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www.ildialogo.org Rapa Nui,di Michele Zarrella

Otto domande, otto risposte l’otto del mese
Rapa Nui

di Michele Zarrella

La fine della civiltà dell’isola di Pasqua


La storia della civiltà dell’isola di Pasqua è significativa ed è un grande insegnamento. Quando è iniziata?

La civiltà dell’isola di Pasqua inizia intorno nel V secolo quando alcuni navigatori polinesiani la raggiunsero sulle loro imbarcazioni primitive. L’isola appartiene al Cile e si trova a 3600 chilometri ad ovest, praticamente nel “cuore” dell’oceano Pacifico meridionale. Una storia davvero significativa e istruttiva che vale la pena di raccontare. Su di essa è stato fatto un film Rapa Nui che è il nome dell’isola in lingua nativa. Letteralmente significa “grande isola/roccia”. Ultimamente se ne è interessato anche la trasmissione Ulisse di RAI 3. È nota a tutti per i giganteschi busti di pietra, detti moai posti su piattaforme dette ahu. L’isola di Pasqua ha una superficie inferiore all’isola d’Elba. (Nella foto, tratta da internet,  alcuni moai e parte della costellazione di Orione).

In effetti, allora, quando l’Impero romano stava per crollare la civiltà dell’isola di Pasqua cominciava.

Esatto questo ci fa anche constatare la differenza che esisteva, e che esiste, fra varie civiltà. La civiltà romana aveva raggiunto la vetta e volgeva al termine. I Romani avevano conquistato un vastissimo impero, conoscevano i metalli, la ruota. Sapevano costruire acquedotti, strade, case, palazzi e città, mentre gli abitanti di Rapa Nui non conoscevano i metalli né la ruota. Vivevano come l’uomo dell’età della pietra, con i loro riti e i loro miti, in un’isola che altro non è che la cima di un immenso vulcano, che rimane annegato per oltre 2000 metri dentro il Pacifico. Era rigogliosa e fertile. Con grosse palme, ampie foreste e clima mite subtropicale con uno sbalzo termico quasi inesistente fra le stagioni. Potremmo dire una “terra promessa” dove insediarsi e vivere sereni, felici e tranquilli.

E come vivevano?

Per secoli vissero nel benessere e in simbiosi con la natura. La popolazione aumentava e raggiunse il culmine con oltre 8.000, forse 12.000 abitanti. Come tutte le civiltà umane la popolazione si organizzò in classi. C’erano i capi tribù, i sacerdoti, gli aristocratici, i guerrieri, i contadini e gli schiavi. Si svilupparono miti e riti religiosi che invogliavano a costruire statue di pietra a mezzo busto, detti moai, che dovevano raffigurare i loro più famosi antenati e che posizionati lungo tutta la costa dovevano proteggerli dall’oceano e simboleggiare con la loro grandezza la potenza della tribù. Quindi c’era una “gara” a chi li costruiva più grandi. Inizialmente venivano costruiti di 4 – 6 metri e pesavano decine e decine di tonnellate. Poi furono realizzati di 7 – 8 metri. Il più grande moai è di 18 metri, ma è rimasto supino lungo il percorso fra la montagna e il mare. Mentre un altro di 22 metri è rimasto scolpito sul pendio della montagna. Entrambi stanno lì a testimoniare il momento esatto in cui si fermarono le lancette della civiltà di Rapa Nui e la fine di una civiltà irripetibile.

Come costruivano i moai se non conoscevano i metalli, e come li trascinavano fino alla spiaggia se non conoscevano la ruota?

Con dei rudimentali martelli in pietra dura, e soprattutto con tanta fatica e sudore di decine e decine di persone, scolpivano direttamente sul pendio del vulcano il volto e il tronco del loro antenato fino alle mani che avevano delle dita lunghissime che quasi si congiungevano vicino all’ombelico. Dopo averlo scolpito, lo scavavano fino a staccarlo dalla montagna e infine lo trasportavano sulla spiaggia. Qui veniva posizionato su un altare con le spalle rivolte all’oceano e il volto verso l’entroterra per proteggere la propria tribù. Secondo gli archeologi un modo per trasportarli era quello di costruire con dei grossi tronchi una “zattera” sulla quale si imbrigliava la statua. Quest’ultima la si legava con tanti funi di canapa e decine di uomini la tenevano in equilibrio durante il tragitto. Poi la zattera veniva spinta da centinaia di uomini facendola rotolare lentamente su un letto di tronchi posti uno dietro l’altro che fungevano da rulli. E così con la forza e il sudore di qualche centinaio di uomini il moai veniva trascinato fino alla spiaggia. Per oltre cinque secoli gli abitanti dell’isola di Pasqua riuscirono a mantenere un equilibrio grazie a queste rigide regole sociali e religiose.

Quando crollò questa semplice civiltà che viveva felice e serena?

Dopo secoli e secoli di serenità e benessere iniziò, inevitabile, un lungo e terrificante declino. La popolazione cresciuta copiosamente incise pesantemente sull’ambiente (oggi la chiamiamo impronta ecologica v. ildialogo.org ). Nessuno si accorgeva che quella corsa a costruire moai sempre più grandi, portava alla distruzione della foresta, e la distruzione della foresta comportò, a catena, la mancanza di riparo dal vento e dalla salsedine, di frescura, di umidità e dell’humus del sottobosco tanto utile per la produttività del terreno. I terreni esposti al vento e al sole divennero sempre più secchi e meno fertili. Le piogge torrenziali portavano via i semi. La popolazione che aumentava da una parte e le risorse che diminuivano dall’altra portarono a mettere in dubbio e a contestare le rigide regole sociali e religiose. I capi clan per ristabilire l’ordine imposero la costruzione di statue più grandi e i sacerdoti persuadevano la popolazione che le statue più grandi avrebbero indotto l’intervento degli dei o dei vecchi capi defunti e ciò avrebbe ristabilito l’antico equilibrio fra uomo e natura. Per fare ciò occorrevano più tronchi di quanti la foresta riusciva rigenerare e pertanto gli abitanti dell’isola tagliarono tutti gli alberi della foresta, nonostante l’opposizione di qualcuno. Offuscati dalle convinzioni e dalle rigide regole imposte si avviò una spirale devastante: un vero suicidio ecologico. Non si accorsero che stavano segando il ramo su cui erano seduti. Nel XVI secolo la foresta scomparve. L’abbattimento dell’ultimo albero rappresentò il punto di non ritorno e il conseguente crollo della civiltà. L’agricoltura non riusciva più a sopperire ai bisogni della popolazione. Si ebbero carestie e fame nera. Allora gli isolani si cibarono di tutto quello che l’isola poteva dare e quindi anche degli uccelli. Nessuna specie di volatile terrestre sopravvisse alle stragi. Di quelle marine alcune sopravvissero perché si rifugiarono sui piccoli isolotti vicini.  Distrutte anche queste fonti di proteine cominciarono furti, razzie e ribellioni fra le varie tribù. La civiltà dell’isola di Pasqua muore: le sue leggi e la sua religione non contano più. Su tutta l’isola si cominciano a costruire con l’ossidiana, un vetro vulcanico molto tagliente, tantissime armi per prepararsi alla guerra civile. In questo periodo, anche se non esistono prove sicure, è da supporre vero quello su cui quasi tutti gli archeologi concordano: gli isolani si rivolsero all’unica fonte di proteine abbondante sull’isola cioè agli altri esseri umani. I nemici uccisi venivano mangiati. Divennero cannibali. Mamma mia, che orrore! Un disastro da cui non si poteva nemmeno fuggire. Infatti senza alberi non si potevano costruire neanche le zattere per lasciare l’isola. Finì orribilmente la civiltà di Rapa Nui.

Ma come è stato possibile che nessuno si accorgesse di quello che stavano facendo e delle loro conseguenze?

La risposta è duplice. Da un lato i cambiamenti ambientali, fino al punto di non ritorno, sono molto lenti e nell’arco di una vita umana, cioè di tre o quattro generazioni, non si riesce a notare il mutamento e il progressivo degrado. Dall’altro lato anche se qualcuno molto anziano avesse intuito il pericolo e lo avesse segnalato veniva zittito, isolato, denigrato fino ad essere minacciato di morte (e caso mai messo al rogo) da chi traeva potere e interesse da quelle attività a cominciare dal capi tribù per i quali ogni moai rimarcava il proprio potere … e dai sacerdoti per i quali la religione è indiscutibile e infallibile. Il grande Machiavelli, da quest’altra parte del mondo, esprimeva questo concetto: “I problemi sono facilissimi da risolvere all’inizio quando cominciano a venire fuori, ma ci vuole un sovrano molto accorto per identificarlo al suo inizio. Successivamente, quando il problema si è sviluppato, e diventa incombente tutti sono in grado di vederlo. Ma a quel punto il problema sarà molto difficile da risolvere.

Una storia terribile!

A questo punto ognuno di noi può trarre dei paragoni con l’attuale situazione. L’isola di Pasqua è un granello nell’oceano Pacifico, la Terra è una gigantesca isola di Pasqua, ma anch’essa è un granello nel cosmo e da essa non abbiamo possibilità di  fuggire. Oggi abbiamo gli identici problemi della civiltà dell’isola di Pasqua: aumento esponenziale della popolazione (più di 7 miliardi di persone, quando mezzo secolo fa eravamo 2 miliardi), pesante impatto ambientale, aumento della concentrazione dei gas serra, alluvioni, desertificazioni, diminuzione delle risorse (v. ildialogo.org), riscaldamento globale, …

La storia si ripete. Perché non pensiamo che solo la civiltà dell’isola di Pasqua sia crollata miseramente sfociando addirittura nel cannibalismo. Molte civiltà che ci hanno preceduto sono sprofondare in barbarie. Studiando le precedenti civiltà: Aztechi, Egizi, Maya,  … e vedendo i monumenti da loro eretti, ora tutti miseramente crollati o abbandonati, siamo portati, erroneamente, a pensare che in queste antiche civiltà vi fossero saggi governanti e sacerdoti avveduti e si viveva in pace. Tutt’altro. C’era poco rispetto delle regole, dell’ambiente e della persona. In onore delle varie divinità venivano fatti sacrifici, anche umani. Forse non è del tutto vero che venissero sacrificate delle giovani vergini, ma i nemici e i prigionieri si. Gli Aztechi strappavano il cuore dei prigionieri ancora vivi per offrirli agli dei. E poi li decapitavano e le teste venivano esposte come trofei con lo scopo di scacciare la malasorte. Ma chi vedeva questi macabri trofei era indotto a temere e rispettare la persona che li aveva ottenuti perché pensava che fosse un guerriero molto forte, potente e soprattutto pericoloso.

Ma oggi abbiamo la conoscenza e internet.

Sì abbiamo internet, ma l’uomo non è cambiato: poco rispetto della dignità umana, poco rispetto delle regole e poco rispetto dell’ambiente. Vogliamo ricordare la Soluzione finale di Hitler, i Gulak di Stalin, le stragi di Pol Pot, le barbarie nel Vietnam e nella ex Iugoslavia (perpetrate addirittura in nome di una religione),… l’abbattimento delle torri gemelle, le foto di Gheddafi, attualmente la rivoluzione in Egitto, dove Mohamed Morsi si è autoproclamato Novello Faraone? Oggi sappiamo che 1/8 della popolazione mondiale è denutrita e 1/6 non ha accesso all’acqua potabile. Consumiamo 950 barili di petrolio al secondo. Con tale quantità un’auto percorrerebbe tanti chilometri pari a 4,5 volte la distanza Terra-Luna. Le foreste tropicali vengono divorate dalle multinazionali, le barriere coralline scompaiono… 2 miliardi di persone, un terzo della popolazione mondiale, vive di pesca e di mare, ma l’acidificazione degli oceani mette a rischio il loro approvvigionamento. E la concentrazione eccessiva di gas serra nell’atmosfera col riscaldamento globale? Oggi se scoppia una crisi in Africa o in Asia la gente scapperebbe versi le nazioni vicine. E così a catena come in un dòmino in tutto il mondo.

È incredibile vedere come a volte quando tanti scienziati denunciano il pericolo vengono zittiti, contraddetti, denigrati da chi trae potere e interesse dalle attuali attività inquinanti. È più importante il profitto che la salute dell’ambiente (vedi ILVA per restare nell’attualità italiana). Anche noi nella nostra breve vita non prendiamo coscienza del progressivo degrado ambientale e restiamo attaccati alle nostre convinzioni, alle nostre regole sociali e credenze dettate dal consumismo e dalle superstizioni. Anche noi continuiamo a comportarci senza rispetto per la casa in cui abitiamo. O se volete continuiamo a segare il ramo su cui siamo seduti. Cosa abbiamo concretizzato con le 18 Conferenze delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici? Ancora oggi leggiamo sulla stampa "Nessun accordo a Doha, dove dal 26 novembre scorso si tiene la XVIII Conferenza..." Facciamo uno sforzo: guardiamo il problema con l’occhio della storia, dell’archeologia, della paleoclimatologia, della scienza e soprattutto della razionalità. Ci sono due modi per ingannarsi: credere in ciò che non esiste, oppure non credere in ciò che esiste. Vogliamo continuare ad ingannarci?! e subire le conseguenze che la storia ci insegna? E questo vi pare un comportamento da Homo sapiens?

Gesualdo, 8 dicembre 2012

Michele Zarrella

Per contatti

zarmic@gmail.com 

sito web: digilander.libero.it

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Sabato 08 Dicembre,2012 Ore: 00:02
 
 
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