell’opinione pubblica il destino di un uomo e della sua famiglia, ma alla superiore capacità discretiva di un sistema giuridico ben congeniato e sorretto dall’idea per cui “Giustizia” non è solo e non tanto vedere un uomo condannato a vita alla reclusione, privato della sua stessa essenza di essere umano, ma ammirare la riuscita di un percorso rieducativo e risocializzante che permetta al reo, una volta espiata la sua pena, di riparare al danno, causato alla società attraverso il reato, con il lavoro, l’onestà e il reinserimento.



Domenica 11 Maggio,2014 Ore: 17:10
 
 
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