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ISSN 2420-997X

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www.ildialogo.org Una finestra sull’Iran,di Daniela Zini

FORUGH FARROKHZAD
Una finestra sull’Iran

di Daniela Zini

Perché Forugh Farrokhzad?

Le amicizie di spirito si fanno per catene o per incontri, come le amicizie di cuore. Un caro Amico ci fa conoscere i suoi amici e questi ci piacciono per i tratti che sono anche i suoi. È attraverso un caro Amico che mi sono avvicinata a Forugh Farrokhzad.

L’incontro con questa forma di scrittura impegnata e lucida è stata decisiva nella ricerca della mia condizione di donna.

Ho iniziato a scrivere.

Ho sviluppato la mia scrittura sotto una nuova luce. Come il cielo cambia di colore, i miei scritti sono divenuti una forma di lotta. La mia penna contro ogni arma, il mio amore contro ogni violenza, la mia verità contro ogni menzogna. E mi sono esiliata nella scrittura, nella bellezza della mia lingua di adozione e, inevitabilmente, in tutto ciò che questa possiede di mistero, di vigore, di dolcezza.

Forugh è stata una preziosa chiave nella mia presa di coscienza di giovane donna. La sua voce, in un tempo in cui la donna taceva, è stata per me un cartello indicatore.

Questo risponde, spero, alla domanda:

Perché Forugh Farrokhzad?”

Resta la difficoltà di rinnovare il racconto di una vita che passa per ben conosciuta.

Perché raccontarla una volta di più?

Contro ogni apparenza, nella sua vita  vi è un silenzio che io vorrei cancellare e che tutti hanno cercato di violare. Amici e biografi hanno raccontato la sua morte, cercando una precisione che era una forma di indecenza, come a volere misurare la fatalità che colpiva questa donna, straordinaria creatura, e a tentare di cogliere in questa vita quanto Forugh aveva voluto tenere per sé. Taluni hanno ringraziato quella morte improvvisa che ha impedito all’immagine libera e singolare di alterarsi.

Un saggio sulla Poesia di Forugh dovrebbe tenere conto dei poeti classici persiani, di cui la sua opera è, del resto, l’ultimo anello. La Poesia persiana, per quanto intellettualizzata possa esserne l’espressione, è sempre diretta: grido, sospiro, effusione sensuale, affermazione spontanea che nasce sulle labbra dell’Amante in presenza dell’Amato. Mescola raramente il patetico da un lato, l’elaborazione realista dall’altro, al suo lirismo o alla sua oscenità quasi puri. Il sentimento di una costrizione morale, il rigore o l’ipocrisia dei costumi non hanno influito sui poeti antichi come su questa donna del nostro tempo. Il gioco delle reticenze e degli schemi letterari, la mescolanza curiosa di rigore e di eccessi, perfino nello stile, e, soprattutto, la segreta amarezza che permea certi componimenti ne sono un’ulteriore testimonianza. La posizione del poeta resta quella tipica delle grandi epoche, quella di un artigiano squisito. La sua funzione si limita a dare alla più scottante e alla più caotica delle materie la più precisa e la più levigata delle forme. 

Chi era Forugh Farrokhzad?

Nata a Tehran, il 5 gennaio 1935, Forugh Farrokhzad trascorre una infanzia relativamente felice, nonostante una educazione molto severa. Il padre, colonnello dell’esercito di Reza Shah, aveva trasformato la sua casa in una caserma: disciplina di ferro, esercizi obbligatori, lavori imposti e punizioni corporali molto severe. La sorella Puran lo conferma:

Era un padre molto severo verso i propri figli, ma anche amante della storia, della letteratura e della Poesia.”

A sedici anni, si innamora di un cugino, Parviz Shapour (23 febbraio 1924 – 4 agosto 2000), nipote di una zia materna di sua madre. Più tardi rimpiangerà la subitaneità di “quell’amore e di quel matrimonio ridicolo”, secondo le sue stesse parole, ma l’amore non si previene né si decreta. In effetti, si tratta di un primo grande amore, che lascerà tracce nella sua vita e dal quale nascerà un frutto, suo figlio, ma “su un ramo inaccessibile”.

Parviz Shapour, che vive con i suoi genitori e diverrà, più tardi, un caricaturista molto famoso, è descritto bello, gentile, divertente, sincero, colto, razionale, e tuttavia timido, riservato e molto conservatore. Parviz la amerà, probabilmente sempre, e la sosterrà in certi momenti difficili della sua vita, anche dopo il divorzio, ma non le sarà di alcuno aiuto nella realizzazione della sua vocazione artistica. Inoltre le infliggerà un colpo fatale, impedendole, per sempre, di vedere il figlio.

Forugh, che non vuole un matrimonio combinato, fa di tutto per sposare Parviz.

Ma che cosa le impedisce, realmente, di sposare Parviz?

Quasi tutto.

Innanzitutto, è più giovane di Parviz di undici anni. Parviz è esitante perché ha appena terminato i suoi studi di diritto e presta servizio militare ad Ahvaz, nel sud dell’Iran. Inoltre non ha i mezzi finanziari necessari per affrontare le spese di un matrimonio. Il padre di Forugh, dapprima ostile, si lascia convincere dalla perseveranza e dalla determinazione di Forugh. Secondo Puran, auspica la partenza delle due figlie “per il focolare di un marito” e quella del figlio maggiore per l’estero, al fine di potersi più facilmente risposare. La madre, diffidente verso gli uomini, si oppone ferocemente al matrimonio, esigendo una controdote importante. Anche la madre di Parviz è ostile a questo matrimonio, perché suo figlio è promesso a un’altra ragazza fin dalla sua giovane età. Forugh affronta tutti con coraggio e ostinazione. Fa concessioni e compromessi, negozia con Parviz e con i suoi genitori, li convince e, infine, si contenta di un semplice matrimonio e di minime condizioni di vita comune pur di non derogare al principio: l’Amore.

Descrive tutto questo, dettagliatamente, nelle sue lettere e, indirettamente, nella sua Poesia.

Sinceramente innamorata di Parviz, Forugh non cerca una via di fuga alle costrizioni di vita di una ragazza in un Paese che si batte per uscire dalle rovine di un sistema socio-politico millenario: la monarchia assoluta, il feudalesimo, l’onnipresenza della religione, il peso della tradizione, la subordinazione delle donne a ogni sorta di autorità nella società – una società che ricadrà, immediatamente dopo la Prima Guerra Mondiale, sotto un altro regime autoritario, sempre monarchico, per i cinquantaquattro anni a venire, con Reza Shah dal 1925 al 1941, poi, con suo figlio Mohammad Reza Shah, dal 1941 al 1979 – .

Nel 1953, Forugh dà alla luce suo figlio Kamyar e, due anni più tardi, divorzia da Parviz.

La rottura con il passato è consumata.

La sua prima poesia, pubblicata, nel 1954, su un ebdomadario, a Tehran, Peccato, provoca forti tensioni in seno alla famiglia e reazioni negative in seno alla società iraniana.

Peccai un peccato pieno di piacere,

In un abbraccio che era caldo e ardente.
Peccai tra braccia

Che erano roventi, assetate di vendetta e come ferro. 

In questa poesia, probabilmente la prima e una delle più belle poesie erotiche persiane scritte da una donna, confessa di aver “peccato un peccato”, facendo l’amore con un uomo, “un peccato pieno di piacere”

Né la società iraniana dell’epoca, né quella che la sostituirà, né alcuna altra, altrove, forse, potrebbero accettare che una donna canti l’amore, celebri i piaceri della vita, esprima i suoi sogni, le sue passioni, e i suoi desideri, come hanno fatto gli uomini da sempre. Gli uomini, soprattutto, non possono tollerare che una donna metta in causa il loro status.

Forugh denuncia la sofferenza delle donne.

Forugh interroga la coscienza degli uomini.

Forugh disturba.

Il genio, per tutti compagno esigente e pericoloso, è, per una donna, un ospite ancora più temibile.

Donna che ha sofferto, mezzo secolo prima di noi, la solitudine in mezzo alla folla, il tedio grigio della città, il gusto carnale del peccato, l’estasi dell’amore spirituale e l’inquietudine interiore, Forugh è anche il poeta che ha saputo trasformare la sua sofferenza in una Poesia nuova, diretta, finemente cesellata ma priva di orpelli retorici. L’attenzione che gli studiosi dedicano ai valori musicali e ritmici del suo linguaggio, alla sua potenzialità espressiva, all’accumularsi dei significati nelle parole e nelle immagini, torna a conferma – se mai ve ne fosse bisogno – dell’intimo e indistruttibile legame tra il poeta e il suo strumento e dell’impossibilità di riprodurre questo legame ineffabile.

Nel mondo di oggi, quella di Forugh è, più che mai, una presenza viva.

Questa androgina del deserto, questa amazzone dal cuore d’oro incarna perfettamente l’idea di Oriente che l’Occidente coltiva: esotismo, amore, morte. Ha eguagliato i classici nel creare caratteri e simboli di valore universale e li ha superati nel porre questioni che l’antichità ignorava o sfiorava appena, con una sensibilità moderna e in termini di altissima Poesia. Non vi è problema della nostra epoca – morale, estetico, politico – che non si trovi prefigurato in lei, il problema della libertà e della responsabilità, il dubbio e la costituzionale incomunicabilità dell’uomo moderno, l’appassionata difesa della persona umana, mortificata dai razzismi, la condanna e la maledizione della violenza. Forugh ha saputo dare voce alle aspirazioni più profonde dell’umanità. Ha saputo scrutare la realtà nel profondo, pur mantenendosi disponibile a tutti i richiami, a tutte le suggestioni della fantasia e spingere lo sguardo di là dai limiti del visibile e del tangibile. Si trovano in lei modi di dire l’indicibile, immagini capaci di gettare fasci di luce su questo mondo oscuro che si agita alle radici stesse della coscienza, quasi sospeso tra il conoscibile e l’inconoscibile. Forugh è una specie di scienziato-alchimista, mago-prestigiatore, dio-burattinaio, che scruta uomini e donne e la loro eterna commedia, pesandone al milligrammo le debolezze e le menzogne, i falsi eroismi e le vane illusioni, per comporne, scomporne e ricomporne, in tutte le possibili combinazioni, una quantità di giochi scenici. Manovrando i fili li fa scontrarsi, accusarsi, spogliarsi, sviscerarsi, e, da ultimo, inabissarsi senza pietà. Ecco i due punti estremi della parabola lirica di Forugh: un fiducioso slancio iniziale verso l’eterno e il ripiegarsi su di sé a scrutare la tenebra misteriosa che è al termine della vita terrestre. Quello slancio iniziale, che è in ogni poeta, ma che, in Forugh, assume un carattere particolare: si confonde, alla sua radice, con il senso di una missione da compiere.

Per me la Poesia è una cosa seria.” 

E, nell’accanimento con cui si dà a quella che le appare la sua missione vi è anche il bisogno di dimostrare a se stessa che ha altri doveri e la forza di compierli. 

Ogni nozione di peccato è decisamente estranea all’opera di Forugh; in compenso, e solo sul piano sociale, è chiaro che il rischio dello scandalo e della riprovazione ha contato per lei, che ne fu, in un certo senso, ossessionata. La vergogna e la paura inseparabili da ogni esperienza clandestina conferiscono alla Poesia la bellezza di un’acquaforte incisa con il più corrosivo degli acidi. I suoi versi migliori non ci danno delle esperienze o delle idee della loro autrice che il punto di partenza o quello di arrivo; tralasciano tutto quello che, anche nei più raffinati, si rivolge visibilmente al lettore, tutto quello che rientra nell’ordine dell’eloquenza o della spiegazione. Così avvezzi a vedere della saggezza un residuo delle passioni spente, da non riconoscere in essa la forma più forte e più condensata dell’ardore, la particella d’oro nata dal fuoco e non la cenere. D’altra parte, il bisogno di mettere l’esperienza personale a servizio di una riforma razionale o di un progresso sociale – o di ciò che si spera tale – è incompatibile con questa rassegnazione sobria che prende il mondo come è e i costumi come sono. È senza grande preoccupazione di essere disapprovata o seguita che Forugh raggiunge decisamente l’edonismo antico. Questa visione pregnante e, nel contempo, leggera del piacere, senza abiezione, senza retorica, senza neppure la traccia del delirio di interpretazione cui l’epoca post-freudiana ci ha assuefatti, finisce per condurla a una sorta di asserzione pura e semplice di ogni libertà sessuale, qualunque ne sia la forma.

Poesia erotica, Poesia gnomica sul tema dell’erotismo più che Poesia d’amore.

Al primo colpo d’occhio, ci si può addirittura chiedere se l’amore per un essere in particolare figuri in questa opera.

Eppure, a ben guardare, non manca quasi nulla: incontro e separazione, desiderio inappagato o soddisfatto, tenerezza o sazietà, non è ciò che resta di ogni vita amorosa passata al crogiuolo del ricordo? 

È uno spettacolo del più grande interesse guardare maturare questa saggezza, vedere come i sentimenti di inquietudine, di solitudine, di separazione, ancora molto sensibili nelle prime poesie, cedano il passo a una tranquillità abbastanza profonda da sembrare facile. È sempre importante sapere se, in ultima analisi, l’opera di un poeta si esprima per la rivolta o per l’accettazione, ed è proprio per una sorprendente assenza di recriminazioni che si caratterizza questa che stiamo esaminando. Si può dire, senza apparire paradossali, che la rivolta qui si colloca all’interno dell’accettazione, fa inevitabilmente parte della condizione umana che il poeta riconosce come propria.  

Esperienza significativa per Forugh fu la Poesia di Nima Yushij:

 

Nima mi ha aperto gli occhi e mi ha detto: “Guarda!”, ma, sono stata io, da sola, ad apprendere a guardare.”

 

Forugh appartiene a quel ristretto gruppo di artisti cui si riconosce un valore universale, a quella rosa di poeti solari che appartengono a ogni epoca, ma solo nel senso che ogni epoca si trova a dovere misurarsi con loro, a fare i conti con la loro ingombrante presenza, e il modo di approccio è sempre diverso e peculiare. L’immortalità del poeta, quel “monumento più duraturo del bronzo”, vagheggiato da Orazio, consiste assai più nell’essere oggetto di dissenso che oggetto di culto. La valutazione che fluttua, la disputa che si ravviva, la problematica che si arricchisce a ogni passare di generazione, sono le misure autentiche della vitalità di un poeta.

Passata in mezzo a noi come una meteora, Forugh lascia, nello spazio di pochi anni, un’opera meravigliosa. La sua visione del mondo è tanto originale, il suo stile così raffinato e personale, che anche il più breve dei suoi scritti può rivestire un notevole interesse. La sua vocazione, presente fin dall’infanzia, urta, per molti anni, contro un ostacolo insormontabile: l’obbedienza alle rigide regole della composizione. L’ostacolo è superato nel momento in cui, accettando se stessa qual è, spezza le catene tradizionali della Poesia e lascia sgorgare, senza costrizioni, l’ispirazione che la anima.

 

 “Quando avevo tredici o quattordici anni, scrivevo molte poesie, mai pubblicate. La Poesia prorompeva in me spontaneamente. Ogni giorno componevo due o tre poesie, stando seduta, in cucina, dietro la macchina per cucire.”

 

Nel suo impulso verso l’espressione tragica di un individualismo aspro, integrale, talora addirittura estremista, l’opera poetica di Forugh sembra avanzare sotto il segno della frase di Pindaro, ripresa a suo tempo da Nietzsche:

 

 “Divieni ciò che sei.”

 

e assume il suo carattere più autentico quale tentativo di edificare un orgoglioso monumento alla pienezza dell’uomo in quanto persona.

È un’esplorazione che Forugh tenta del suo mondo.

Descrive un viaggio iniziatico.

Chi dispone le sue poesie, cronologicamente, possiede un diario assai preciso dei moti della sua anima.

 

Considero la Poesia una vera e propria esigenza, un’esigenza più importante del mangiare, del dormire, dello stesso respirare: è una necessità per me. Fa parte ormai di me.”

 

La sua Poesia è la vita fatta opera, l’essere e il tempo umani tramutati in linguaggio.

 

Che nella mia Poesia si possa distinguere un tratto femminile, è inevitabile. Sono una donna. Ma, se si considera il valore artistico, non si dovrebbe tenere conto del sesso dell’artista. Non è giusto attenersi a questo aspetto. È naturale che una donna, per ragioni connesse alla sua specificità fisica e psicologica, colga aspetti della realtà, che a un uomo, probabilmente, sfuggono, e abbia una visione femminile delle cose diversa da quella maschile.”

 

Questa osmosi, che rende l’opera e la vita indissociabili come vasi comunicanti, spiega la scelta del termine Asir (Prigioniera) per il titolo della sua prima raccolta poetica.    

      

La Poesia mi era aliena. Ora è penetrata in me, si è impossessata di me e, per questa ragione, non me ne posso separare. Ne sono perfino gelosa. Un tempo non prendevo sul serio le mie poesie; ora, se qualcuno ne irride, mi risento: le amo troppo. Ho lottato molto per giungere a domare questa cosa che mi appariva estranea e selvaggia e sentirla parte di me. Mi sono a tal punto fusa con essa e, a tal punto, essa scorre in me, che non è più possibile separarci.”

 

Come Marina Cvetaeva, Forugh crede che si possa essere poeta senza avere mai scritto un solo verso. Per queste due donne la Poesia è una vocazione, un modo di vivere, un modo di percepire il mondo, come una stessa unità di essere. Le accomuna l’esigenza, assoluta come una chiamata religiosa o una vocazione mistica, di vivere la propria identità femminile al di fuori e contro gli schemi prefissati, di reinventarsi un’esistenza libera nell’unico spazio incontaminato dalla realtà e a questa strenuamente antagonista: la Poesia.

 

A noi, fervide sorelle,
Toccherà andare all’inferno,
Bere l’infernale pece,
Noi, che in ogni nostra vena
Al Signore lodi alzammo!

Marina C
vetaeva, Novembre 1915

 

Il fascino vagabondo della Poesia è di piegarsi alla vita e, in ciò, non è molto dissimile dal diario intimo. Questo perché un’opera poetica dà sempre qualche appiglio all’illusione retrospettiva. Tutta la questione è di sapere se la forma che soddisfa, infine, lo spirito e il cuore, l’occhio e l’orecchio, è un’illusione o, al contrario, una costruzione che si rivela la sua struttura, al termine di un lungo e tortuoso percorso. Parlare di ispirazione a proposito della Poesia, è riconoscere che questa è intessuta di una successione di momenti casuali o, se si preferisce, di grazia. E , tuttavia, questa successione apparentemente sconnessa, poiché tale è il prezzo della libertà, dell’improvvisazione, obbedisce in maniera segreta a un’esigenza di unità, è mossa da un disegno.

La sua opera poetica, che, comprende cinque raccolte, può dividersi in due parti ben distinte, che testimoniano dell’evoluzione del pensiero della loro creatrice, che esce, progressivamente, dal quadro ristretto dei sentimenti femminili per accedere a un universo più vasto concernente l’esistenza, l’essere umano e la vita di tutti i giorni. A dispetto della divisione tematica e della frammentazione in poesie distinte, vi si può leggere una storia, una storia interiore, la storia di un’anima. Questo paziente assemblaggio di parole che fa una poesia, questa costellazione cangiante e mutevole di poesie che fa un libro – parole e poesie rivelate nella loro fragilità, trascinate via dalla corrente dell’esistenza, con tutto ciò che in essa vi è di raro e di banale, di casuale e di eterno – possiedono chiaramente il senso di una resistenza.

I sistemi sociali occidentali nei quali viviamo cercano sempre più un essere umano privo di pensiero libero, privo di volontà assertiva, ridotto a elemento di statistica, a indice di ascolto verso priorità economiche di consumo. La Poesia è una forma non violenta, ma estremamente efficace, di protesta contro ogni forma di regime.

La Poesia di carattere si confonde, quasi sempre, con la Poesia politica.

Come molti suoi conterranei, Forugh sembra essere stata amaramente sensibile allo spettacolo di perfidia, di disordine, di eroismo inutile o di vile inerzia che ha caratterizzato, sovente, la storia dell’Iran – non più, tuttavia, di ogni altra storia, antica o moderna. La sua assenza di moralismo, il rifiuto del sensazionale e dell’enfasi restituiscono a questi temi, danneggiati da tanti declamatori, una lampante attualità. Si fa fatica a credere che le poesie di avvilimento e di disfatta non siano state ispirate da avvenimenti della nostra epoca, invece di essere state scritte mezzo secolo fa. Questo aspetto militante è marcatamente evidente nei Paesi occupati o soggetti a censura, ove la Poesia si ammanta della funzione di lotta ideologica. Al senso sovversivo delle parole assemblate si accompagna sovente un rinnovamento delle forme più o meno radicale : è un’altra lotta, questa interna alla Poesia, un lavoro di distruzione-ricostruzione.

Forugh ha sempre attribuito un’importanza capitale alla composizione della sua opera, all’architettura di un libro. Per lei, infatti, non si trattava soltanto di riunire in un unico volume delle poesie sparse, ma di integrarle in una forma dotata di forte coesione, di necessità organica. Va da sé che il titolo che corona questa somma e le dà, per sempre, un senso, questo titolo firma un progetto che, a lungo, prima di dichiararsi e di tentare di compiersi, è stato il filo conduttore latente di un’ispirazione pigramente e sapientemente orientata. Forse, questa preoccupazione è una delle cause dell’estrema lentezza nell’elaborazione e nella pubblicazione delle sue produzioni letterarie.

 

Quando penso al Tavallodi Digar (Rinascita), mi rammarico. È il frutto di quattro anni di lavoro. Troppo poco!”

 

Le poesie contenute nelle sue prime tre raccolte, Prigioniera, Il muro, Ribellione, composte dal 1952 al 1959 e accolte con reticenza dagli stessi intellettuali di sinistra e dai cosiddetti progressisti, riflettono, come uno specchio, l’immagine di una donna sola e ribelle, animata da puri sentimenti femminili, e che si erge contro le regole e le convenzioni sociali tradizionali.

L’onda delle passioni domina l’atmosfera poetica delle prime poesie di Forugh.

Tutto questo popolo che attraversa il suo spirito è espresso attraverso tutta una rete di parole che mettono in luce i meandri del suo pensiero e dei suoi sentimenti: cuore, amore, notte, tenebre, bacio, speranza, rimpianto, prigione, desiderio, peccato, tomba, morte, Dio, mano, finestra... contano così tra i termini che si ritrovano frequentemente da una poesia all’altra. Esprimono la vita di una donna chiusa nel bozzolo della vita coniugale, che giudica la sua esistenza vuota, monotona e non interessante, una donna che, per sbarazzarsi del disincanto e della noia, si rifugia nell’universo incantato della Poesia ed esprime, sotto forma di quartina e attraverso un’accumulazione di parole, espressioni e immagini, rivendicazioni femminili. I versi seguenti mostrano a qual punto il sentimento di essere prigioniera ossessioni la poetessa:

 

Ti desidero, ma so che mai

Ti terrò tra le mie braccia, come anela il mio cuore.

Tu sei quel cielo limpido e luminoso,

Io, in questo angolo della gabbia, sono un uccello in cattività.

 

Per i tradizionalisti, la Poesia e la vita di Forugh mettono in causa le concezioni religiose ed etiche della castità, della verginità, del pudore nell’espressione del desiderio, della fedeltà nel matrimonio, della sottomissione della donna, dei divieti e dei tabù che riguardano la sessualità, il corpo e l’amore libero. Per gli altri, la sua Poesia non è che l’espressione della vita privata di una giovane donna delle classi medie teheranesi, di un romanticismo volgare, di un sentimentalismo superficiale, di un erotismo osceno o il racconto di un affare di famiglia senza interesse, di una rivolta contro gli obblighi coniugali, di una ricerca di piacere e di una erranza edonista. Rimproverano a Forugh di aver creato una Poesia femminile del sentimento, sprovvista di riflessione, di visione filosofica o ideologica e di impegno sociale o politico.

Queste tre raccolte sono, tuttavia, l’espressione delle sofferenze di una giovane donna alle prese con una società tradizionale.

All’età di venti anni, scrive in una lettera:

 

A proposito del percorso che ho scelto nella Poesia e dell’idea che ne ho, io penso che una poesia è una fiamma di sentimento e che è la sola cosa che possa trasportarmi in un mondo di sogno e di bellezza. Una poesia è bella quando il poeta vi proietta tutte le vibrazioni e il fervore della propria anima. Credo che si debba esprimere i propri sentimenti senza riserve. In linea di principio, non si può fissare un limite all’arte, altrimenti perde la propria anima. È seguendo questo principio che scrivo poesie. Faccio fatica, come donna, a conservare la speranza in questa società corrotta. Ho dedicato la mia vita all’arte e posso anche dire che l’ho sacrificata all’arte. Io voglio vivere per la mia arte. So che la strada intrapresa nella società attuale ha fatto molto clamore e mi ha creato molti nemici.

Ma io credo si debbano, una buona volta, abbattere le barriere. Qualcuno doveva intraprendere questo cammino e poiché io ho il coraggio e la volontà necessari, ho preso l’iniziativa. La sola forza che mi dà sempre speranza, è l’incoraggiamento dei veri intellettuali e artisti di questo Paese. Io non sopporto le persone che fanno tutto quello che vogliono e, poi, parlano continuamente di fustigare i costumi della società.

Nondimeno, accetto con grande piacere la critica giusta, ma non quella che rivela egoismo e una pretesa estrema e che mira a eliminare un rivale e a trascinarlo nel fango. Io so che molte cose sono dette su di me. Io so che molte persone interpretano male le mie poesie e per diffamarmi inventano repliche alle mie poesie,con l’intento di dimostrare che io scrivo per una certa persona.

Tuttavia, io non recedo davanti a nulla e non mi arrendo. Come ho già fatto in passato, sopporto tutto con molta calma (…)

Il mio desiderio primario è di divenire un’artista autentica (…)

Io desidero anche che il livello culturale in questo Paese progredisca e che le persone apprezzino di più il vero valore dell’arte per non cedere alle agitazioni dei falsi devoti (…)

Io desidero l’emancipazione delle donne iraniane e l’eguaglianza dei diritti delle donne e degli uomini. Io sono totalmente consapevole delle sofferenze delle mie sorelle in questo Paese, causate dall’ingiustizia degli uomini e impiego la mia arte in parte per esprimere i loro dolori e le loro pene.

Io desidero la creazione di un ambiente favorevole alle attività scientifiche e artistiche delle donne.

Io desidero che gli iraniani rinuncino al loro egoismo e lascino le donne coltivare le proprie tendenze e le proprie inclinazioni.”

 

Prematuramente nasce in lei una profonda visione fatalista dell’esistenza umana, che le fa sostenere che tutto è scritto, tutto è maktub, che, forse, può essere la causa della sua inerzia nei confronti della successiva, precoce decadenza fisica.

Soggetta a eccessi di ogni tipo, brucia i suoi anni intensamente.

Abbandonata a un vento sradicante, a un’irresponsabile belva dolceamara che squassa, in un’epoca in cui la vita delle donne segue percorsi obbligati, Forugh si fa un modello di Elena, la colpevole, la sconsiderata, indifferente com’è all’amore rispettabile, sia esso quello razionale dei filosofi, che avvia a suprema essenza, sia esso quello ragionevole, che fonde e sostiene la famiglia e la comunità.

Dà scandalo.

Forugh perde la fede e si dedica con diligenza a cercarne un’altra, finché, dopo numerosi tentativi, trova un asilo spirituale a lei congeniale nella Poesia.  

 

Il rapporto a due non può mai essere perfetto o completo. Ma la Poesia è per me un’amica con la quale poter parlare in libertà e in intimità. È un’amica che mi completa.”

 

Il decennio che segue la sua abiura segna il secondo periodo della sua opera letteraria. Questo periodo rappresentato da due raccolte intitolate Rinascita e Crediamo nell’inizio della stagione fredda è il risultato di una evoluzione stupefacente della sua personalità e della sua opera.

Forugh scopre oltre alla propria vocazione di poeta e di pittore anche quella di regista.

Aveva, insomma, un temperamento artistico. 

 

Per me il cinema è un mezzo di espressione. Se ho scritto poesie tutta la vita, non per questo la Poesia è l’unico mezzo di espressione.”

 

A ventisette anni realizza Khanè siyà ast. Il soggetto fa paura: il lebbrosario di Baba Baghi, a Tabriz, dove i malati,  votati all’oblio, vivono nascosti al resto del mondo. La cinepresa entra e libera volti, corpi, ossa, mani deformi senza clamori, con la compassione della sensibilità e quella distanza necessaria a un’immagine poetico-politica. Forugh scrive i dialoghi, adattando passi della Torah e del Corano. Questo cortometraggio, ordinato dalla Society for Assistance to Lepers,  una società caritatevole per la lotta contro la lebbra, è l’unico film di Forugh, che rivela una stupefacente padronanza della fusione del documentario e del linguaggio poetico e ne fa un’opera semplice ma eterna, un faro del cinema d’arte iraniano.

Ebrahim Golestan, suo compagno nella vita e nel lavoro, è il produttore del film.

 

Il primo giorno che ho visto i lebbrosi, sono stata malissimo. Era uno spettacolo terribile: in un lebbrosario vivono creature con connotati e sentimenti umani, ma senza tratti umani.”

 

Le donne lebbrose sono molto strane, pur avendo perduto ogni traccia della loro bellezza, si truccano quotidianamente. Le loro dita consunte dalla lebbra sono piene di anelli. Mi hanno chiesto collane e bracciali. Nelle loro camere vi sono specchi e talismani.”

 

Il film si apre con l’immagine di una donna dal volto semicoperto che si guarda allo specchio.

 

 “Il mio film  si apre con l’immagine di una donna che si guarda allo specchio. Questa donna simboleggia, in realtà, l’essere umano che osserva la sua vita allo specchio, qualsiasi sia questo specchio.”

 

Una voce fuori campo commenta:

 

Il mondo non difetta certo di brutture, se l’uomo distogliesse da loro lo sguardo ve ne sarebbero certo di più.”

 

È così che si entra nel quotidiano della khane-ye siyà, dove i lebbrosi attendono che la morte o, forse, per miracolo, le cure pongano fine al loro dolore. La critica iraniana accusa Forugh di strumentalizzare i malati, di usarli per scrivere una metafora dell'Iran sotto lo Shah, un luogo di isolamento e di repressione. Ma, di sicuro, Forugh sarebbe stata in prima linea anche contro ogni oscurantismo religioso-politico a venire.

Nel corso del frenetico processo di modernizzazione del Paese messo in atto da Mohammad Reza Pahlavi non era consentito rappresentare le miserie e i disagi che ancora persistevano: l’Iran doveva apparire agli occhi delle potenze occidentali un paese in pieno e rapido sviluppo.

Il bersaglio primario della censura era, dunque, rappresentato da qualsiasi opera che, stigmatizzando i gravi costi sopportati dal popolo per quella modernizzazione forzata, potesse descrivere criticamente le condizioni sociali del Paese o metterne in risalto la povertà e l’arretratezza o, comunque, una qualsiasi carenza della politica di governo.

Questa donna bizzarra è una figura scomoda, troppo particolare, troppo eccentrica.

Il punto è che l’ufficialità la osteggia per le scelte radicali di arte e di vita, per le immagini che scavano nelle pieghe invisibili dell'Iran: è la prima donna in Iran a scrivere di amore,  di desiderio e di sensualità, e questo è intollerabile, come intollerabile è il fatto che nell'arte entri il vissuto senza compiacimenti, ma come gesto di libertà. Perché quel vissuto mescola erotismo e religione, denuncia privilegi e povertà, trasforma la Poesia in uno spazio politico, senza perdere il piacere della scrittura.

Nel 1964, pubblica la sua quarta raccolta, Rinascita, che raccoglie incontestabili capolavori.

I suoi stessi nemici lo riconoscono.

Forugh ha trovato, infine, il proprio linguaggio, che si nutre delle sue esperienze specificamente femminili. Adottando un punto di vista, risolutamente pessimista, descrive la società del suo tempo, i problemi del popolo iraniano in un’epoca di transizione tra tradizione e modernità – in una parola la vita di tutti i giorni e tutto questo utilizzando un linguaggio semplice e al tempo stesso molto immaginato.

 

Tutta la mia esistenza è un verso oscuro

Che reiterandosi ti condurrà

All’alba delle florescenze e delle crescite perenni.

In questo verso io ti sospirai.

In questo verso io ti innestai

All’albero, all’acqua e al fuoco.

 

È, tuttavia, nell’ultima opera poetica di Forugh Farrokhzad, Crediamo nell’inizio della stagione fredda, che include le sue poesie composte negli ultimi tre anni della sua vita, che la nuova nascita poetica di questa raggiunge il suo apogeo.

La poetessa dipinge la propria situazione nei versi che aprono la raccolta:

 

E sono io

Una donna sola

 

Tutte le poesie di questa raccolta ci presentano l’immagine di un essere umano vulnerabile e sensibile, che contempla il mondo attraverso una grande finestra.

Il lettore è testimone di un cambiamento radicale in ciò che concerne sia la forma sia il contenuto.

Forugh si mostra sempre più ispirata da Nima Yushij; abbandona la forma della quartina per adottare uno stile più libero che si accorda con l’allargamento del suo orizzonte e della sua immaginazione.

Forugh non cerca di seguire una démarche esclusivamente estetica, aspira a molto di più, a descrivere il mondo reale con tutti i suoi aspetti materiali e spirituali, utilizzando termini, talvolta, lontani dal linguaggio poetico. Parla di oggetti banali, cosa che le permette di rivelarci gli angolini più anodini e inattesi della vita quotidiana. In questo senso, i termini romantici che dominavano l’universo poetico di Forugh, all’inizio della sua carriera letteraria, scompaiono, a poco a poco, nelle due ultime raccolte. L’amore, la notte e la finestra vi appaiono in modo più marcato, ma il senso contenuto in questi termini è oggetto di una grande mutazione. Introduce nell’universo poetico nuovi termini quali scopa, cucina, corda da stendere, paillettes, aquilone, vaso, parole incrociate, fumo di sigaro, dilatazione dell’amore, venerdì annoiati, tazza, armadio, getto d’acqua, perla di vetro, strade vuote… così la Poesia di Forugh si trasforma in una Poesia palpabile, viva e più vicina al quotidiano di ciascuno.

La sua salute peggiora.

La scelta della Poesia, in ciò che la concerne, è scelta di vita.

Le occorse scegliere tra una vita familiare piacevole e una vita artistica tormentata. Anche se molto più tardi, si rimise dal trauma del divorzio, non si rimise mai dal dolore dell’abbandono imposto di suo figlio. Il crollo di tutti i suoi progetti di vita: l’amore, il matrimonio, la famiglia, il perseguimento di una carriera artistica e la difesa della causa delle donne, sprofondò Forugh in un mondo di tenebre senza limiti, nell’angoscia della rovina…

Nondimeno, si aggrappò a fragili rami d’amore per unirsi al principio della luce…

Come questa angoscia della rovina si è tradotta nella sua vita e nella Poesia?

La sua delusione e l’angoscia che ne risultò scatenarono in lei una depressione profonda e cronica.

L’ultimo decennio della vita di Forugh come il secondo periodo della sua Poesia sono molto segnati da questa depressione.

Sappiamo che lei è stata ospedalizzata e curata una prima volta in gioventù.

Conosciamo la sua ossessione della morte e i suoi tentativi di suicidio.

Diversi amici hanno riferito il fatto che avesse l’abitudine a isolarsi, a chiudersi nella sua camera per piangere. Questi periodi di tristezza, di angoscia e di disordini erano sempre seguiti da periodi di euforia, di gaiezza e soprattutto di creatività artistica.

Era cosciente della sua malattia?

All’epoca non si conosceva, forse, molto bene la depressione, le sue cause e le sue conseguenze.

Forugh ne parla vagamente nelle sue lettere, ma in un modo molto esplicito nella sua Poesia. L’atmosfera di alcune delle sue poesie, le immagini che impiega, esprimono le sue paure, le sue angosce e le sue sofferenze, in una parola il suo mal di vivere.

Come qualificare la sua sofferenza?

Forugh non somiglia a Sadeq Hedayat.

La sua sofferenza è piuttosto la conseguenza diretta del fallimento dei progetti di vita della sua giovinezza.

Questo mal di vivere è in stretta relazione con l’ambiente sociale dell’Iran.

Secondo i suoi racconti di viaggio, la prima volta che era uscita dal Paese dopo il divorzio, era riuscita a superare bene le sue angosce e a condurre una vita tranquilla e soddisfacente.

Di ritorno in Iran, era ricaduta nel cuore delle tenebre ma, allo stesso tempo, si era impegnata in una lotta per vincere i suoi demoni e creare.

In breve, si trattava proprio di un’angoscia creatrice.

Forugh stessa qualifica questa sofferenza “malattia felice”.

Ma si può ridurre la vita e l’opera di Forugh a questo solo lato oscuro?

Forugh non ci ha anche incantati e stupiti con la sua tenerezza, i suoi desideri, le sue passioni, i suoi amori, la sua aspirazione alla libertà e all’épanouissement, in breve, con le sue luci?

Sicuramente.

Odiata o amata, senza mezze misure, da chi ebbe modo di conoscerla, dopo la sua morte, Forugh è divenuta, in Iran, una leggenda.

Di là dalle mitizzazioni del personaggio, nel leggere le numerose pagine a lei dedicate, non si riesce, comunque, a rimanere indenni dal fascino che soffonde da questa donna, che riposa da quarantaquattro anni nel cimitero di Zahir-od-Dowlè, a Tehran.

Le molte false glorie, che il nostro tempo ha visto tramontare, in campo letterario come in altri campi, acuiscono la nostalgia dell’incontro con una gloria autentica. Ma non solo per questo Forugh è sentita così attuale e congeniale dalle nuove generazioni.

Si tratta di un’affinità più profonda.

Una rivoluzione divide gli abitanti di un Paese in tre gruppi: quelli che non possono essere che rivoluzionari, quelli che non possono essere che ostili alla rivoluzione e quelli che sono dilaniati perché, pur appartenendo alla classe minacciata, la avversano.

È a questo terzo gruppo che appartiene Forugh Farrokhzad.

Daniela Zini
Copyright ©
1 maggio 2011 ADZ

 

A breve aggiungeremo la registrazione della serata di cui al manifesto iniziale di questo articolo



Lunedì 02 Maggio,2011 Ore: 16:00
 
 
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