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www.ildialogo.org OBBEDIENZA CIECA E "COR UNUM"?! BASTA! Noi, cattolici, ci rifiutiamo di condannare “il genere”. Un appello di Anne-Marie de la Haye e la segreteria del Comité de la Jupe - con note, a c. di Federico La Sala

IL MAGISTERO EQUIVOCO DI BENEDETTO XVI. Una gerarchia senza Grazie (greco: Charites) e un papa che scambia la Grazia ("Charis") di Dio ("Charitas") con il "caro-prezzo" del Dio Mammona (latino:"Caritas").
OBBEDIENZA CIECA E "COR UNUM"?! BASTA! Noi, cattolici, ci rifiutiamo di condannare “il genere”. Un appello di Anne-Marie de la Haye e la segreteria del Comité de la Jupe - con note

Non si può, come fa il papa nei suoi interventi a questo proposito, pretendere che si accolga come autentico progresso l’accesso delle donne all’uguaglianza dei diritti, e continuare al contempo a difendere una concezione di umanità in cui la differenza dei sessi implica una differenza di natura e di vocazione tra gli uomini e le donne. C’è in questo una contorsione intellettuale insostenibile.


 a c. di Federico La Sala

NOTE SUL TEMA:

CIVILTA’ DELL’AMORE E VOLONTA’ DI GUERRA. DOPO GIOVANNI PAOLO II, IL VATICANO SOPRA TUTTO E CONTRO TUTTI. Il "peccato originale" e la "mala fede" antropo-teo-logica di Papa Ratzinger.

DOPO 500 ANNI, PER IL CARDINALE RAVASI LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA SISTINA E’ ANCORA L’ELEMENTO PIU’ CURIOSO. Materiali sul tema, per approfondimenti 

IL MAGISTERO EQUIVOCO DI BENEDETTO XVI OGGI (2006-2012) E CIO’ CHE OGNI BUON CATECHISTA INSEGNAVA IERI (2005). Una lezione di don Mauro Agreste - con alcune note

PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI. L’Acca in fuga (fls)

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Noi, cattolici, ci rifiutiamo di condannare “il genere”

di Anne-Marie de la Haye e la segreteria del Comité de la Jupe

in “www.comitedelajupe.fr” del 27 gennaio 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)

Siamo delle cristiane e dei cristiani, fedeli al messaggio del vangelo, e viviamo lealmente questo attaccamento all’interno della Chiesa cattolica. La nostra esperienza professionale, i nostri impegni associativi e le nostre vite di uomini e di donne ci danno la competenza per analizzare le evoluzioni dei rapporti tra gli uomini e le donne nelle società contemporanee, e per discernervi i segni dei tempi.

Abbiamo preso conoscenza delle raccomandazioni del nostro Santo Padre, papa Benedetto XVI, rivolte al Pontificio Consiglio Cor Unum, nelle quali esprime la sua opposizione nei confronti di quella che chiama “la teoria del genere”, mettendola sullo stesso piano delle “ideologie che esaltavano il culto della nazione, della razza, della classe sociale”. Riteniamo questa condanna infondata ed infamante. Il rifiuto che l’accompagna di collaborare con ogni istituzione suscettibile di aderire a questo tipo di pensiero, è ai nostri occhi un errore grave, tanto dal punto di vista del percorso intellettuale che della scelta delle azioni intraprese a servizio del vangelo.

Affermiamo qui, con la massima solennità, che non possiamo aderirvi.

In primo luogo, è sterilizzante. Infatti, nel campo del pensiero, rifiutare di prender conoscenza di certe opere, o di affrontare argomenti con certi partner senza mostrare a priori un atteggiamento benevolo e disponibile al dibattito non è il modo migliore per progredire in direzione della verità.

Che cosa sarebbe successo se Tommaso D’Aquino si fosse astenuto dal leggere Aristotele, con il pretesto che non conosceva il vero Dio e che le sue opere gli erano state trasmesse da traduttori musulmani?

Del resto, sul campo, sapere se si deve o meno collaborare con soggetti animati da idee diverse dalle nostre, è una decisione che può essere presa solo in quel luogo e in quel determinato momento, in funzione delle forze presenti e dell’urgenza della situazione. Cosa sarebbe successo, a proposito della lotta contro il nazismo e il fascismo, se i resistenti cristiani avessero rifiutato di battersi accanto ai comunisti, atei e solidali di un regime criminale?

Veniamo ora al tema in questione: smettiamola di lasciare che si dica che la nozione del genere è una macchina da guerra contro la nostra concezione di umanità. È falso. Essa è frutto di una lotta sociale, e cioè la lotta per l’uguaglianza tra uomini e donne, che si è sviluppata da circa un secolo, inizialmente nei paesi sviluppati (Stati Uniti d’America ed Europa), e di cui i paesi in via di sviluppo cominciano ora a sentire i frutti. Questa lotta sociale ha stimolato la riflessione di ricercatori in numerose discipline delle scienze umane; queste ricerche non sono terminate, e non costituiscono affatto una “teoria” unica, ma un insieme diversificato e sempre in movimento, che non bisognerebbe ridurre ad alcune sue espressioni più radicali.

Il vero problema non è quindi ciò che si pensa della nozione di genere, ma ciò che si pensa dell’uguaglianza uomo/donna. E, di fatto, la lotta per i diritti delle donne rimette in discussione la concezione tradizionale, patriarcale, opposta all’uguaglianza, dei ruoli attribuiti agli uomini e alle donne nell’umanità.

Nelle società in via di sviluppo in particolare, la situazione delle donne è ancora tragicamente lontana dall’uguaglianza. L’accesso delle donne all’istruzione, alla salute, all’autonomia, al controllo della loro fecondità si scontra con forti resistenze delle società tradizionali. Peggio ancora: in certi luoghi è costantemente minacciato perfino il semplice diritto delle donne alla vita, alla sicurezza e all’integrità fisica.

Non si può, come fa il papa nei suoi interventi a questo proposito, pretendere che si accolga come autentico progresso l’accesso delle donne all’uguaglianza dei diritti, e continuare al contempo a difendere una concezione di umanità in cui la differenza dei sessi implica una differenza di natura e di vocazione tra gli uomini e le donne. C’è in questo una contorsione intellettuale insostenibile.

Come negare infatti che i rapporti uomo/donna siano oggetto di apprendimenti influenzati dal contesto storico e sociale? Pretendere di conoscere assolutamente, e col disprezzo di ogni indagine condotta con le acquisizioni delle scienze sociali, quale parte delle relazioni uomo/donna deve sfuggire all’analisi sociologica e storica, manifesta un blocco del pensiero del tutto ingiustificabile.

Dietro questo blocco del pensiero, sospettiamo un’incapacità a prender posizione nella lotta per i diritti delle donne. Eppure, questa lotta non è forse quella delle oppresse contro la loro oppressione, e il ruolo naturale dei cristiani non è forse quello di rovesciare i potenti dai troni?

Levarsi a priori contro anche solo l’uso della nozione di genere, significa confondere la difesa del Vangelo con quella di un sistema particolare. La Chiesa ha fatto questo errore due secoli e mezzo fa, confondendo difesa della fede e difesa delle istituzioni monarchiche, e più tardi dei privilegi della borghesia. Rifacendo un errore analogo, ci condanneremmo ad una emarginazione ancora maggiore di quella in cui ci troviamo già attualmente. Come non temere che questa condanna frettolosa sia uno dei tasselli di una crociata antimodernista mirante a demonizzare un’evoluzione contraria alle posizioni acquisite dell’istituzione?

Per questo motivo, con viva preoccupazione, ci appelliamo ai fedeli cattolici, ai preti, ai religiosi e alle religiose, ai diaconi, ai vescovi, affinché evitino alla nostra chiesa questa situazione di impasse intellettuale, e perché sappiano riconoscere, dietro a una disputa di termini, le vere poste in gioco della lotta per i diritti delle donne, e il giusto posto della loro Chiesa in questa lotta evangelica.



Martedì 29 Gennaio,2013 Ore: 19:04
 
 
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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 29/1/2013 19.38
Titolo:Le donne come soggetti, oltre il ruolo di madri e spose
Le donne come soggetti, oltre il ruolo di madri e spose

di Maria Cristina Bartolomei (“Jesus”, gennaio 2013)

L’atmosfera natalizia colora di sé l’inizio del nuovo anno, proseguendo liturgicamente nella celebrazione della maternità di Maria, della Sacra Famiglia e dell’Epifania. Anche indipendentemente dalla fede, tali festività comunicano un forte messaggio simbolico di attenzione al mistero di vita nuova che ogni neonato reca con sé in dono per tutti, alla famiglia e, in modo tutto particolare, alla figura della madre. Ma quanto tali simboli hanno veramente improntato di sé la nostra civiltà? Gli orrendi crimini che si consumano oggi sui bambini (pedofilia, traffico d’organi, sfruttamento del lavoro, schiavizzazione, prostituzione) sono versioni aggiornate di una violenza sui minori che, semmai, in epoca moderna si è attenuata, e che oggi viene almeno condannata e combattuta sul piano sociale e legislativo.

Sembra invece accrescersi, anziché attenuarsi, la violenza sulle donne, che presenta forme sempre più estreme. Maltrattamenti, stupri, molestie, molte forme di oppressione e schiavizzazione, fino al femminicidio: nel 2012 nella sola Italia più di cento donne sono state uccise da uomini quasi sempre loro partner o familiari. Una strage sulla quale ci si deve interrogare e che impone risposte sul piano del costume e della cultura.

Quando si parla della famiglia non si dovrebbe dimenticare, accanto a tutte le note positive, anche tale nota sinistra: di famiglia le donne non solo vivono, ma anche muoiono. Per questo, la stessa esaltazione della figura materna può rivelarsi un’arma a doppio taglio, giacché rischia di ridurre la donna a una, per quanto nobile e altissima, funzione, invece di valorizzarla in sé, in quanto essere umano.

L’attenzione alla madre può infatti celare e indurre una distorsione dello sguardo: la donna vale in quanto e perché genera, perché genera uomini. E, così, le categorie entro le quali la vita femminile è stata a lungo compresa e compressa (vergine-sposa-madre), che ci danno un’immagine della donna non come un soggetto che guarda il mondo, ma come un oggetto, come una guardata dagli uomini, definita dalla sua relazione con l’universo maschile.

Mai si è, invece, pensato di poter comprendere l’uomo riducendolo alle categorie di vergine-sposo-padre, che pure gli si attagliano. La coscienza media ecclesiale non si sente investita dal fenomeno della violenza sulle donne quanto dovrebbe, giacché, nonostante la forza liberante dell’Evangelo, della prassi di Gesù e della comunità cristiana primitiva, e benché il cristianesimo abbia contribuito moltissimo alla liberazione delle donne, le tradizioni e la mentalità ecclesiastiche sono state e sono ancor oggi profondamente contaminate da misoginia, dal disprezzo per le donne, dalla non percezione della necessità del loro apporto nella vita sociale e ancor più ecclesiale, dal non riconoscimento che la loro umanità e quella dell’uomo sono equivalenti nella loro diversità, segnate da una non adeguata coscienza della piena soggettività e libertà femminili e da molte consuetudini e pregiudizi ad esse avverse.

Il 25 novembre scorso si è celebrata la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Nello stesso giorno ricorre la memoria liturgica di santa Caterina d’Alessandria che, secondo la tradizione, subì il martirio nel 305: si era infatti rifiutata di adorare gli dei pagani durante i festeggiamenti per il tetrarca Massimino Daia, cercando, anzi, con argomentazioni profonde, di convertire quest’ultimo. Data la sua giovinezza, bellezza e il suo essere di stirpe regale, l’imperatore tentò di salvarla, inviandole un gruppo di filosofi e retori per indurla ad abiurare la sua fede. Ma fu lei a persuaderli: aderirono al cristianesimo e morirono martiri.

È difficile distinguere in tutto ciò la storia dalla leggenda (tanto che per quattro decenni la Chiesa cattolica la escluse dal martirologio, riammettendovela nel 2002), essendo i documenti disponibili assai tardivi. Santa Caterina - alla quale Giustiniano intitolò il celebre monastero sul monte Sinai, dove narra la leggenda il suo corpo sia stato trasportato dagli angeli - è tuttavia venerata da tempi antichissimi da tutte le Chiese cristiane che ammettono il culto dei santi e che ci hanno in tal modo trasmesso il messaggio della capacità apostolica, teologica e filosofica delle donne.

Una cosa così inaudita per la cultura patriarcale e androcentrica da far pensare che la storia sia vera: tanto è difficile immaginare che se la siano inventata! La figura di santa Caterina addita una via decisiva: valorizzare le capacità dello spirito e della mente delle donne, liberandole dall’essere ridotte allo sguardo della cultura androcentrica. Ciò è a vantaggio non solo delle donne, ma di tutta l’umanità, e al fine di una maggiore trasparenza della Chiesa nel servizio all’Evangelo.

Il rinnovamento della società e della politica in crisi richiede l’apporto delle donne. E perché il messaggio evangelico possa raggiungere le donne, queste debbono sentirsi rispettate e riconosciute: non ci sarà un’evangelizzazione veramente nuova senza che le donne ne siano piene destinatarie e coprotagoniste.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 01/2/2013 21.54
Titolo:La Chiesa-Popolo di Dio secondo il Concilio
La Chiesa-Popolo di Dio secondo il Concilio

di Giordano Frosini

in “Settimana” n. 5 del 6 febbraio 2013

Nella storia del post-concilio in generale e di quello italiano in particolare, il 1985 è un anno di importanza rilevante per due avvenimenti che hanno avuto un influsso notevole e prolungato nella vita della Chiesa sia italiana che universale.

Nel mese di settembre si tenne il secondo convegno delle chiese italiane a Loreto e, solo pochi giorni più tardi, dal 24 novembre all’8 dicembre, si celebrò a Roma il sinodo straordinario a vent’anni dalla fine del concilio Vaticano II. Se si vuole riflettere in profondità oggi, a cinquant’anni dall’inizio dello stesso concilio, sulla storia della ricezione della grande assise ecumenica, non è possibile prescindere né dall’uno né dall’altro avvenimento, almeno in lontananza uniti insieme dallo stesso spirito e da una comune ispirazione.

Del convegno di Loreto si è parlato a sufficienza nel passato, soprattutto per mettere in risalto il cambio di marcia della Chiesa italiana, che conserva ancora, a distanza di quasi quarant’anni, conseguenze ben visibili, tutt’altro che positive, a giudizio di chi scrive. Vogliamo ora mettere in luce quanto avvenne nel sinodo straordinario che, per il suo influsso, va naturalmente ben al di là dei confini e dei problemi della Chiesa italiana e ha suscitato una discussione sulla quale è opportuno ritornare.

Le tre fasi post-conciliari

Normalmente, nella divisione della ricezione post-conciliare in tre tempi, il sinodo viene considerato come la fine del primo periodo e l’inizio del secondo. Il terzo si fa poi cominciare col giubileo del 2000 e si estende fino ai nostri giorni. Di esso si è parlato soprattutto, ma non soltanto, per la vicenda riguardante il concetto di “popolo di Dio”, sostituito, con una sorta di colpo di mano, con la parola “comunione”. Da allora (si veda, per esempio, l’esortazione post-sinodale Christifideles laici), per esprimere l’ecclesiologia del Vaticano II, si parlerà comunemente di Chiesa-mistero, di Chiesa-comunione e di Chiesa-missione: la Chiesa-popolo di Dio praticamente sparisce dal vocabolario usuale anche dei teologi.

Eppure il termine appare addirittura nello stesso titolo del capitolo secondo della costituzione Lumen gentium, in seguito a una scelta ben ponderata dagli attenti padri conciliari, in diretto collegamento col capitolo primo dedicato al mistero della Chiesa. Come dire: il mistero, che nasconde in sé l’intima natura della Chiesa, si realizza concretamente in un popolo, con tutte le caratteristiche che il termine si porta con sé. La scelta proveniva da un uso molto lontano e frequentissimo sia del Primo che del Secondo Testamento, oltre che della liturgia. Un conteggio preciso, compresi connessi e derivati, sarebbe praticamente impossibile. Il sinodo straordinario terminò con una relazione che sostituiva l’ormai consueta esortazione post-sinodale del pontefice, e un messaggio - si direbbe: ironia della sorte - «al popolo di Dio».

Il teologo Walter Kasper, chiamato per l’occasione a fare da segretario, rilasciò quasi immediatamente i suoi ricordi e il suo commento in una piccola pubblicazione, che ci può aiutare molto a ricomporre il dibattito, svoltosi purtroppo in un tempo abbastanza ristretto: Il futuro dalla forza del concilio. Sinodo straordinario dei vescovi 1985 (Queriniana, Brescia 1986).

Suscita un po’ di meraviglia il fatto che la critica e la sostituzione del concetto di popolo siano state fatte proprie e approvate anche da lui, che pure ha dimostrato più tardi di essere capace di grande originalità e di altrettanto coraggio.

La cosa fu mal digerita in un primo tempo, poi però la contestazione lentamente si organizzò dando vita, specialmente nel Sudamerica, ad una reazione di cui dobbiamo prendere pienamente atto.

Questa sostituzione non è per caso un atto indebito su un testo conciliare, nato non proprio immotivatamente e senza adeguata preparazione da parte della grande assemblea?

Per la verità, la lettura del documento finale destava già in principio una certa sorpresa, perché si affermava che «il fine per cui è stato convocato questo sinodo è stato la celebrazione, la verifica e la promozione del concilio Vaticano II», con una precisazione ulteriore: «Unanimemente e con gioia abbiamo verificato anche che il concilio è una legittima e valida espressione e interpretazione del deposito della fede, come si trova nella sacra Scrittura e nella tradizione della Chiesa» (n. 2). Un sinodo può parlare così di un concilio ecumenico, la massima espressione del magistero della Chiesa? Con questo stesso spirito, chiaramente sopra le righe, si sostituisce una delle espressioni centrali del documento conciliare: quella di “popolo di Dio”.

Lo riconosce W. Kasper nel testo prima citato, quando afferma che la relazione introduttiva «denuncia certi arbitri e soggettivismi nel modo di organizzare la liturgia e un modo d’intendere troppo esteriore la partecipazione attiva in campo liturgico, nel senso cioè di una mera cooperazione esterna, invece di un coinvolgimento nel mistero di morte e risurrezione di Gesù Cristo. Constata poi anche un distacco dall’interpretazione scritturistica della tradizione viva e del magistero della Chiesa, anzi una notevole incomprensione della verità oggettivamente data, soprattutto nella sfera della dottrina morale, e anche un certo “cristianesimo di selezione”. Il cuore della crisi è stato individuato nel modo d’intendere la Chiesa.

La qualifica della Chiesa come “popolo di Dio” spesso è stata mal interpretata: la si è isolata dal contesto storico-salvifico della Scrittura e spiegata a partire dal senso naturale, o politico di “popolo di Dio”. Talvolta anche il dibattito sulla democratizzazione della Chiesa ha subito l’ipoteca di tale malinteso». Così, la relazione finale poteva affermare: «L’ecclesiologia di comunione è l’idea centrale e fondamentale nei documenti del concilio». Una frase certamente accettabile, ma in altro contesto, quello direttamente inteso dai padri conciliari. Era proprio necessario, per evitare i malintesi e le erronee interpretazioni del post-concilio, mettere in disparte il concetto di popolo? Non si potevano evitare gli inconvenienti denunciati purificando l’acqua sporca senza buttare via insieme anche il bambino? La questione è così posta nel suo significato fondamentale e il dibattito che ne seguì di conseguenza, all’interno e all’esterno del sinodo, è colto alla sua radice.

La rivolta dei teologi

I teologi che non vorranno accettare il cambiamento sinodale avranno buon gioco a mostrare i danni che da questo possono derivare e di fatto, almeno alcuni tutt’altro che secondari, sono derivati nella concezione e nella vita della Chiesa. Una constatazione che rende ancora più discutibile, in certo modo anche più grave, l’operazione condotta dai padri sinodali, già in questione per avere indebitamente corretto in un punto importante il pensiero del concilio sottoposto alla loro analisi. Si tratta di un vero e proprio cortocircuito teorico e pratico, per il quale è necessario non rassegnarsi. I vantaggi derivanti dalla dottrina conciliare erano stati ben individuati anche dai primi commentatori della costituzione Lumen gentium, come G. Philips, O. Semmelroth, Y. Congar.

Sostanzialmente tutto nasce dalla considerazione della Chiesa come soggetto storico, «l’ultima fase definitiva dell’alleanza bilaterale, che Dio ha stretto col popolo da lui salvato», la comunità escatologica che «peregrina nella storia come un giorno il popolo eletto peregrinò nel deserto avviandosi verso la terra promessa», l’incarnazione storica del mistero provvidenzialmente messo al centro della stesura del primo capitolo.

Aspetti certamente non del tutto ignoti anche prima della celebrazione del concilio. «Questa presentazione teologica - aggiungeva Semmelroth - non vuole affatto sostituire la dottrina della Chiesa quale corpo mistico del Signore con quella di popolo di Dio. Intende piuttosto integrarla, perché l’essenza della Chiesa è così complessa da non poter essere esaurita né da una definizione logica né da un’unica immagine».

Anzi, la priorità del concetto di popolo rispetto all’immagine del corpo sottolinea ancora meglio uno dei motivi principali, se non il principale, della scelta dei padri conciliari, che è quello dell’affermazione dell’uguaglianza sostanziale fra tutti i membri della Chiesa, il motivo che aveva già consigliato lo spostamento del capitolo dedicato alla gerarchia dal secondo al terzo posto.

Anche nella triade privilegiata fra le diverse immagini della Chiesa (popolo di Dio, corpo di Cristo, tempio dello Spirito Santo), precede il concetto di popolo, non soltanto per un motivo di carattere trinitario, ma anche perché il corpo mette in luce la diversità delle membra, della quale si parla soltanto dopo aver assicurato la sostanziale uguaglianza fra tutti i battezzati: la diversità dei carismi e dei ministeri non deve ostacolare quel concetto che il n. 32 della Lumen gentium esprimerà con icastica solennità con le note parole: «Quantunque alcuni per volontà di Cristo sono costituiti dottori e dispensatori dei misteri e pastori per gli altri, vige fra tutti una vera uguaglianza (vera aequalitas) riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo». L’aggiunta dell’aggettivo, di per sé non necessario, dà all’espressione una forza e un rilievo singolari.

Certo, fra le caratteristiche del popolo di Dio non andrà mai dimenticata la comunione, che lega essenzialmente la Chiesa al suo fondatore e Signore e, di conseguenza e nella stessa maniera, tutti i membri componenti fra di loro.

Comunione però non è una sostanza, non indica un soggetto; in termini aristotelici, dovrebbe essere catalogata fra gli accidenti. Dunque, più un aggettivo che un sostantivo. Oltretutto, fra le caratteristiche del popolo tutto quanto sacerdotale, il testo conciliare enumera anche la potenziale capacità di raccogliere «tutti gli uomini» di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Ogni uomo è ordinato al popolo di Dio e ogni nazione è parte potenziale del regno universale di Cristo. Anzi, di più, «questo carattere di universalità che adorna e distingue il popolo di Dio è dono dello stesso Signore, e con esso la Chiesa cattolica efficacemente e senza soste tende ad accentrare tutta l’umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo nell’unità dello Spirito di lui» (LG 13). Una potenzialità che incipientemente e misteriosamente prende forma e attualità già nei giorni della storia.

Sulla stessa linea Congar, per il quale il concetto di popolo di Dio mette «in risalto alcuni valori biblici fondamentali e l’orientamento globale verso il servizio missionario del mondo, cosa che risalta già dalle prime parole della costituzione dogmatica Lumen gentium: 1) una prospettiva di storia della salvezza, cioè una prospettiva escatologica; 2) l’idea di un popolo in cammino, in condizioni di itineranza; 3) l’affermazione di una relazione con tutta l’umanità, essa stessa in via di unificazione, e alla ricerca, tra mille difficoltà, di una maggiore giustizia e pace».

Può il concetto di comunione conservare e mettere in evidenza tutte le caratteristiche che il concetto di popolo si porta con sé? Esso possiede una vera ricchezza di significati difficilmente reperibili altrove ed esprimibili diversamente. Popolo come soggetto eminentemente attivo su tutto il fronte dell’attività della Chiesa: un popolo sacerdotale, quindi, profetico e regale. Un ottimo schema di lavoro, di riflessione teologica, di catechesi.

La critica più aspra e decisa, come abbiamo già detto, proviene dal Sudamerica. Ad essa ha dato voce sistematica il teologo belga-brasiliano Joseph Comblin in un libro tradotto anche in italiano, dal titolo originale O povo de Deus (Il popolo di Dio, Servitium/Città aperta, Troina - Enna - 2007), pubblicato nel 2002, «in previsione del nuovo pontificato», come afferma lo stesso autore nelle prime parole dell’introduzione.

«Le critiche al Vaticano II - afferma l’autore - condussero il sinodo del 1985 semplicemente a eliminare il concetto di “popolo di Dio”, sostituendolo con il concetto di comunione, come se questo avesse la medesima risonanza e come se i due fossero alternativi. La conseguenza fu immediata, anche se non sappiamo se fu intenzionale o no». Una categoria troppo sociologica? Ma «la sociologia praticamente non usa mai il concetto di popolo e teme di usarlo».

Perché allora questo timore? Naturalmente la critica di Comblin è condotta secondo gli schemi e il linguaggio della teologia della liberazione e raggiunge il suo vertice con l’affermazione che la scelta del termine comunione potrebbe facilmente far rientrare dalla finestra ciò che è stato messo felicemente fuori dalla porta, imponendo in pratica la comunione come ubbidienza al volere e al pensiero della gerarchia, eliminando o rendendo comunque difficile il contributo da parte del rimanente popolo di Dio. Comunque «il tema della comunione non esclude il tema del popolo di Dio né deve prendergli il posto. Il concetto di comunione è molto più ristretto che il concetto di popolo. Il popolo è una forma di comunione, ma include molti più elementi che il concetto di comunione». Parole, queste ultime, sulle quali non è difficile trovarsi d’accordo.

Il pensiero di Pino Colombo

È questo il pensiero di non pochi altri teologi, fra cui merita di essere ricordato S. Dianich, che in vario modo e da diversi punti di vista hanno sottoposto a motivata critica il cambiamento del testo conciliare.

Ma vorremmo ricordare in particolare il teologo milanese recentemente scomparso Giuseppe Colombo, insospettato sulla base del suo pensiero teologico e meticoloso al massimo nel ricostruire e discutere le diverse concezioni prese in esame.

Ci riferiamo in questo momento soprattutto a un suo contributo pubblicato di recente negli studi in onore di S. Dianich (Ecclesiam intelligere, Dehoniane, Bologna 2012), da considerarsi l’ultimo suo intervento sul nostro problema, aggiornato anche ad una successiva presa di posizione del card. Kasper.

Ricostruita con precisione la vicenda in questione, dopo aver ricordato che «sulla sostituzione di “comunione” a “popolo di Dio”, la Relazione non dice una parola», rimane a noi il diritto di domandarci «perché il sinodo abbia ignorato completamente la nozione di “popolo di Dio”, liberandosi così del dovere di fornire una qualsiasi spiegazione». Anche se, come si afferma, la nozione in questione è stata corrotta, politicizzata, socializzata fino a perdere ogni riferimento alla Chiesa, «la domanda è se la reazione debba spingersi a espungere totalmente dai testi del magistero la nozione di “popolo di Dio”», finendo col porre in questo modo, oltre che un problema storico (perché abbandonare la scelta dei padri conciliari?), un problema teorico di notevole importanza.

Secondo il pensiero dell’autore, mentre «“popolo di Dio” indicherebbe la svolta dell’ecclesiologia del Vaticano II», il concetto di comunione è visto in funzione della collegialità, cioè del rapporto papa-vescovi. «Non è possibile vedere, “oltre” la collegialità e (estendendo la nozione) “oltre” la comunione, il “popolo di Dio” conservandolo nella sua nozione propria, invece di rifiutarlo come una nozione inaccettabile? Di fatto sembra che al sinodo esso sia stato considerato come un’alternativa.

È quindi da chiedersi se, rispetto al “popolo di Dio”, la nozione di “comunione” non stacchi la Chiesa dal mondo, ritraendola in se stessa, sui suoi problemi interni (collegialità, conferenze episcopali, problemi dei laici, vocazione universale alla santità). Nessuno può contestare l’importanza e l’urgenza di questi problemi, ma l’insistente ed esclusivo richiamo ad essi sembrano costituire una penalizzazione evidente rispetto all’apertura al mondo del “popolo di Dio”». Di nuovo, e per altro verso, un ritorno al passato, questa volta per motivi esterni piuttosto che interni, ma sempre fondamentali nella mente dei padri conciliari e nei documenti ai quali essi dettero vita.

Su questo sfondo - continua il teologo milanese - c’è anche da considerare che ai paesi del terzo mondo e dei cosiddetti paesi emergenti va riconosciuto il diritto di elaborare una teologia autoctona, senza imporre loro le linee della teologia occidentale. «In ogni caso, la Chiesa come “comunione” è l’ecclesiologia del sinodo straordinario 1985, non è l’ecclesiologia del concilio Vaticano II, che - salvo meliori iudicio - è quella del “popolo di Dio”». Per questo è meglio tenere distinti il concilio e il sinodo, anche dopo i più recenti tentativi di mantenerli uniti di Kasper e Pottmeyer.

Un necessario recupero

Dopo avere ascoltato le diverse opinioni, una scelta si impone anche per noi. Omnibus perpensis, sembra giusto rispettare la scelta conciliare, a cui i padri arrivarono dopo una riflessione serena e matura durante le sedute assembleari e in non pochi casi anche in precedenza. Essa fa corpo con la scelta fondamentale di evidenziare, prima delle specificazioni, l’elemento unificante di tutte le componenti della Chiesa. Non si perde niente di quanto porta con sé il concetto di comunione e l’incombente immagine di corpo mistico, ma non si può negare che l’intenzione del concilio sia quella di chiamare a raccolta l’intero popolo cristiano e di fare appello al suo comune senso di responsabilità. È bene che questa vocazione risuoni e risplenda chiaramente nel termine stesso scelto avvedutamente dal concilio.

A norma di logica ecclesiale, nessuno ha diritto di cambiare il pensiero e i termini destinati a veicolarlo di un concilio ecumenico, che rimane l’espressione massima dell’insegnamento della Chiesa. Se il concetto di popolo è stato deteriorato da immissioni d’altro genere, si può sempre ricorrere a una sua purificazione, senza metterlo totalmente o quasi in disparte. C’è piuttosto da pensare, in questa fase di stanca della ricezione conciliare, a un suo richiamo perentorio perché la comunità cristiana partecipi attivamente e responsabilmente ai compiti che un concilio coraggioso e innovatore ha ad essa consegnato.

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