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www.ildialogo.org L'inferno dei manicomi italiani,Bruno Gambardella

L'inferno dei manicomi italiani

Bruno Gambardella

Qui, tra Sparta e Atene, siamo davvero in pochi a credere all’esistenza dell’Inferno. Parliamo dell’Inferno ultraterreno, quello nato dalla collera di un Dio vendicativo, quello abitato da diavoli con corna e forconi. Sull’esistenza dell’inferno in terra non abbiamo invece alcun dubbio. Limitiamoci ad osservare l’Italia: i “centri di accoglienza” per immigrati, certi quartieri delle grandi megalopoli, le carceri che cosa hanno da “invidiare” ad un inferno vero e proprio?

 

Anni fa Domenico Modugno, cantante di grande successo, intraprese assieme al Partito Radicale una battaglia per denunciare la miseria materiale e morale dei manicomi, l’emblema dell’inferno terreno, almeno in Italia.  Quando si parla di salute mentale e della riforma Basaglia, che fece chiudere i manicomi, quasi nessuno sa che circa 1.500 persone sono ancora rinchiuse negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, più brutalmente chiamati "manicomi criminali". Oggi a cercare di tenere desta l’attenzione è  Ristretti Orizzonti", testata dell'Associazione "Il Granello di Senape", l’unica rivista italiana a nascere all’interno di un carcere, quello di Padova.

In un dossier di recentissima pubblicazione i volontari e i detenuti che collaborano al giornale (affiancato da un ottimo sito web) fotografano la situazione, forse oggi ancora più grave di quella denunciata da Modugno. Ma chi sono i 1500 “dannati”? Per lo più si tratta di persone che, pur avendo commesso reati, non hanno subito il processo perché ritenute incapaci di intendere e volere, ma per le quali il giudice dispone una misura di sicurezza che può essere anche l’internamento. E l’internamento finisce quando il magistrato di sorveglianza ritiene che la persona non sia più pericolosa, ma può continuare ancora quando l’internato non ha nessuno che possa seguirlo e occuparsi di lui. Ma poi si finisce all’Opg anche dal carcere, un detenuto può essere spedito lì in osservazione quando sta particolarmente male, e magari è considerato a rischio di suicidio, ma il "rimedio" è invece spesso un assaggio di inferno.

 

Riportiamo alcune testimonianze raccolte da Ristretti orizzonti.  

 

Spiega Pietro,un detenuto arrivato in Opg dal carcere: "Appena arrivato mi misero in una cella doppia. Dopo aver trascorso i primi giorni tranquillamente, ebbi una animata discussione con il mio compagno di cella. Arrivarono gli agenti e mi legarono per circa cinque giorni a un letto di contenzione: mi denudarono completamente, m’inserirono un catetere per espletare i miei bisogni fisiologici e mi lasciarono solo in una cella spoglia".

I letti di contenzione dunque esistono ancora, anche se almeno nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa. Adolfo Ferraro, psichiatra, direttore sanitario della struttura, ha dichiarato di recente che "non ci sono più dal gennaio 2009 i letti di contenzione. E siamo probabilmente gli unici a non averli più". È già un passo avanti, ma il rapporto del Comitato per la prevenzione della tortura (Cpt) del Consiglio d’Europa, redatto dopo un’ispezione effettuata nel settembre 2008, segnala ancora le pessime condizioni in cui versano gli Ospedali psichiatrici giudiziari nel nostro Paese, e le testimonianze di detenuti che hanno passato qualche tempo al loro interno ne sono una drammatica conferma.

 

Renato e i suoi trenta giorni di Opg

 

Dalla mia esperienza di carcere ho visto che all’Opg si rischia di finirci per tanti motivi diversi. Ad esempio ho visto mandarci persone che avevano commesso il reato con una modalità tale che lasciasse pensare che "non c’erano con la testa". Oppure c’è chi è stato internato per scontare una misura di sicurezza che viene applicata dal Giudice di cognizione in sentenza, oppure ho visto qualcuno dare di matto durante la carcerazione. Ed è proprio uno di questi che mi ha raccontato la sua storia. Si chiama Renato e mi dice di essere stato "arrestato con prove false, costruite a tavolino". Dal primo momento dell’arresto ha sempre proclamato la sua estraneità ai fatti che gli venivano contestati. "Ho scritto innumerevoli lettere ai giudici dichiarando la mia innocenza", dice "ma non ci fu niente da fare, nessuno mi prendeva in considerazione".

Così, per dimostrarsi "credibile", Renato si è tagliato un pezzo di orecchio e lo ha spedito al giudice, dentro una busta, con allegato uno scritto dove diceva che lui era un sequestrato, che non aveva soldi per pagare il riscatto, e chiedeva al giudice se lui poteva fare qualcosa per liberarlo. Dopo aver spedito la lettera cominciò anche lo sciopero della fame.

"Venne a trovarmi lo psichiatra del carcere", racconta Renato, "gli dissi semplicemente che avrei continuato con lo sciopero della fame fino a lasciarmi morire. Il risultato fu che mi portarono direttamente all’Ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino. Ti rendi conto! Uno dice di essere innocente e ti portano in manicomio".

All’Opg Renato rimase in osservazione per trenta giorni. Poi lo dichiararono sano di mente e fu rispedito di nuovo in carcere. "Quando incontrai gli psichiatri di Montelupo raccontai la mia storia" confessa Renato, "e loro mi fecero delle domande solo per capire se ero capace di intendere. E siccome io ero lucido, fui portato in una cella non tanto diversa dalle celle del carcere: sbarre alla finestra, il cancello e il blindo come porta. Si tratta di celle grandi dove ci stanno una decina di letti. In pratica mi trovai buttato dalla cella a due del carcere in una cella grande in compagnia di nove pazzi o presunti tali".

L’ambiente in Opg è completamente diverso dal carcere, nel senso che se succede che un detenuto dia in escandescenze e mandi la guardia a quel paese, non si avvia la normale procedura disciplinare, come avviene in carcere dove ti fanno rapporto o ti denunciano. Ma se invece qualcuno diventa violento, allora viene preso e legato nel letto di contenzione.

"C’era una stanza apposita con una branda con le cinghie per legare la persona mani e piedi", racconta Renato "Una volta legati si può essere lasciati anche per parecchi giorni, per mangiare si viene imboccati dagli infermieri senza essere slegati, e per fare i bisogni sono sempre gli stessi infermieri che ti infilano sotto una padella o una specie di contenitore dove poter urinare".

Ma le cose che Renato ricorda meglio sono le punture calmanti, una "terapia" che ti proibisce di capire dove sei e ti annulla come persona.

 

Senza lenzuola, e sorveglianza a vista

 

“Mi chiamo Bellili e sono tunisino. Ho 25 anni e sono in Italia da circa tre. In carcere sono finito per spaccio di stupefacenti e sono stato condannato a due anni di reclusione.

Quando sono stato arrestato mi hanno portato in una Casa circondariale in una cella da sei. Per me questa era la mia prima esperienza con il mondo del carcere. Ero totalmente disperato. Non capivo niente. Non avevo nessun contatto con la mia famiglia. Mio padre è morto, ho mia madre e tre sorella che stanno in Tunisia, l’unico motivo per cui sono arrivato in Italia è stato per migliorare la loro vita.

Quando ero alla casa circondariale avevo una ragazza che veniva a trovarmi appena poteva. Ma sentivo che questo rapporto non poteva durare. Avevo cominciato a preoccuparmi anche per la mia famiglia. Ricevevo una lettera al mese e non potevo telefonare. Avevo chiesto alla direzione del carcere tante volte di poter lavorare, ma la mia richiesta non era stata accolta perché lavoro ce n’è poco in carcere. Ho chiesto aiuto all’educatore e allo psicologo, ma nessuno è riuscito a darmi una mano. Allora, in un momento di debolezza ho deciso di farla finita perché mi sembrava l’unica cosa giusta, ma non ci sono riuscito.

Quando sono stato trasferito alla Casa di reclusione di Padova, questo tentativo di suicidio mi era rimasto come una macchia nera nella mia cartella. Come al solito, ho chiesto di lavorare. Mi ha chiamato anche lo psicologo, ma non sono riuscito a chiarire con il personale il mio stato d’animo e il mio disagio. Così ho detto che avrei cominciato a farmi del male. Mi hanno portato in infermeria e mi hanno messo la sorveglianza a vista. Io avevo minacciato che mi sarei fatto male e loro minacciavano di portarmi all’Opg. Alla fine, convinti che fossi matto, mi hanno mandato davvero in un Opg.

Lì ho visto l’inferno. Mi hanno trattato come una bestia pericolosa. Osservazione 24 ore su 24, anche in bagno. Senza lenzuola e sorveglianza a vista. Bastava che uno si lamentasse di qualsiasi cosa per essere legato alla branda, nudo e imbottito di psicofarmaci così forti che non ti ricordi più niente fino all’indomani. E questo trattamento si ripete ogni volta che protesti. Così ho capito che l’unico modo per andare via di lì era stare zitto. Ho deciso di sopportare qualsiasi abuso e maltrattamento e i giorni di quell’inferno sono finiti. Grazie a Dio dopo un mese e mezzo sono tornato alla Casa di reclusione di Padova e adesso non vado più a litigare con nessuno per avere un lavoro, anche se so quanto importante sarebbe per me e per tutti noi essere occupati in qualche attività che desse un senso alle nostre giornate”.

 

Cronache dall’inferno in terra, dunque. Cronache da un Paese, l’Italia, che si ostina a definirsi civile.

 



Giovedì 29 Aprile,2010 Ore: 08:35
 
 
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