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www.ildialogo.org Il “Governo tecnico” alle prese con il sovraffollamento carcerario e l’ipertrofia del sistema sanzionatorio: Il c.d. “Pacchetto - giustizia”.,di Marco Marengo

Il “Governo tecnico” alle prese con il sovraffollamento carcerario e l’ipertrofia del sistema sanzionatorio: Il c.d. “Pacchetto - giustizia”.

di Marco Marengo

Dal blog di Renata Rusca Zargar SENZA FINE
1. Emergenza carceri, la prima risposta dal “Governo Monti": il D.l. 22 dicembre 2011, n. 211; - 2. Nella prospettiva di una riforma complessiva del sistema sanzionatorio: il d.d.l. 29 febbraio 2012, n. 5019.
Premessa:
Delineato nell’articolo precedente (post #20) lo stato di grave emergenza in cui versano gli istituti di pena italiani, per degrado edilizio e sovraffollamento, e osservato come questo contrasti palesemente con il dettato costituzionale e il senso di umanità, vorrei ora procedere, senza soluzione di continuità, ad esaminare l’operato del legislatore in materia, così da di individuarne ragioni, obiettivi e contenuti. Nel farlo prenderò le mosse dal D.l. 22 dicembre 2011 n. 211, varato nell’ambito della XVI legislatura dal “Governo Monti” (§1) e dal d.d.l. 29 febbraio 2012, n. 5019, presentato dall’allora Ministro della Giustizia, Paola Severino Di Benedetto (§2). In un secondo momento procederò invece ad analizzare il principale intervento posto in essere nel corso della XVII legislatura (“Governo Letta”) sulla materia di cui trattasi, ossia il D.l. 23 dicembre 2013, n. 146 ( c.d. “Decreto svuota - carceri”), recentemente convertito in legge dello Stato dal Parlamento. Nel corso della trattazione darò luogo ad alcune mie considerazioni circa le carenze e le positività di questi interventi, scorrendo la possibilità di ricorrere a sanzioni alternative alla detenzione in carcere, ontologicamente inadatta al recupero del reo (v. articolo precedente).
1. Emergenza carceri, la prima risposta dal “Governo Monti”: il D.l. 22 dicembre 2011, n.211.
Il D.l. 22 dicembre 2011, n. 211 (conv. in L. 17 febbraio 2012 n.19), prevede “Interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri”. Si tratta del primo provvedimento emanato dal Governo tecnico in questa delicata materia e si articola in due profili di intervento, quello sul piano processuale e quello sul piano sostanziale.
Per quanto concerne il primo (quello processuale) di particolare interesse è la preoccupazione del decreto ad assicurare ai soggetti fermati o arrestati in flagranza, destinati quindi a brevi permanenze presso l’istituto penitenziario del luogo (solitamente 2 - 3 giorni), un trattamento differenziato rispetto agli imputati in custodia cautelare, oppure già condannati in via definitiva. Se invero per questi ultimi è prevista, rispettivamente, la detenzione presso case circondariali e di reclusione, fino all’emanazione del decreto in commento anche i destinatari di provvedimenti quali l’arresto in flagranza o il fermo venivano ugualmente indirizzati a veri e propri istituti di pena come questi (c.d. “Carcere a porte girevoli”, per la fugacità di questi soggiorni). Il Governo della XVI legislatura propone invece di permettere a costoro di sfuggire all’inadeguatezza del sistema carcerario e ciò attraverso la loro custodia presso le c.d. “Camere di sicurezza” presenti nelle caserme, nei commissariati e presso le Procure delle grandi città (Milano, Torino, Genova, ecc.).
A questo riferimento va però innanzitutto eccepito come anche le “Camere di sicurezza”, a disposizione delle Forze dell’ordine e della magistratura, non vertano in condizioni ottimali ed anzi siano quasi ovunque bisognose di ingenti ristrutturazioni. Inoltre, se non soprattutto, va sottolineato come la custodia presso queste strutture non sia idonea a garantire, con sufficiente rigore, l’accertamento di eventuali maltrattamenti o vessazioni da parte del personale di polizia (“lato sensu” inteso) sull’arrestato; episodi che, pur senza venir meno la fiducia in chi presta servizio nelle Forze dell’ordine, vanno comunque tenuti in considerazione come di possibile verificazione (come del resto dimostrano i casi di cronaca che hanno riguardato il nostro paese). D’altra parte non va però ignorato l’impatto quantitativo di una misura siffatta sulla popolazione detenuta, invero ogni anno gli ingressi in carcere di brevissima durata sono c.a. 20.000.
In secondo luogo, ma sempre nell’ambito degli interventi sul sistema processuale, il D.l. n. 211 del 2011 è andato a ridurre a quarantotto ore il tempo massimo che può intercorrere tra l’arresto in flagranza (o il fermo) e la presentazione dell’arrestato al giudizio di convalida davanti al tribunale, sopprimendo la disposizione che consentiva di fissare l’udienza entro le quarantotto ore successive, anziché all’arresto, alla richiesta del pubblico ministero. Una misura questa, seppur di scarsa rilevanza quantitativa sul sovraffollamento carcerario, senz’altro pregevole, in quanto contribuisce a ridurre e a conferire certezza al lasso di tempo in cui il soggetto in stato di arresto sarà costretto in condizioni di restrizione della propria libertà personale prima di comparire davanti al giudice.
Per quanto concerne invece l’intervento sul piano del diritto penale sostanziale, la sua portata si esaurisce (purtroppo) a una scarna e puntuale modifica dell’art. 1 della Legge 26 novembre 2010 n. 199 (c.d. “Legge sfolla - carceri”), il quale, prima dell’emanazione del D.l. 211/2011, disponeva che: “Fino alla completa attuazione del piano straordinario penitenziario nonché in attesa della riforma della disciplina delle misure alternative alla detenzione e, comunque, non oltre il 31 dicembre 2013, la pena detentiva non superiore a dodici mesi, anche se costituente parte residua di maggior pena, è eseguita presso l'abitazione del condannato o altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza […]”. L’art. 3 del D.l. 22 dicembre 2011, n. 211, dispone invece, sotto la rubrica “modifiche alla legge 26 novembre 2010 n. 199”, che: “All'articolo 1 della legge 26 novembre 2010, n. 199, nella rubrica e nel comma 1 (v. sopra), la parola: «dodici» è sostituita dalla seguente: «diciotto»”. Si tratta, come risulta evidente, di una estensione dell’applicabilità della c.d. “esecuzione presso il domicilio delle pene detentive”, introdotta nel 2010 con una disposizione sperimentale e dunque temporanea (“non oltre il 31 dicembre 2013”). Evidentemente, secondo l’allora titolare del dicastero “Giustizia”, l’avv. Paola Severino Di Benedetto, la sperimentazione di questo istituto avrebbe prodotto buoni risultati, sì da farle ritenere opportuna una sua estensione applicativa, invero piuttosto significativa (anche se, nel dibattito parlamentare, si era parlato addirittura di estenderne l’applicazione fino a ventiquattro mesi di pena detentiva).
Detto questo sorge allora spontaneo un quesito, ritenuto in fatto l’istituto della esecuzione presso il domicilio (o altro luogo di cura e/o assistenza) della pena detentiva un successo, sia da un punto di vista quantitativo (per il numero di soggetti che aveva e ha coinvolto attraverso questa estensione) che qualitativo (per il maggior rispetto della dignità umana che consegue alla sottrazione di un certo numero di soggetti dalla inadeguatezza del sistema carcerario), come motivare la decisione di non eliminarne la temporaneità? La risposta a questa domanda va probabilmente ricercata nell’intenzione del legislatore di procedere successivamente a una razionalizzazione complessiva del sistema sanzionatorio, testimoniata invero dal d.d.l. del 29 febbraio 2012, n. 5019, presentato dall’allora Ministro della giustizia, Paola Severino Di Benedetto.
Il D.l. 211 del 2011 prevede infine la destinazione di 57 milioni di euro per la costruzione di nuove carceri, che invero hanno negli ultimi anni aiutato a lenire, seppur in minima parte, il problema del sovraffollamento (il picco si è avuto infatti proprio nel 2011, anno di emanazione del decreto in commento, mentre negli anni successivi il trend è discendente). Tuttavia non può ingenuamente pensarsi (e credo, visto anche il d.d.l. che mi appresto ad analizzare nel §2, che il legislatore del 2011 ne fosse consapevole) che basti costruire nuovi istituti di pena o migliorare quelli attuali per risolvere la grave ipertrofia del sistema carcerario italiano; necessarie sono invece riforme strutturali dell’ordinamento penitenziario e del sistema penale in generale, che involgano non solo il codice di procedura penale, ma anche lo stesso codice penale, tradizionalmente carente di norme rivolte alla prospettiva costituzionale della risocializzazione del reo, visto anche il legislatore che ne è il firmatario (Arturo Rocco, Ministro della Giustizia del Governo Mussolini).
2. Nella prospettiva di una riforma complessiva del sistema sanzionatorio: il d.d.l. 29 febbraio 2012, n. 5019.
Come anticipato il d.d.l. 29 febbraio 2012, n.5019, ricompreso in una serie di interventi che complessivamente vennero ribattezzati “Pacchetto - giustizia”, presenta al Parlamento italiano un progetto organico di riforma del sistema sanzionatorio, in coerenza con le scelte operate dal precedente D.l. 22 dicembre 2011, n. 211, e in particolare con quella di non giungere ad una stabilizzazione del temporaneo istituto della“esecuzione presso il domicilio delle pene detentive”.
Il disegno di legge in parola fu presentato e fortemente voluto dall’allora Ministro della giustizia, Paola Severino Di Benedetto e recava, in particolare, un’ambiziosa proposta di “delega al Governo in materia di depenalizzazione, sospensione del procedimento con messa alla prova, pene detentive non carcerarie, nonché sospensione del procedimento nei confronti degli irreperibili”. In tale prospettiva, esso si poneva invero quattro obiettivi principali:
I. la razionalizzazione dell’intero sistema sanzionatorio, attraverso la trasformazione dei reati punibili solo con sanzioni pecuniarie (multa o ammenda), nonché di alcune contravvenzioni punite con la pena alterativa dell’arresto o dell’ammenda, in speculari illeciti amministrativi, con esclusione di quei soli reati integranti la lesione (anche indiretta) o la messa in pericolo dei beni c.d. “personalissimi” dei cittadini, quali ad es. la vita, l’integrità fisio-psichica, la salute, ecc. (art. 2). Questo intervento si sarebbe reso, a mio avviso, estremamente utile. Non va invero dimenticato come la scelta della sanzione penale per la tutela di un determinato bene giuridico (ossia un valore, ovvero un bene che l’ordinamento ritiene meritevole di tutela) deve sempre costituire una decisione di extrema ratio, tanto che parte della dottrina arriva ad affermare come una determinata sanzione penale non possa dirsi legittima se lo stesso risultato di tutela poteva conseguirsi impiegando al suo posto una sanzione amministrativa. Ma ignorando tutto questo, per fini propagandistici e simbolici, il legislatore ha da molti anni intrapreso una politica criminale del tutto opposta, giungendo a determinare con le sue scelte di criminalizzazione lo stato attuale di ipertrofia del sistema penale. Tale condizione, a sua volta, ha contribuito nel tempo a determinare le attuali condizioni di sovraffollamento delle carceri, ma il problema dell’ipertrofia si riflette anche e soprattutto sulla patologica lentezza della giustizia penale italiana, la quale peraltro, portando a tempi di custodia cautelare ciclopici, influisce negativamente e aggrava la già gravissima emergenza carceraria di cui trattasi;
II. Introdurre la possibilità per il giudice della cognizione di decidere, nell’ambito dei procedimenti relativi alla commissione di reati punibili in misura non superiore a 4 anni di reclusione, la sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato: un istituto, seppur con qualche differenza, già presente nel nostro ordinamento (introdotto dal D.P.R. n. 448 del 1988), ma limitatamente alla giustizia penale minorile, nell’ambito della quale peraltro ha da sempre dato ottimi risultati. La messa alla prova per gli adulti (da non confondersi con l’affidamento in prova ai servizi sociali), così come delineata dal d.d.l. in parola, da concedersi su domanda dell’imputato e comunque previa ammissione del reato, avrebbe previsto l’obbligo del lavoro di pubblica utilità per un periodo minimo di 10 giorni, un preciso tasso di conversione della pena detentiva in tempo della sospensione (tale per cui 1 giorno di detenzione sarebbe equivalso a 5 giorni di messa alla prova) e il potere del giudice di dettare modalità e/o obiettivi particolari condizionanti il buon esito della prova, in ordine al quale si sarebbe deciso per la rinuncia alla punizione. A tali prescrizioni l’imputato avrebbe dovuto rigorosamente attenersi, tanto che una grave violazione (o più reiterate) di esse, così come il compimento di reati gravi o analoghi a quello per il quale l’imputato era stato dapprima sottoposto a processo, avrebbero comportato l’automatico fallimento della prova, con conseguente ripresa del giudizio il quale, vista la precedente confessione di colpa, sarebbe stato certamente di condanna (art. 3). Uno strumento quindi che, se ben impiegato, sarebbe senz’altro stato foriero di buoni risultati, sia sul fronte della riduzione del drammatico sovraffollamento dei nostri istituti di pena, sia in parte sul fronte della finalità risocializzante che una siffatta misura, se implementata dei giusti contenuti, potrebbe avere sul reo, così del resto come è stato e continua a essere nell’ambito della giustizia penale minorile; la disciplina italiana della messa alla prova del minore autore di reati costituisce invero (una volta tanto) oggetto di vanto per il nostro paese in tutta Europa.
III. Introdurre la possibilità per il giudice di sospendere il processo per assenza dell’imputato (art. 4), così come richiesto dagli organi sovranazionali e in particolare dalla CEDU, obiettivo sul quale non mi soffermo ulteriormente vista l’impertinenza alla tematica di cui trattasi;
IV. l’introduzione, direttamente nel codice penale, di pene detentive non carcerarie, quali la reclusione o l’arresto presso il domicilio, anche per fasce orarie o giorni della settimana: si sarebbe trattato, in particolare, di sanzioni principali, ossia irrogabili direttamente dal giudice della cognizione e destinate a sostituire la detenzione in carcere (reclusione e arresto) in tutti i casi di condanne per reati punibili in misura non superiore ai 4 anni di reclusione, quindi c.d. “di minore allarme sociale” (art. 5). Si tratta forse del più interessante, almeno a mio avviso, tra gli interventi proposti dal disegno di legge in commento. In primo luogo perché non ha precedenti storici, mai prima d’ora invero il legislatore (in questo caso un membro dell’esecutivo) si era spinto a delineare l’introduzione nel nostro ordinamento di nuove sanzioni principali accanto alla detenzione in carcere e alla pena pecuniaria. In secondo luogo, ed è facile intuirlo, per il notevole impatto quantitativo sul sovraffollamento che l’utilizzo di tali sanzioni detentive avrebbe avuto.
Tuttavia, nonostante i profili di necessità ed urgenza che lo connotano, oltre che di ragionevolezza e opportunità delle proposte di cui consta, tale disegno di legge, respinto dal Senato, non è mai giunto a divenire legge dello Stato.
Peraltro il grande difetto che personalmente ravviso in questa, come nelle altre proposte in materia, avvicendatesi negli ultimi anni, è quello di guardare solo ed esclusivamente all’obiettivo pratico dello sfoltimento degli istituti di pena, dimenticando nel predisporre nuove sanzioni di dare anche il giusto rilievo a quella che deve essere la prima e fondamentale funzione della pena: la risocializzazione e quindi il recupero del reo.
Assistiamo in altre parole ad una indiscriminata prevalenza dell’obiettivo pratico su tutto il resto, atteggiamento tipico dell’epoca moderna e del tutto simile a quello che è in questi giorni sotto i nostri occhi nell’ambito del dibattito sulle riforme costituzionali, laddove il legislatore sembra ormai pensare ad esse solo in termini funzionali ad un risparmio di spesa, senza invece considerare anche la fondamentale funzione istituzionale e i delicati equilibri costituzionali che una riforma del bicameralismo dovrebbe valutare con più attenzione.
Nella prospettiva di una futura riforma, ormai inevitabile, quantomeno del sistema sanzionatorio, sarebbe pertanto a mio avviso auspicabile che il legislatore si preoccupasse non solo, come certamente va fatto, di rendere accettabili le condizioni di vita entro le carceri, ma anche e non di meno di predisporre sanzioni (principali) che siano “coerenti con” e “promuovano la” fondamentale funzione “risocializzante” della pena, salvo ricondurla a quell’imperativo categorico cui Kant riteneva dovesse ridursi, orizzonte inaccettabile per il legislatore che voglia continuare a muoversi nel tracciato costituzionale.



Venerdì 11 Aprile,2014 Ore: 20:45
 
 
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