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www.ildialogo.org L’importanza di “rieducare”, tra sovraffollamento e degrado delle carceri.,di MARCO MARENGO

L’importanza di “rieducare”, tra sovraffollamento e degrado delle carceri.

di MARCO MARENGO

Dal blog di Renata Rusca Zargar SENZA FINE
1. La “risocializzazione” del condannato; - 2. Lo stato attuale delle carceri italiane.
Premessa:
Per inaugurare quella che auspico una lunga e fruttuosa collaborazione con la professoressa Renata Rusca, ho deciso di prendere le mosse da un tema a me molto caro e di particolare (purtroppo) attualità, quello del sovraffollamento carcerario. Prima di trattarne direttamente (§2), però, ho ritenuto opportuno procedere ad una breve dissertazione (§1) riguardo cosa debba intendersi oggi per “rieducazione” del condannato e all’importanza che essa assume nella prospettiva di una società che possa dirsi civile ed avanzata; intendimento indispensabile per giungere a parlare, consapevolmente, dei problemi che comportano il degrado e il sovraffollamento carcerario di cui il nostro paese è oggi tristemente protagonista. Seguirà, in un secondo momento, un’analisi dei principali progetti di riforma in materia, presentati (e ormai archiviati) dal Governo Monti (2011-2012) e dal Governo Letta (2012-2014), nell’ambito della quale cercherò di tracciarne direttive di fondo, ragioni, manchevolezze, ma anche positività. Non nascondo l’impostazione tecnico-giuridica che non può non contraddistinguere la discussione su temi di questa natura, ma ho comunque cercato di rendere la lettura quanto più chiara e discorsiva possibile.
1. La “risocializzazione” del condannato.
“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” (art. 27, III comma, Cost.).
Da questa norma costituzionale si desumono principi fondamentali per il nostro sistema sanzionatorio, come quello del divieto di fare uso della tortura (contraria certamente a quel senso di umanità di cui parla l’articolo in commento), ma anche della necessaria e fondamentale tensione della pena alla “rieducazione” del condannato (unico riferimento legislativo alla funzione della pena nell’intero ordinamento giuridico italiano).
Su quest’ultimo voglio porre l’attenzione. Cosa intendeva il costituente quando ha parlato di “rieducazione”? Il termine può essere fuorviante e va pertanto maneggiato con cura. Sulla base di un’interpretazione di ampio respiro delle norme costituzionali nel loro complesso, dottrina e giurisprudenza evincono oggi pacificamente che per “rieducazione” debba intendersi più propriamente “risocializzazione”, ossia un percorso volto al recupero e al reinserimento del reo nella società; un processo, quindi, di accompagnamento verso la (ri-)acquisizione della consapevolezza dell’importanza e del dovere di rispettare quei valori e interessi superiori che egli ha calpestato con la sua condotta. Valori e interessi che però debbono necessariamente essere diffusi e condivisi dalla grande maggioranza della popolazione, onde si correrebbe il rischio di cadere nel concetto di “emenda” (tipicamente vetero-cristiano), dove lo Stato (non laico) impone ai suoi cittadini (in questo caso ai detenuti) una determinata prospettiva valoriale, senza curarsi che essa sia o meno accolta e diffusa tra i più: un’imposizione che anch’essa può però assumere le vesti di una “rieducazione” se quest’ultima non viene connotata di “socialità” e quindi tradotta in “risocializzazione”, in coerenza con la prospettiva costituzionale.
La detenzione in carcere è ontologicamente inadatta alla risocializzazione. Questo non preclude in radice la possibilità che essa possa svolgere ugualmente questa funzione, ma richiede allora di svolgersi con modalità tali da permetterlo. In primo luogo è necessaria quella proporzionalità tra fatto commesso e sanzione irrogata che già Beccaria, pur muovendo da una prospettiva meramente utilitaristica, individuava nel suo celeberrimo “Dei delitti e delle pene” come necessaria. Egli riteneva che fosse semplicemente inutile infliggere al reo più di quanto si meritasse, appunto secondo una prospettiva utilitaristica della pena e della sua funzione.
Oggi, secondo una prospettiva più moderna, si giustifica l’esigenza di rispettare questo vincolo di proporzione proprio con riferimento alla possibilità di giungere alla risocializzazione. Si afferma infatti che il reo sarà ben disposto verso il percorso di (ri-)acquisizione dei valori violati se, e solo se, sentirà la pena come giusta per sé (idea di una sanzione che si modella sulla persona del reo).
In secondo luogo, come già accennato, la pena deve tendere e non imporsi a rieducare il condannato. Egli deve infatti disporsi favorevolmente verso questa prospettiva e nulla deve essergli imposto, salvo vanificare il senso stesso del processo di risocializzazione e minare le fondamenta di un ordinamento pienamente democratico, che non ha e non deve avere lo scopo di imporre il proprio punto di vista etico al reo, ma il quale ha comunque tutto l’interesse a che egli non ricada nuovamente nel reato dopo aver sperimentato la sanzione (questo problema si pone con particolare chiarezza nei casi di reati a scopo ideologico, si pensi agli attentati terroristici degli anni di piombo: gli autori rinnegano in radice i valori statuali, come indurli a un processo di “risocializzazione”? Casi limite in cui anche la funzione rieducativa subisce un vulnus).
Dunque, perchè si possa pensare a una pena risocializzante, è necessaria anzitutto una maggiore sensibilità da parte del legislatore, il quale si impegni a individuare quali scelte di criminalizzazione possano essere realmente e diffusamente accettate dalla società.
Alcuni autori, soprattutto nei primi anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, approfittavano dell’utilizzo, da parte del costituente, del verbo “tendere” per interpretare la norma in modo restrittivo, cioè meno innovativo, aprendo addirittura alla qualificazione della norma come solo “programmatica”, ossia non immediatamente cogente e comunque subordinando la funzione “rieducativa” alle altre, storicamente più risalenti e ancor oggi compresenti nel nostro sistema sanzionatorio: la funzione retributiva e quella generale preventiva (sulle quali non mi soffermo per non appesantire l’esposizione). Ma ho già esposto, ed è la prospettiva da ultimo assunta anche dalla Corte costituzionale, come l’utilizzo del termine “tendere”, piuttosto che altri, in coerenza con l’impostazione complessiva della Carta costituzionale, debba intendersi semplicemente nel senso di una non imposizione.
Una pena quindi che, per risocializzare, deve essere giusta (la gravità della pena deve essere commisurata sulla gravità del reato e sulla personalità dell’agente), eseguita con modalità non contrarie al senso di umanità e volta alla (ri-)acquisizione dei valori fondamentali violati dalla condotta del reo: questo chiede la nostra Costituzione, questo deve quindi verosimilmente intendersi per “rieducazione” (meglio, “risocializzazione”) del reo.
2. Lo stato delle carceri italiane.
Viste le modalità ideali di esecuzione della pena detentiva, in conformità al dettato costituzionale e quindi alla funzione “rieducativa”, vediamo ora lo stato attuale della situazione carceraria italiana, prendendo le mosse da alcuni dati sulla popolazione detenuta forniti dal dipartimento amministrazione penitenziaria (DAP) e riferiti al 31 ottobre 2013 (recentemente il Ministero della Giustizia ha annunciato che a breve verranno pubblicati i dati relativi al 2014, tuttavia, nell’attesa, questi che riporto di seguito sono ancora i dati più aggiornati).
In Italia la popolazione detenuta ammonta a 64. 323 unità, a fronte di una capienza massima regolamentare dei nostri 205 istituti di pena di 47. 668 posti, il sovraffollamento è quindi del 148%, il peggiore in Europa. Di questi detenuti, i condannati in via definitiva sono 38. 845 (appena il 60%), mentre ben 25. 843 sono i detenuti ancora in attesa di una sentenza definitiva (tra questi 12. 333 sono addirittura in attesa di primo giudizio), quindi “tecnicamente” innocenti (“l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva” art. 27, II comma, Cost.).
Ma al di là dei dati, che seppur permettono di prendere atto della grave ipertrofia del sistema detentivo, non sono da soli in grado di far emergere la inaccettabile violazione dei diritti umani in atto nel nostro paese, che si verifica anche attraverso la sola custodia cautelare, trovo importante aprire una finestra sulla concretezza delle attuali condizioni dell’edilizia penitenziaria italiana, nell’ambito delle quali i detenuti sono oggi costretti a scontare la propria pena.
A tal riguardo, già nel primo rapporto nazionale di “Antigone” (2002), le carceri italiane sono state così classificate: 1. Carceri Metropolitane (es. Roma, Torino, Milano, Napoli), caratterizzate da gravissime condizioni di sovraffollamento; 2. Carceri Antiche (antecedenti al XX sec.), protagoniste di deprecabili carenze strutturali legate alla vetustà, nonché a carenze di spazi di socialità, aree verdi, asili nido, ecc. (pur previste come obbligatorie dall’attuale regolamento di esecuzione dell’Ordinamento Penitenziario); 3. Carceri del Novecento, comprendenti una vasta casistica di strutture tra loro molto diversificate, ridotte per incuria in condizioni di fatiscenza insopportabili e bisognose di continue ristrutturazioni; 4. “Carceri d’Oro” (costruite negli anni ’80), caratterizzate dagli elevatissimi costi di costruzione sostenuti dallo Stato italiano per darvi luogo, ma tuttavia realizzate con tempistiche ciclopiche e con materiali assai scadenti (questo evidentemente a causa di infiltrazioni mafiose negli appalti per la loro costruzione), vantano una grande attenzione per la “sicurezza” (essendo state costruite in ragione dell’emergenza terrorismo), ma una scarsissima propensione alla vivibilità, con problemi di infiltrazioni di umidità, difficoltà di funzionamento degli impianti idraulici ed elettrici, oltre che un quasi totale isolamento dai centri abitati (che rende impossibile per i detenuti radicarsi sul territorio con progetti di lavoro e reinserimento, dei quali pur dovrebbero aver diritto)1.
Ma desidero ora scendere ancora più in profondità, analizzando il caso paradigmatico del carcere di Canton Mombello (Brescia). È grazie a una video inchiesta dei giornalisti de “Il Corriere della Sera”, intitolata “Viaggio nell’inferno delle carceri italiane”, che è possibile prendere direttamente atto delle condizioni di estremo degrado che contraddistinguono questa come purtroppo molte altre strutture. Si tratta di un edificio di fine ‘800, dove sono detenute quasi 600 persone a fronte di una capienza massima regolamentare di 200 posti: l’ipertrofia in questo caso ha quindi raggiunto la soglia record del 260%.
Durante la visita dei giornalisti, emergono celle da tre posti occupate da quattordici persone, mentre nella quasi totalità di esse il “bagno” (rigorosamente chimico, di quelli da campeggio) è a vista, sito accanto alla zona cucina. Nelle celle, inoltre, l’aria è pestilenziale: le sbarre dei letti a castello, invero, sono arrivate a bloccare le finestre, che quindi non possono essere aperte per far circolare l’aria. Nella maggior parte di esse manca poi il frigorifero, circostanza che obbliga i detenuti a conservare il cibo alla meglio, spesso nelle vicinanze del gabinetto (come già detto, rigorosamente a vista e accanto alla zona cucina). Ciascun detenuto ha a sua disposizione uno spazio vitale di circa un metro quadrato, quando la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ne impone almeno tre, perché l’esecuzione della pena non trasmodi in tortura, e ne consiglia almeno sette.
Come conseguenza di queste e di altre circostanze di igiene precaria, il medico della struttura afferma come vi siano state reminescenze di malattie infettive che la quotidianità aveva messo nel dimenticatoio, quali addirittura la tubercolosi.
Tali condizioni di degrado non sono però limitate solo alla Lombardia, regione che peraltro primeggia tra le altre per numero di detenuti (c.a. 9000), ma si estendono e si ripetono pressoché identiche per tutta la penisola, ad esempio presso il carcere di Regina Coeli dove spesso, afferma un esponente del Sindacato autonomo della Polizia penitenziaria, si è costretti a far dormire per terra nei corridoi i nuovi arrivati (e ricordiamolo, nel 2012 gli ingressi in carcere sono stati 63. 020).
La Corte di Strasburgo (condannando l’Italia per violazione dei diritti umani, nel 2009) ha in vero rilevato che “il sovraffollamento carcerario in Italia non riguarda esclusivamente i casi dei ricorrenti” e che, come dimostrano i dati statistici, “la violazione del diritto dei ricorrenti di beneficiare di condizioni detentive adeguate non è la conseguenza di episodi isolati, ma trae origine da un problema sistemico risultante da un malfunzionamento cronico proprio del sistema penitenziario italiano, che ha interessato e può interessare ancora in futuro numerose persone”.
In tali condizioni, parlare di “risocializzazione” è paradossale. Abbiamo detto, invero, come sia innanzitutto necessario, per poter perseguire tale encomiabile funzione della pena, rispettare quel fondamentale vincolo di proporzionalità tra fatto commesso e sanzione irrogata; ma se una pena già emessa da un giudice in modo proporzionato rispetto al reato, viene poi eseguita con queste modalità ecco che il reo viene a “pagare” almeno il doppio, divincolandosi così il sistema sanzionatorio dal rispetto di questo essenziale principio di civiltà giuridica (v. anche sopra).
Inoltre, è facile aspettarsi come detenuti vissuti in queste deprecabili condizioni di detenzione, decisamente contrarie a quel “senso di umanità” che la Costituzione prescrive come imprescindibile, una volta fuori dal carcere abbiano sviluppato un tale odio nei confronti della società e delle istituzioni che difficilmente non ricadranno nuovamente nel reato, con un conseguente forte incremento della recidiva, che invero è oggi agli occhi di tutti.
Mi piace concludere con un’affermazione fatta dal Garante per i diritti dei carcerati presso l’istituto penitenziario di Canton Mombello, durante l’intervista per “Il Corriere della sera”, il dott. Emilio Quaranta: “la Costituzione italiana, che tutti lodano a parole, è in questo modo vilipesa, tradita e calpestata”.



Lunedì 31 Marzo,2014 Ore: 16:38
 
 
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