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www.ildialogo.org La Luce delle Genti, il Popolo di Dio, e l'oscuramento delle indicazioni della Costituzione del Vaticano II. Un'analisi di Giordano Frosini - con note    ,a c. di Federico La Sala

VESCOVI, PAPA, E POPOLO DI DIO. Concilio Vaticano II: Cristo è la luce delle genti ("Lumen Gentium", 21 novembre 1964). Ratzinger: "Il Signore Gesù, prima di ascendere al cielo, affidò ai suoi discepoli il mandato" ("Dominus Iesus", 6 Agosto 2000). GESU’ E'  IL "TESORO" DI "MAMMASANTISSIMA" E IL FIGLIO  DI "MAMMONA" (Benedetto XVI, " Deus caritas est")!!! 
La Luce delle Genti, il Popolo di Dio, e l'oscuramento delle indicazioni della Costituzione del Vaticano II. Un'analisi di Giordano Frosini - con note    

Nella storia del post-concilio in generale e di quello italiano in particolare, il 1985 è un anno di importanza rilevante (...)  il concetto di “popolo di Dio”, sostituito, con una sorta di colpo di mano, con la parola “comunione”.  


a c. di Federico La Sala

NOTE SUL TEMA:

SPEGNERE IL "LUMEN GENTIUM" E INSTAURARE IL POTERE DEL "DOMINUS IESUS". Il disegno di Ratzinger - Benedetto XVI. Due testi a confronto, con alcune note

LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!

LA GRAZIA DEL DIO DI GESU’ E’ "BENE COMUNE" DELL’INTERA UMANITA’, MA IL VATICANO LA GESTISCE COME SE FOSSE UNA SUA PROPRIETA’. Bruno Forte fa una ’predica’ ai politici, ma non ancora a se stesso e ai suoi colleghi della gerarchia. Una sua nota, con appunti 

SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi. (fls)

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La Chiesa-Popolo di Dio secondo il Concilio

di Giordano Frosini ( “Settimana”,  n. 5,    6 febbraio 2013)

Nella storia del post-concilio in generale e di quello italiano in particolare, il 1985 è un anno di importanza rilevante per due avvenimenti che hanno avuto un influsso notevole e prolungato nella vita della Chiesa sia italiana che universale.

Nel mese di settembre si tenne il secondo convegno delle chiese italiane a Loreto e, solo pochi giorni più tardi, dal 24 novembre all’8 dicembre, si celebrò a Roma il sinodo straordinario a vent’anni dalla fine del concilio Vaticano II. Se si vuole riflettere in profondità oggi, a cinquant’anni dall’inizio dello stesso concilio, sulla storia della ricezione della grande assise ecumenica, non è possibile prescindere né dall’uno né dall’altro avvenimento, almeno in lontananza uniti insieme dallo stesso spirito e da una comune ispirazione.

Del convegno di Loreto si è parlato a sufficienza nel passato, soprattutto per mettere in risalto il cambio di marcia della Chiesa italiana, che conserva ancora, a distanza di quasi quarant’anni, conseguenze ben visibili, tutt’altro che positive, a giudizio di chi scrive. Vogliamo ora mettere in luce quanto avvenne nel sinodo straordinario che, per il suo influsso, va naturalmente ben al di là dei confini e dei problemi della Chiesa italiana e ha suscitato una discussione sulla quale è opportuno ritornare.

Le tre fasi post-conciliari

Normalmente, nella divisione della ricezione post-conciliare in tre tempi, il sinodo viene considerato come la fine del primo periodo e l’inizio del secondo. Il terzo si fa poi cominciare col giubileo del 2000 e si estende fino ai nostri giorni. Di esso si è parlato soprattutto, ma non soltanto, per la vicenda riguardante il concetto di “popolo di Dio”, sostituito, con una sorta di colpo di mano, con la parola “comunione”. Da allora (si veda, per esempio, l’esortazione post-sinodale Christifideles laici), per esprimere l’ecclesiologia del Vaticano II, si parlerà comunemente di Chiesa-mistero, di Chiesa-comunione e di Chiesa-missione: la Chiesa-popolo di Dio praticamente sparisce dal vocabolario usuale anche dei teologi.

Eppure il termine appare addirittura nello stesso titolo del capitolo secondo della costituzione Lumen gentium, in seguito a una scelta ben ponderata dagli attenti padri conciliari, in diretto collegamento col capitolo primo dedicato al mistero della Chiesa. Come dire: il mistero, che nasconde in sé l’intima natura della Chiesa, si realizza concretamente in un popolo, con tutte le caratteristiche che il termine si porta con sé. La scelta proveniva da un uso molto lontano e frequentissimo sia del Primo che del Secondo Testamento, oltre che della liturgia. Un conteggio preciso, compresi connessi e derivati, sarebbe praticamente impossibile. Il sinodo straordinario terminò con una relazione che sostituiva l’ormai consueta esortazione post-sinodale del pontefice, e un messaggio - si direbbe: ironia della sorte - «al popolo di Dio».

Il teologo Walter Kasper, chiamato per l’occasione a fare da segretario, rilasciò quasi immediatamente i suoi ricordi e il suo commento in una piccola pubblicazione, che ci può aiutare molto a ricomporre il dibattito, svoltosi purtroppo in un tempo abbastanza ristretto: Il futuro dalla forza del concilio. Sinodo straordinario dei vescovi 1985 (Queriniana, Brescia 1986).

Suscita un po’ di meraviglia il fatto che la critica e la sostituzione del concetto di popolo siano state fatte proprie e approvate anche da lui, che pure ha dimostrato più tardi di essere capace di grande originalità e di altrettanto coraggio.

La cosa fu mal digerita in un primo tempo, poi però la contestazione lentamente si organizzò dando vita, specialmente nel Sudamerica, ad una reazione di cui dobbiamo prendere pienamente atto.

Questa sostituzione non è per caso un atto indebito su un testo conciliare, nato non proprio immotivatamente e senza adeguata preparazione da parte della grande assemblea?

Per la verità, la lettura del documento finale destava già in principio una certa sorpresa, perché si affermava che «il fine per cui è stato convocato questo sinodo è stato la celebrazione, la verifica e la promozione del concilio Vaticano II», con una precisazione ulteriore: «Unanimemente e con gioia abbiamo verificato anche che il concilio è una legittima e valida espressione e interpretazione del deposito della fede, come si trova nella sacra Scrittura e nella tradizione della Chiesa» (n. 2). Un sinodo può parlare così di un concilio ecumenico, la massima espressione del magistero della Chiesa? Con questo stesso spirito, chiaramente sopra le righe, si sostituisce una delle espressioni centrali del documento conciliare: quella di “popolo di Dio”.

Lo riconosce W. Kasper nel testo prima citato, quando afferma che la relazione introduttiva «denuncia certi arbitri e soggettivismi nel modo di organizzare la liturgia e un modo d’intendere troppo esteriore la partecipazione attiva in campo liturgico, nel senso cioè di una mera cooperazione esterna, invece di un coinvolgimento nel mistero di morte e risurrezione di Gesù Cristo. Constata poi anche un distacco dall’interpretazione scritturistica della tradizione viva e del magistero della Chiesa, anzi una notevole incomprensione della verità oggettivamente data, soprattutto nella sfera della dottrina morale, e anche un certo “cristianesimo di selezione”. Il cuore della crisi è stato individuato nel modo d’intendere la Chiesa.

La qualifica della Chiesa come “popolo di Dio” spesso è stata mal interpretata: la si è isolata dal contesto storico-salvifico della Scrittura e spiegata a partire dal senso naturale, o politico di “popolo di Dio”. Talvolta anche il dibattito sulla democratizzazione della Chiesa ha subito l’ipoteca di tale malinteso». Così, la relazione finale poteva affermare: «L’ecclesiologia di comunione è l’idea centrale e fondamentale nei documenti del concilio». Una frase certamente accettabile, ma in altro contesto, quello direttamente inteso dai padri conciliari. Era proprio necessario, per evitare i malintesi e le erronee interpretazioni del post-concilio, mettere in disparte il concetto di popolo? Non si potevano evitare gli inconvenienti denunciati purificando l’acqua sporca senza buttare via insieme anche il bambino? La questione è così posta nel suo significato fondamentale e il dibattito che ne seguì di conseguenza, all’interno e all’esterno del sinodo, è colto alla sua radice.

La rivolta dei teologi

I teologi che non vorranno accettare il cambiamento sinodale avranno buon gioco a mostrare i danni che da questo possono derivare e di fatto, almeno alcuni tutt’altro che secondari, sono derivati nella concezione e nella vita della Chiesa. Una constatazione che rende ancora più discutibile, in certo modo anche più grave, l’operazione condotta dai padri sinodali, già in questione per avere indebitamente corretto in un punto importante il pensiero del concilio sottoposto alla loro analisi. Si tratta di un vero e proprio cortocircuito teorico e pratico, per il quale è necessario non rassegnarsi. I vantaggi derivanti dalla dottrina conciliare erano stati ben individuati anche dai primi commentatori della costituzione Lumen gentium, come G. Philips, O. Semmelroth, Y. Congar.

Sostanzialmente tutto nasce dalla considerazione della Chiesa come soggetto storico, «l’ultima fase definitiva dell’alleanza bilaterale, che Dio ha stretto col popolo da lui salvato», la comunità escatologica che «peregrina nella storia come un giorno il popolo eletto peregrinò nel deserto avviandosi verso la terra promessa», l’incarnazione storica del mistero provvidenzialmente messo al centro della stesura del primo capitolo.

Aspetti certamente non del tutto ignoti anche prima della celebrazione del concilio. «Questa presentazione teologica - aggiungeva Semmelroth - non vuole affatto sostituire la dottrina della Chiesa quale corpo mistico del Signore con quella di popolo di Dio. Intende piuttosto integrarla, perché l’essenza della Chiesa è così complessa da non poter essere esaurita né da una definizione logica né da un’unica immagine».

Anzi, la priorità del concetto di popolo rispetto all’immagine del corpo sottolinea ancora meglio uno dei motivi principali, se non il principale, della scelta dei padri conciliari, che è quello dell’affermazione dell’uguaglianza sostanziale fra tutti i membri della Chiesa, il motivo che aveva già consigliato lo spostamento del capitolo dedicato alla gerarchia dal secondo al terzo posto.

Anche nella triade privilegiata fra le diverse immagini della Chiesa (popolo di Dio, corpo di Cristo, tempio dello Spirito Santo), precede il concetto di popolo, non soltanto per un motivo di carattere trinitario, ma anche perché il corpo mette in luce la diversità delle membra, della quale si parla soltanto dopo aver assicurato la sostanziale uguaglianza fra tutti i battezzati: la diversità dei carismi e dei ministeri non deve ostacolare quel concetto che il n. 32 della Lumen gentium esprimerà con icastica solennità con le note parole: «Quantunque alcuni per volontà di Cristo sono costituiti dottori e dispensatori dei misteri e pastori per gli altri, vige fra tutti una vera uguaglianza (vera aequalitas) riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo». L’aggiunta dell’aggettivo, di per sé non necessario, dà all’espressione una forza e un rilievo singolari.

Certo, fra le caratteristiche del popolo di Dio non andrà mai dimenticata la comunione, che lega essenzialmente la Chiesa al suo fondatore e Signore e, di conseguenza e nella stessa maniera, tutti i membri componenti fra di loro.

Comunione però non è una sostanza, non indica un soggetto; in termini aristotelici, dovrebbe essere catalogata fra gli accidenti. Dunque, più un aggettivo che un sostantivo. Oltretutto, fra le caratteristiche del popolo tutto quanto sacerdotale, il testo conciliare enumera anche la potenziale capacità di raccogliere «tutti gli uomini» di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Ogni uomo è ordinato al popolo di Dio e ogni nazione è parte potenziale del regno universale di Cristo. Anzi, di più, «questo carattere di universalità che adorna e distingue il popolo di Dio è dono dello stesso Signore, e con esso la Chiesa cattolica efficacemente e senza soste tende ad accentrare tutta l’umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo nell’unità dello Spirito di lui» (LG 13). Una potenzialità che incipientemente e misteriosamente prende forma e attualità già nei giorni della storia.

Sulla stessa linea Congar, per il quale il concetto di popolo di Dio mette «in risalto alcuni valori biblici fondamentali e l’orientamento globale verso il servizio missionario del mondo, cosa che risalta già dalle prime parole della costituzione dogmatica Lumen gentium: 1) una prospettiva di storia della salvezza, cioè una prospettiva escatologica; 2) l’idea di un popolo in cammino, in condizioni di itineranza; 3) l’affermazione di una relazione con tutta l’umanità, essa stessa in via di unificazione, e alla ricerca, tra mille difficoltà, di una maggiore giustizia e pace».

Può il concetto di comunione conservare e mettere in evidenza tutte le caratteristiche che il concetto di popolo si porta con sé? Esso possiede una vera ricchezza di significati difficilmente reperibili altrove ed esprimibili diversamente. Popolo come soggetto eminentemente attivo su tutto il fronte dell’attività della Chiesa: un popolo sacerdotale, quindi, profetico e regale. Un ottimo schema di lavoro, di riflessione teologica, di catechesi.

La critica più aspra e decisa, come abbiamo già detto, proviene dal Sudamerica. Ad essa ha dato voce sistematica il teologo belga-brasiliano Joseph Comblin in un libro tradotto anche in italiano, dal titolo originale O povo de Deus (Il popolo di Dio, Servitium/Città aperta, Troina - Enna - 2007), pubblicato nel 2002, «in previsione del nuovo pontificato», come afferma lo stesso autore nelle prime parole dell’introduzione.

«Le critiche al Vaticano II - afferma l’autore - condussero il sinodo del 1985 semplicemente a eliminare il concetto di “popolo di Dio”, sostituendolo con il concetto di comunione, come se questo avesse la medesima risonanza e come se i due fossero alternativi. La conseguenza fu immediata, anche se non sappiamo se fu intenzionale o no». Una categoria troppo sociologica? Ma «la sociologia praticamente non usa mai il concetto di popolo e teme di usarlo».

Perché allora questo timore? Naturalmente la critica di Comblin è condotta secondo gli schemi e il linguaggio della teologia della liberazione e raggiunge il suo vertice con l’affermazione che la scelta del termine comunione potrebbe facilmente far rientrare dalla finestra ciò che è stato messo felicemente fuori dalla porta, imponendo in pratica la comunione come ubbidienza al volere e al pensiero della gerarchia, eliminando o rendendo comunque difficile il contributo da parte del rimanente popolo di Dio. Comunque «il tema della comunione non esclude il tema del popolo di Dio né deve prendergli il posto. Il concetto di comunione è molto più ristretto che il concetto di popolo. Il popolo è una forma di comunione, ma include molti più elementi che il concetto di comunione». Parole, queste ultime, sulle quali non è difficile trovarsi d’accordo.

Il pensiero di Pino Colombo

È questo il pensiero di non pochi altri teologi, fra cui merita di essere ricordato S. Dianich, che in vario modo e da diversi punti di vista hanno sottoposto a motivata critica il cambiamento del testo conciliare.

Ma vorremmo ricordare in particolare il teologo milanese recentemente scomparso Giuseppe Colombo, insospettato sulla base del suo pensiero teologico e meticoloso al massimo nel ricostruire e discutere le diverse concezioni prese in esame.

Ci riferiamo in questo momento soprattutto a un suo contributo pubblicato di recente negli studi in onore di S. Dianich (Ecclesiam intelligere, Dehoniane, Bologna 2012), da considerarsi l’ultimo suo intervento sul nostro problema, aggiornato anche ad una successiva presa di posizione del card. Kasper.

Ricostruita con precisione la vicenda in questione, dopo aver ricordato che «sulla sostituzione di “comunione” a “popolo di Dio”, la Relazione non dice una parola», rimane a noi il diritto di domandarci «perché il sinodo abbia ignorato completamente la nozione di “popolo di Dio”, liberandosi così del dovere di fornire una qualsiasi spiegazione». Anche se, come si afferma, la nozione in questione è stata corrotta, politicizzata, socializzata fino a perdere ogni riferimento alla Chiesa, «la domanda è se la reazione debba spingersi a espungere totalmente dai testi del magistero la nozione di “popolo di Dio”», finendo col porre in questo modo, oltre che un problema storico (perché abbandonare la scelta dei padri conciliari?), un problema teorico di notevole importanza.

Secondo il pensiero dell’autore, mentre «“popolo di Dio” indicherebbe la svolta dell’ecclesiologia del Vaticano II», il concetto di comunione è visto in funzione della collegialità, cioè del rapporto papa-vescovi. «Non è possibile vedere, “oltre” la collegialità e (estendendo la nozione) “oltre” la comunione, il “popolo di Dio” conservandolo nella sua nozione propria, invece di rifiutarlo come una nozione inaccettabile? Di fatto sembra che al sinodo esso sia stato considerato come un’alternativa.

È quindi da chiedersi se, rispetto al “popolo di Dio”, la nozione di “comunione” non stacchi la Chiesa dal mondo, ritraendola in se stessa, sui suoi problemi interni (collegialità, conferenze episcopali, problemi dei laici, vocazione universale alla santità). Nessuno può contestare l’importanza e l’urgenza di questi problemi, ma l’insistente ed esclusivo richiamo ad essi sembrano costituire una penalizzazione evidente rispetto all’apertura al mondo del “popolo di Dio”». Di nuovo, e per altro verso, un ritorno al passato, questa volta per motivi esterni piuttosto che interni, ma sempre fondamentali nella mente dei padri conciliari e nei documenti ai quali essi dettero vita.

Su questo sfondo - continua il teologo milanese - c’è anche da considerare che ai paesi del terzo mondo e dei cosiddetti paesi emergenti va riconosciuto il diritto di elaborare una teologia autoctona, senza imporre loro le linee della teologia occidentale. «In ogni caso, la Chiesa come “comunione” è l’ecclesiologia del sinodo straordinario 1985, non è l’ecclesiologia del concilio Vaticano II, che - salvo meliori iudicio - è quella del “popolo di Dio”». Per questo è meglio tenere distinti il concilio e il sinodo, anche dopo i più recenti tentativi di mantenerli uniti di Kasper e Pottmeyer.

Un necessario recupero

Dopo avere ascoltato le diverse opinioni, una scelta si impone anche per noi. Omnibus perpensis, sembra giusto rispettare la scelta conciliare, a cui i padri arrivarono dopo una riflessione serena e matura durante le sedute assembleari e in non pochi casi anche in precedenza. Essa fa corpo con la scelta fondamentale di evidenziare, prima delle specificazioni, l’elemento unificante di tutte le componenti della Chiesa. Non si perde niente di quanto porta con sé il concetto di comunione e l’incombente immagine di corpo mistico, ma non si può negare che l’intenzione del concilio sia quella di chiamare a raccolta l’intero popolo cristiano e di fare appello al suo comune senso di responsabilità. È bene che questa vocazione risuoni e risplenda chiaramente nel termine stesso scelto avvedutamente dal concilio.

A norma di logica ecclesiale, nessuno ha diritto di cambiare il pensiero e i termini destinati a veicolarlo di un concilio ecumenico, che rimane l’espressione massima dell’insegnamento della Chiesa. Se il concetto di popolo è stato deteriorato da immissioni d’altro genere, si può sempre ricorrere a una sua purificazione, senza metterlo totalmente o quasi in disparte. C’è piuttosto da pensare, in questa fase di stanca della ricezione conciliare, a un suo richiamo perentorio perché la comunità cristiana partecipi attivamente e responsabilmente ai compiti che un concilio coraggioso e innovatore ha ad essa consegnato.



Sabato 02 Febbraio,2013 Ore: 18:21
 
 
Commenti

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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 02/2/2013 18.54
Titolo:IL SOGNO DI UNA "COSA" DI BENEDETTO XVI ....
IL SOGNO DI UNA "COSA" DI BENEDETTO XVI: UNA CHIESA "PER MOLTI", NON "PER TUTTI". Cinque note per un Convegno


Per il Convegno "Chiesa di tutti, Chiesa dei poveri" del 15 settembre 2912, cinque note a margine

di Federico La Sala *

1. LA GERARCHIA CATTOLICO-ROMANA HA ROTTO I PONTI CON IL MESSAGGIO EVANGELICO. A 50 anni dall’inizio del Concilio Vaticano II, bisogna prendere atto che il terribile è già accaduto: il "Lumen Gentium" è stato spento e, sulla cattedra di Pietro, siede il Vicario del Signore e Padrone Gesù ("Dominus Iesus": J. Ratzinger, 2000). Egli regna e governa in nome del suo Dio, Mammona ("Deus caritas est": Benedetto XVI, 2006).

2. DIO E’ VALORE! Sul Vaticano, DAL 2006, sventola il "Logo" del Grande Mercante: "Deus caritas est" (Benedetto XVI, 2006)!!! Il papa teologo, ha gettato via la "pietra" su cui posava - in equilibrio instabile - l’intera Costruzione dela Chiesa cattolico-romana ("Deus charitas est": 1 Gv. 4.8).

3. TUTTO A "CARO-PREZZO" ("CARITAS"): QUESTO "IL VANGELO CHE ABBIAMO RICEVUTO". QUESTO E’ IL NOSTRO VANGELO: PAROLA DI RATZINGER -BENEDETTO XVI, CARDINALI E VESCOVI TUTTI. IL "PANE QUOTIDIANO" DEL "PADRE NOSTRO", SI VENDE A "CARO PREZZO", MOLTO CARO (= "CARITAS")!!!

4. ULTIMA CENA ED ECONOMIA VATICANA. Benedetto XVI cambia la formula: «Il calice fu versato per molti», non «per tutti»!!!

5. IN PRINCIPIO ERA IL "LOGO"!!! SE UN PAPA TEOLOGO LANCIA IL "LOGO" DEL SUO DIO ("DEUS CARITAS EST") E TUTTI OBBEDISCONO, E NON VIENE RISPEDITO SUBITO A CASA, DA "MARIA E GIUSEPPE", PER IMPARARE UN PO’ DI CRISTIANESIMO, DI COSA VOGLIAMO PARLARE DI AFFARI E DI MERCATO?! EBBENE PARLIAMO DI AFFARI, DI MERCATO, DI "MAMMONA", "MAMMASANTISSIMA", E DI COME I PASTORI ... IMPARANO A MANGIARE LE PECORE E GLI AGNELLI, E CONTINUANO A GOZZOVIGLIARE ALLA TAVOLA DEL LORO "DIO"!!! Avanti tutta, verso il III millennio avanti Cristo!!!

Federico La Sala

* Il Dialogo, Mercoledì 12 Settembre,2012
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 02/2/2013 18.56
Titolo:Hans Küng. Mettere fine all’autoritarismo della chiesa *
Hans Küng

Il teologo cattolico invita alla rivoluzione per mettere fine all’autoritarismo della chiesa *

- Hans Küng invita al movimento dal basso per destabilizzare il papato e dare vita in Vaticano a riforme radicali

- Hans Küng: fa appello ai preti e ai fedeli praticanti affinché si oppongano alla gerarchia cattolica

- Uno dei più autorevoli teologi cattolici ha invitato alla rivoluzione dal basso per destabilizzare il papato e dare vita in Vaticano a riforme radicali.

- Hans Küng fa appello ai preti e ai fedeli praticanti affinché si oppongano alla gerarchia cattolica, che definisce corrotta, senza credibilità e lontana dai veri problemi del popolo.

In una intervista esclusiva al The Guardian, Küng, che è stato a stretto contatto con il papa quando collaboravan da giovani teologi, ha descritto la chiesa come un "sistema autoritario" paragonandlo alla dittatura tedesca durante il nazismo. "L’obbedienza incondizionata richiesta ai vescovi che giurano fedeltà al papa mediante la sacra promessa è tanto estrema quanto quella dei generali tedesci che erano obbligati a giurare fedeltà a Hitler", ha infatti affermato.

Il Vaticano ha inteso schiacciare qualsiasi forma di dissenso, ha aggiunto. "Le regole per la scelta dei vescovi sono talmente rigide che, non appena qualcuno accenna alla pillola contraccettiva, all’ordinazione delle donne, viene depennato". Il risultato è una schiera di "Yes men", quasi tutti allineati senza porre questioni. "La sola strada per la riforma è partire dal basso", dice il prete ottantaquattrenne Küng. "I preti e gli altri chierici che occupano funzioni di responsabilità devono smetterla di essere servili, di organizzarsi per affermare che certi argomenti semplicemente non si toccano".

Küng, autore di circa 30 libri su teologia cattolica, cristianesimo, etica, che hanno venduto milioni di copie in tutto il mondo, ha dichiarato che l’ispirazione per un cambiamento globale può arrivare dalla sua nativa Svizzera o dall’Austria, dove centinaia di preti cattolici hanno dato vita a movimenti che si oppongono apertamente alle attuali pratiche del Vaticano. I dissenzienti sono definiti pionieri anche da osservatori vaticani che li vedono come i probabili portatori di un profondo scisma nella chiesa. "Ho sempre detto che se nella diocesi un prete si desta, non conta nulla. Cinque creano agitazione. Cinquanta già sono praticamente invincibili. In Austria la cifra supera le 300 unità, fino anche a 400; in Svizzera ci sono 150 preti dissenzienti, e il numero è destinato a salire".

Ha dichiarato che i recenti tentativi dell’arcivescovo di Vienna, Christoph Schönborn, di stroncare la rivolta minacciando di punire quelli coinvolti nella iniziativa austriaca sono falliti per via della forza delle loro motivazioni. "Si è immediatamente fermato quando ha capito che molta gente comune li sostiene e sarebbe stato pericoloso inimicarsela", ha aggiunto Küng . Le iniziative mirano a sostenere richieste apparentemente banali come lasciare che i divorziati risposati ricevano la comunione, permettere ai laici di presiedere le liturgie e alle donne di acquisire ruoli chiave nella gerarchia. Tuttavia, poiché essi si oppongono all’insegnamento cattolico tradizionale, le richieste sono state categoricamente respinte dal Vaticano Küng, al quale è stato negato l’insegnamento della teologia cattolica da Giovanni Paolo II nel 1979 per aver messo in dubbio il concetto di infallibilità papale, è stato colui che ha riconosciuto all’allora Joseph Ratzinger il primo step nella gerarchia del cattolicesimo accademico quando lo ha chiamato all’Università di Tubinga, nel nord-ovest della Germania, ad insegnare teologia dogmatica nel 1966.

Per quattro anni i due hanno lavorato a stretto contatto, in qualità di giovani consiglieri, negli anni ’60 durante il Concilio Vaticano II - l’evento riformatore più importante nella chiesa a partire dal Medioevo. Ma il rapporto tra i due non è mai andato oltre, anche a causa delle divergenze politiche che creavano un divario incolmabile tra loro. L’impetuoso e passionale Hans Küng, per molti versi, ha spesso rubato la scena al serio e posato Joseph Ratzinger.

Küng fa riferimento alle leggende che abbondano sul conto suo e di Ratzinger fin dai giorni di Tubinga, non ultimi i racconti apocrifi di quando avrebbe dato un passaggio sulla sua "macchina rossa sportiva" ad un Ratzinger lasciato a piedi dalla bici. "Gli davo sempre un passaggio, specie su per le ripide colline di Tubinga, ma il resto è stato creato. Non ho mai avuto auto sportive, a parte un’Alfa Giulia. Lo stesso Ratzinger ha ammesso di non essere interessato alla tecnologia né tanto meno aveva conseguito una patente di guida. Ma tutto questo è stato spesso tramutato in una specie di metafora idealizzando il "ciclista" contro lo scapestrato "Alfista".

Stando a Küng, infatti, ll’immagine del futuro papa, modesto e prudente ciclista, ora 85enne, ha dominato per anni e ancora oggi è tutt’altro che scemata fin dall’elezione del 2005. "Ha sviluppato una speciale pomposità che non si addice all’uomo che sia io che altri avevamo conosciuto, quello che girava col baschetto in testa ed era pieno di modestia. Ora lo vediamo spesso ricoperto di vesti dorate e splendenti. Di sua sponte indossa la corona di un papa del XIX secolo e si è fatto rifare le vesti del papa Leone X Medici"."

Questa pomposità si manifesta al meglio durante le udienze periodiche in Piazza S. Pietro a Roma. "Queste adunanze hanno dimensioni stile corazzata Potemkin. Gente fanatica si reca in piazza per celebrare il papa e per dirgli quanto è fantastico, mentre le loro stesse parrocchie versano in condizioni preoccupanti, con mancanza di preti, sempre più persone che si allontano rispetto a quante ne vengono battezzate e ora il cosiddetto Vatileaks, che evidenzia in che stato si trovi l’amministrazione del Vaticano", ha detto Küng con riferimento allo scandalo sui documenti segreti trapelati, che hanno rivelato lotte di potere interne al Vaticano e hanno visto l’ex maggiordomo del papa comparire in tribunale. Il processo terminerà sabato.

E’ stato proprio a Tubinga che le strade dei due teologi si sono incrociate per alcuni anni prima di divergere enormemente a seguito delle rivolte studentesche del 1968. Ratzinger rimase scioccato dagli ieventi e fuggì verso la relativa sicurezza della nativa Baviera, dove ha approfondito il suo coinvolgimento nella gerarchia cattolica. Küng restò a Tubinga e assunse sempre più il ruolo dell’"enfant terrible" della Chiesa Cattolica. "Le rivolte studentesche furono un vero e proprio shock per Ratzinger dne divenne sempre più conservatore e simpatizzante della gerarchia ecclesiastica", sostiene Küng.

Dopo aver definito quello di Benedetto XVI un "pontificato di opportunità mancate" in cui ha perso l’occasione di riconciliazione con le fedi protestante, ebraica, ortodossa e musulmana, così come ha mancato di sostenere la lotta all’Aids in Africa non concedendo l’utilizzo dei sistemi di controllo delle nascite, Küng sostiene che lo "scandalo più grave" sia la copertura a livello mondiale dei casi di abusi sessuali commessi dai chierici durante il suo incarico di Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, come Cardinale Ratzinger.

"Il Vaticano non è diverso dal Cremlino. Come Putin in qualità di agente segreto è diventato il capo della Russia, così Ratzinger, in qualità di capo dei servizi segreti della Chiesa è diventato capo del Vaticano. Non ha mai chiesto perdono per i molti casi di abusi sessuali posti sotto secretum pontificium e non ha mai riconosciuto questo problema come il maggior disastro della Chiesa Cattolica". Küng ha descritto quello Vaticano come un processo di "Putinizzazione".

Comunque, nonostante le differenze, i due sono rimasti in contatto. Küng ha fatto visita al papa durante le ferie estive a Castel Gandolfo nel 2005, occasione nella quale i due hanno discusso per circa quattro ore.

"Sembrava che avessimo lo stesso passo. Dopotutto siamo stati colleghi per anni. Abbiamo camminato nel parco e ci sono stati momenti in cui ho pensato che potesse cambiare idea su certi punti, ma non lo fece. Da allora ci siamo scritti, ma mai più incontrati".

Küng ha viaggiato in lungo e in largo nella sua vita, familiarizzando con chiunque, dai leader iraniani a John F. Kennedy a Tony Blair, col quale ha costruito uno stetto legame circa dieci anni fa, diventando una sorta di guru spirituale per l’allora primo ministro britannico prima della sua decisione di convertirsi al cattolicesimo.

"Sono rimasto colpito dal modo con cui ha affrontato il conflitto del’Irlanda del Nord. Ma poi è arrivata la guerra in Iraq e sono rimasto colpito dal modo con cui ha collaborato con Bush. Gli ho scritto definendo il gesto un fallimento storico di prim’ordine. Mi scrisse una nota a mano in risposta, dicendo che mi ringraziava e rispettava il mio punto di vista, ma che stava agendo secondo coscienza senza voler in alcun compiacere gli americani. Ero stupito che un primo ministro britannico potesse compiere un errore tanto catastrofico e resta per me un fatto tragico." Ha descritto la coversione al cattolicesimo di Blair come un errore, sostenendo che avrebbe potuto usare il suo ruolo pubblico per rinconciliare le differenze tra gli anglicani e la Chiesa Cattolica nel Regno Unito.

Dal suo studio colmo di libri, in cui troneggia un ritratto di S. Tommaso Moro, martire cattolico inglese del XVI secolo, Küng guarda fuori nel suo girdino alla statua di due metri che lo raffigura. I critici hanno definito la cosa sintomatica del suo auto-compiacimento. Sembra imbarazzato mentre spiega come la statua sia un regalo dei vent’anni da parte dell’associazione Stiftung Weltethos (Fondazionie per l’Etica Globale) che opera da casa sua e continuerà a farlo dopo la sua morte.

Lungi dal mettere un freno alla sua prolifica produzione teologica, Küng di recente ha commutato le idee di Weltethos - che cerca di creare un codice globale di comportamento, una globalizzazione dell’etica - in un estemporaneo libretto musicale. Mischiando la narrativa con sollecitazioni dal confucianesimo, induismo, buddismo, giudaismo e cristianesimo, gli scritti di Küng sono stati inseriti in un’opera sinfonica del compositore inglese Jonathan Harvey che vivrà la sua prima londinese domenica al Southbank Centre.

Küng sostiene che l’opera musicale, come la fondazione, rappresenta un tentativo di enfatizzare ciò che le religioni del mondo hanno in comune in barba a ciò che le divide.

Weltethos è stata fondata nel 1990 per unire le religioni del mondo, sottolineando le parti comuni e non le differenze. Ha istituito un codice di norme comportamentali che si spera un giorno possano essere universalmente riconosciute dalle Nazioni Unite.

L’obiettivo dell’opera è certamente imponente - Harvey ha parlato di "timore reverenziale" nello scrivere una partitura per il testo. Ma Küng, che ha guadagnato il sostegno di figure importanti come Henry Kissinger, Kofi Annan, Jacques Rogge, Desmond Tutu, Mary Robinson e Shirin Ebadi, insiste nel dire che il suo scopo è carpire le esigenze dal basso. "In un tempo di cambiamenti nel paradigma mondiale, abbiamo bisogno di uno schema di principi comuni, tra questi com’è ovvio la Regola d’Oro, secondo la quale Confucio insegnò a non imporre agli altri ciò che non si augurerebbe a se stessi."

* Il Dialogo, 08.10.2012.

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