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www.ildialogo.org Ancora sull’emergenza carceri, le indicazioni e i moniti della giurisprudenza spingono i provvedimenti della XVII legislatura: il d.l. n. 146 del 2013.,di Marco Marengo

Ancora sull’emergenza carceri, le indicazioni e i moniti della giurisprudenza spingono i provvedimenti della XVII legislatura: il d.l. n. 146 del 2013.

di Marco Marengo

Dal blog di Renata Rusca Zargar SENZA FINE
1. Quando la giurisprudenza si pronuncia sull’emergenza carceri: a) - la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo condanna (di nuovo) l’Italia; b) - un severo monito dalla Corte costituzionale: la Sent. 22 novembre 2013, n. 279; - 2. Nel tentativo di adempiere alle prescrizioni della CEDU, la risposta delle “Larghe intese” al sovraffollamento: il d.l. 23 dicembre 2013, n. 146; - Conclusione.
(Parte I)
Premessa:
In questo terzo articolo di una serie dedicata all’emergenza carceri nel nostro paese (vv. post #20 e #21), mi occuperò di tracciare una breve analisi del principale provvedimento assunto dal primo Governo della XVII legislatura (c.d. “Governo Letta”) in materia, il d.l. 23 dicembre 2013, n.146, non esimendomi, come di consueto, dal fornire alcune mie personali considerazioni circa il merito delle soluzioni adottate. Peraltro, in primo luogo, ho ritenuto opportuno offrire al lettore una modesta panoramica sul c.d. “Caso Torreggiani e altri c. Italia”. Un episodio emblematico dal quale ha preso luogo un’importante sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo (CEDU) che, a causa del trattamento degradante protratto ai danni dei ricorrenti durante il periodo di loro detenzione, l’8 gennaio 2013, condanna (nuovamente) l’Italia per violazione dei diritti umani e, segnatamente, dell’art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, richiedendo a gran voce ai responsabili della Nazione di attuare provvedimenti normativi e comportamenti politici volti a lenire tale emergenza. Peculiarità del dispositivo di condanna è l’essersi la Corte preoccupata di fornire anche una serie di indicazioni che il nostro Paese avrebbe dovuto seguire per giungere a tale obiettivo, indicazioni invero in parte confluite (e vedremo con quali modalità) nel d.l. 146 del 2013 (c.d. “svuota carceri”). Qualche cenno sarà poi dedicato anche all’importante e correlata sentenza del 22 novembre 2013, n. 279, della nostra Corte costituzionale con la quale i suoi membri muovono un severo monito al legislatore, unendosi alla CEDU nell’appello a risolvere con misure strutturali l’attuale grave inflazione nella quale vertono la maggior parte degli istituti di pena italiani. Articolo il presente che conclude questa mia prima serie di ‘post’ sull’argomento dell’emergenza carceri, ma solo temporaneamente. Il mio intento è invero quello di aggiornare costantemente il dibattito su questo tema in contemporanea con quelli che saranno i prossimi interventi legislativi e le nuove sentenze connessi a questa grave patologia della nostra modernità.
1. Quando la giurisprudenza si pronuncia sull’emergenza carceri:
  1. - la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo condanna (di nuovo) l’Italia.
In data 8 gennaio 2013 la Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in poi ‘CEDU’), con sede a Strasburgo, dichiara nuovamente l’Italia (v. precedentemente Sent. “Salejmanovic c. Italia”, del 16 luglio 2009) colpevole di aver violato l’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (d’ora in poi ‘Convenzione’), il quale, con disposizione di rara concisione ed incisività, enuncia un fondamentale principio di civiltà politica, tale per cui “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”.
La sentenza che ne deriva contiene pesanti conclusioni circa le condizioni di sovraffollamento e degrado che il panorama italiano degli oltre 200 istituti di pena presenti sul territorio offre al suo osservatore, definite a più riprese “strutturali” e “sistematiche”.
Il caso di specie vedeva i ricorrenti, un detenuto e sei ex detenuti presso le carceri di Piacenza e Busto Arsizio, lamentare la violazione dei propri diritti umani e in particolare del ricordato art. 3 della Convenzione, a causa, ancora una volta, delle degradanti condizioni in cui furono ristretti a scontare le proprie pene detentive. In particolare, ciascuno di essi affermò di essere stato costretto a condividere con altri due detenuti celle che a stento raggiungevano la soglia dimensionale dei nove metri quadrati, avendo quindi a disposizione uno spazio vitale di all’incirca tre metri quadrati ciascuno: limite minimo al di sotto del quale, su indicazione della stessa giurisprudenza della CEDU e dei numerosi rapporti del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (d’ora in poi ‘CPT’), l’esecuzione della pena detentiva trasmoda perciò stesso in tortura. Peraltro se dalla superficie della cella, come prevedono le norme in vigore a livello internazionale per la determinazione dello spazio vitale a disposizione dei detenuti, si sottrae lo spazio occupato dal mobilio, ecco che la soglia minima dei tre metri quadrati si infrange.
A tale condizione abitativa, già di per sé idonea quindi a violare l’art. 3 della Convenzione, si aggiungevano, a denuncia dei ricorrenti e in modo pressoché analogo in entrambi gli istituti di pena coinvolti, Piacenza e Busto Arsizio, gravi difficoltà nell’accedere ai servizi igienici e alle docce.
Superate facilmente le obiezioni eccepite in sede processuale dal Governo italiano, i giudici della CEDU dichiarano l’Alta parte contraente (lo Stato italiano) responsabile per la violazione della norma convenzionale richiamata dai ricorrenti e la condannano al risarcimento del danno subito da quest’ultimi. Ma qui viene in gioco la particolarità di questa pronuncia: la CEDU ha invero optato, in tale occasione, per l’emanazione di una “sentenza pilota” che, conformemente ai poteri attribuitile ai sensi dell’art. 46 della Convenzione, le permette (in breve) di condizionare l’esecutività del dispositivo di condanna all’adempimento da parte del destinatario di esso di una serie di obblighi.
In particolare i giudici di Strasburgo, nel condannare l’Italia, hanno subordinato l’effettiva operatività delle sanzioni dedotte alla circostanza per cui il nostro paese, entro un anno da quando la sentenza sia stata resa definitiva ai sensi dell’art. 44 della Convenzione (e pertanto entro e non oltre il 28 maggio 2014), ponga in essere "un ricorso o un insieme di ricorsi interni idonei ad offrire un ristoro adeguato e sufficiente per i casi di sovraffollamento carcerario, in conformità ai principi stabiliti dalla giurisprudenza della Corte" oltre a dare luogo, come si desume non già altrettanto chiaramente dal dispositivo finale di ‘condanna’, bensì dal più complesso articolato di argomentazioni in cui si snoda il ragionamento della CEDU (§ 91 e ss.), ad una serie di “misure a carattere generale” di medio - lungo periodo, volte a risolvere strutturalmente il problema del sovraffollamento delle carceri eliminandone le cause.
In altre parole, due sono i fronti di intervento che si richiedono all’Italia: 1. Strutturale, che nel medio - lungo periodo agisca direttamente sulle cause del sovraffollamento, sia con riforme di ampio respiro del sistema sanzionatorio, sia e parallelamente con il proseguimento nella costruzione di nuove carceri e nel risanamento di quelle esistenti; 2. Individuale, che nel breve periodo preveda l’introduzione di rimedi preventivi (volti cioè a permettere di sottrarre con rapidità il detenuto dall’inadeguatezza della sua condizione detentiva, ovvero volti ad impedirne ex ante la verificazione) da un lato e rimedi compensativi (volti cioè a permettere al danneggiato da una consimile situazione detentiva di ottenere successivamente un serio ristoro da parte dello Stato) dall’altro. La stessa CEDU, peraltro, sancisce la sua incompetenza a fornire suggerimenti più dettagliati, ovvero a proporre soluzioni specifiche per il raggiungimento di questi obiettivi, lasciando quindi il compito di declinare concretamente le sue indicazioni al legislatore nazionale.
Infine, nell’attesa (e nella speranza) che l’Italia realizzi questi adempimenti, la CEDU ha sospeso, sempre per un anno a decorrere dal passaggio in giudicato della sentenza di cui in parola, la ricevibilità di tutti i ricorsi ad essa indirizzati contro lo Stato italiano che riguardino esclusivamente le condizioni di vita in carcere, dei quali si riserba peraltro di rigettare definitivamente l’accoglimento se il nostro paese, alla fatidica data del 28 maggio 2014, avrà adempiuto ai suoi obblighi. Ricorsi che, nel frattempo, si sono accumulati fino a superare la soglia dei 3.000.
Ciò significa che se l’Italia non avrà correttamente risposto alle aspettative della CEDU entro il termine perentorio assegnatole, non solo diverrà esecutiva la condanna al risarcimento dei danni a favore dei sette ricorrenti del “caso Torreggiani”, ma anche quell’enorme ammontare di ricorsi che ora sono, per così dire, “ibernati”, diverranno invece nuovamente ricevibili, esponendo il paese con tutta probabilità a una pioggia di nuove sanzioni pecuniarie per violazione dell’art. 3 della Convenzione; ovviamente tutte a carico del nostro già enorme debito pubblico.
Non è però naturalmente solo questione di opportunità economica. Per dirla con le parole della dott.sa Angela Della Bella, “L’adempimento […] è un imperativo morale, in considerazione delle condizioni di degrado nelle quali il sovraffollamento costringe migliaia di uomini all’interno dei nostri istituti penitenziari; è un obbligo costituzionale, che ci deriva dall’art. 117 Cost., a nome del quale la potestà legislativa deve essere esercitata dallo Stato nel rispetto degli obblighi internazionali […] e anche dagli art. 2 e 27 co. 3 Cost., che impongono una tutela inderogabile della dignità dell’uomo, anche quando privato della libertà personale; (infine) è un atto politicamente necessario, per la condizione umiliante che altrimenti il nostro Paese verrebbe ad assumere sul piano internazionale […]” (da “Il termine per adempiere alla sentenza Torreggiani si avvicina a scadenza: dalla Corte costituzionale alcune preziose indicazioni sulla strategia da seguire”, in Riv. It. diritto penale contemporaneo).
  1. - un severo monito dalla Corte costituzionale: la Sent. 22 novembre 2013, n. 279.
A distanza di quasi un anno dalla “sentenza Torreggiani” la Corte costituzionale, con sentenza del 22 novembre 2013, n. 279, si è pronunciata su due ordinanze di remissione, rispettivamente sollevate dai Tribunali di Venezia e Milano, aventi ad oggetto la questione di legittimità costituzionale dell’art. 147 cod. pen., disciplinante l’istituto del Rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena. Si tratta di una norma che permette al giudice di differire l’esecuzione di una pena detentiva, già irrogata, qualora ricorrano una delle tre ipotesi tassativamente previste dalla norma stessa (1. Se è presentata domanda di grazia; 2. Se il destinatario della sanzione detentiva si trova in condizioni di grave infermità fisica; 3. Se la destinataria della sanzione detentiva è madre di prole di età inferiore ai tre anni).
I giudici a quobis , allora particolarmente coscienti e sensibili al problema del sovraffollamento carcerario, eccepivano l’illegittimità della norma nella parte in cui non prevede la possibilità di sospendere e quindi differire l’esecuzione della pena detentiva, oltre che nelle tre ipotesi già previste, anche qualora questo voglia dire sottoporre il reo a condizioni di vita degradanti e contrarie al senso di umanità, e fino a quando presso l’istituto penitenziario di destinazione non si fossero realizzate le circostanze indispensabili per una regolare detenzione, rispettosa della dignità umana e dei diritti fondamentali del detenuto. In altre parole, essi chiedevano alla Corte costituzionale di emettere una sentenza additiva di accoglimento, con la quale i giudici delle leggi avrebbero, appunto, accolto la questione così come prospettata dagli istanti, affermando conseguentemente che senza quell’addizione la norma sarebbe stata incostituzionale e pertanto ponendola in essere essi stessi, creandola quindi per via esegetica.
Una tipologia di sentenza che ai digiuni della materia potrebbe sembrare un incomprensibile sconfinamento nell’area di competenza del legislatore, ma che si distingue dall’esercizio del potere legislativo in quanto la Corte costituzionale non ha comunque quella completa libertà creativa che caratterizza invece la funzione legislativa, dovendo invero giustificare sempre le sue conclusioni a partire dalla lettera della disposizione oggetto della sentenza additiva e da argomentazioni fondate su norme e principi di rango costituzionale. In ogni caso si tratta indubbiamente di un potere interpretativo molto ampio e con margini di creatività elevati, ma che in ogni caso da ormai una decina d’anni la Corte costituzionale si è avocata, non esitando peraltro ad utilizzarlo nelle circostanze di maggiore urgenza e, rispettivamente, di peggiore inerzia del Parlamento.
Comprensibile quindi la speranza dei ricorrenti di ottenere una decisione in tal senso orientata, ricorrendo entrambe quest’ultime circostanze, se non fosse che in questo caso la Corte costituzionale sembra non aver ritenuto opportuno l’impiego di questa soluzione, rigettando la questione di legittimità costituzionale asserendo la necessaria interposizione del legislatore.
Significative sono però le parole usate dai giudici delle leggi al momento del rigetto: “Nel dichiarare l’inammissibilità «questa Corte deve tuttavia affermare come non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine al grave problema individuato nella presente pronuncia» (sentenza n. 23 del 2013)”. Singolare è in particolare la citazione che la stessa Corte costituzionale fa di una propria sentenza (la n. 23 del 2013), come a voler far intendere al legislatore che non è la prima volta ch’essa richiama la sua attenzione su questo argomento e come a voler porre un severo monito tale per cui, in caso di ulteriore immobilità da parte del legislatore, la Corte non avrà altra scelta se non intervenire con il suo ampio potere di interpretazione additiva.



Mercoledì 07 Maggio,2014 Ore: 17:38
 
 
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