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ISSN 2420-997X

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www.ildialogo.org ALLA RADICE DEL CATTOLICESIMO RATZINGERIANO: LA "DONAZIONE DI PIETRO" E LA "DONAZIONE DI COSTANTINO". Una nota di Federico La Sala,

CEDIMENTO STRUTTURALE DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. Benedetto XVI, il papa teologo, ha gettato via la "pietra" su cui posava l’intera Costruzione ... e anche la maschera!
ALLA RADICE DEL CATTOLICESIMO RATZINGERIANO: LA "DONAZIONE DI PIETRO" E LA "DONAZIONE DI COSTANTINO". Una nota di Federico La Sala

MESSAGGIO EVANGELICO E ANNO SACERDOTALE (2009-2010).Ai sacerdoti e ai religiosi che hanno abusato dei ragazzi, invece di dire "abbiamo", "noi", "dobbiamo", "abbiamo", Papa Ratzinger scrive: "Avete tradito la fiducia riposta in voi da giovani innocenti e dai loro genitori. Dovete rispondere di ciò davanti a Dio onnipotente, come pure davanti a tribunali debitamente costituiti. Avete perso la stima della gente" (Lettera, pf. 7)


SULLA NASCITA DEL CATTOLICESIMO-ROMANO

UNA NOTA di Federico La Sala *

 

  • (...) non equivochiamo! Qui non siamo sulla via di Damasco, nel senso e nella direzione di Paolo di Tarso, del Papa, e della Gerarchia Cattolico-Romana: “[... ] noi non siamo più sotto un pedagogo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Galati: 3, 25-28).
    -  Nella presa di distanza, nel porsi sopra tutti e tutte, e nell’arrogarsi il potere di tutoraggio da parte di Paolo, in questo passaggio dal noi siamo al voi siete, l’inizio di una storia di sterminate conseguenze, che ha toccato tutti e tutte. Il persecutore accanito dei cristiani, “conquistato da Gesù Cristo”, si pente - a modo suo - e si mette a “correre per conquistarlo” (Filippesi: 3, 12): come Platone (con tutto il carico di positivo e di negativo storico dell’operazione, come ho detto), afferra l’anima della vita evangelica degli apostoli, delle cristiane e dei cristiani, approfittando delle incertezze e dei tentennamenti di Pietro, si fa apostolo (la ‘donazione’ di Pietro) dei pagani e, da cittadino romano, la porta e consegna nelle mani di Roma.
  • Nasce la Chiesa ... dell’Impero Romano d’Occidente (la ‘donazione’ di Costantino). La persecuzione dei cristiani, prima e degli stessi ebrei dopo deve essere portata fino ai confini della terra e fino alla fine del mondo: tutti e tutte, nella polvere, nel deserto, sotto l’occhio del Paolo di Tarso che ha conquistato l’anima di Gesù Cristo, e la sventola contro il vento come segno della sua vittoria... Tutti e tutte sulla romana croce della morte.
  • Egli, il vicario di Gesù Cristo, ha vinto: è Cristo stesso, è Dio, è il Dio del deserto... Un cristo-foro dell’imbroglio e della vergogna - con la ‘croce’ in pugno (e non piantata nella roccia del proprio cuore, come indicava Gesù) - comincia a portare la pace cattolico-romana nel mondo. Iniziano le Crociate e la Conquista. Il Dio lo vuole: tutti i popoli della Terra vanno portati nel gelo eterno - questo è il comando dei Papi e dei Concili, cioè delle massime espressioni dell’intelligenza astuta (quella del Dio di Ulisse e della vergine Atena, non del Dio di Giuseppe e di Maria) del Magistero della Chiesa, alle proprie forze armate... fino a Giovanni Paolo II, al suo cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, e alla Commissione teologica internazionale, che ha preparato il documento “Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato”.
  • Uno spirito e un proposito lontano mille miglia, e mille anni prima di Cristo, da quello della “Commissione per la verità e la riconciliazione”, istituita in Sudafrica nel 1995 da Nelson Mandela, per curare e guarire le ferite del suo popolo. Il motto della Commissione bello, coraggioso, e significativo è stato ed è: “Guariamo la nostra terra”!

 

*

Si cfr.: Federico La Sala, L’enigma della Sfinge e il segreto della Piramide, Ripostes, Roma-Salerno 2001, pp.23-25.

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NOTE SUL TEMA:

SPEGNERE IL "LUMEN GENTIUM" E INSTAURARE IL POTERE DEL "DOMINUS IESUS". Il disegno di Ratzinger-Benedetto XVI. Due testi a confronto, con alcune note

COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.

MESSAGGIO EVANGELICO E ANNO SACERDOTALE (2009-2010). Ai sacerdoti e ai religiosi che hanno abusato dei ragazzi, invece di dire "abbiamo", "noi", "dobbiamo", "abbiamo", Papa Ratzinger scrive: "Avete tradito la fiducia riposta in voi da giovani innocenti e dai loro genitori. Dovete rispondere di ciò davanti a Dio onnipotente, come pure davanti a tribunali debitamente costituiti. Avete perso la stima della gente" (Lettera, pf. 7)!!! UNA CRISI DELL’INTERO ORDINE SACERDOTALE E UNA "LETTERA PASTORALE" CHE PRENDE CON POCO CORAGGIO E MOLTA FURBIZIA (COME "TRADIZIONE" COMANDA) LE DISTANZE DA CRIMINI ABNORMI E DAL LAVORO DI INSABBIAMENTO ISTITUZIONALE. Una breve rassegna stampa sulle reazioni  

C’E’ DIO E "DIO", E FAMIGLIA E "FAMIGLIA": IL DIO DI GESU’ GIUSEPPE E MARIA (NON E’ QUELLO DI COSTANTINO E DELLA REGINA MADRE ELENA E DELL’INTERO ORDINE GERARCHICO DEL "REGNO DI DIO" VATICANO). Una nota di Ermes Ronchi - con appunti

Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito. UN NUOVO CONCILIO, SUBITO! Il cardinale Martini, dalla “città della pace”, lo sollecita ancora!!! 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA!

 



Domenica 27 Gennaio,2013 Ore: 15:30
 
 
Commenti

Gli ultimi messaggi sono posti alla fine

Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 27/1/2013 15.42
Titolo:Una nota sull’incontro di Ciampi e Benedetto XVI ....
SUBITO UN NUOVO CONCILIO !!!

di Federico La Sala

Una nota sull’incontro di Ciampi e Ratzinger

*

Se fossi nei panni di Papa Benedetto XVI e ... avessi ancora un po' di dignità di uomo, di studioso, di politico, e di cristiano – oltre che di cattolico, dopo l'incontro di ieri con il Presidente della Repubblica Italiana, di fronte all'elevato ed ecumenico discorso di Carlo Azeglio Ciampi (lodevolmente, L'Unità di oggi, 25.06.2005, a p. 25, riporta sia il discorso del Presidente Ciampi sia di Papa Benedetto XVI), considerato il vicolo cieco in cui ho portato tutta la 'cristianità' (e rischio di portare la stessa Italia), prenderei atto dei miei errori e della mia totale incapacità ad essere all'altezza del compito di "Vescovo di Roma e Pastore della Chiesa universale", chiederei onorevolmente scusa Urbe et Orbi, e ....convocherei immediatamente un nuovo Concilio!!!

* Il Dialogo, Sabato, 25 giugno 2005:

http://www.ildialogo.org/filosofia/nuovo25062005.htm
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 27/1/2013 15.43
Titolo:PAROLA A RISCHIO Risalire gli abissi ...
PAROLA A RISCHIO
Risalire gli abissi
La salvezza è per tutti. Alla portata di tutti.
Perché è sorriso, liberazione, gioia.

di Giovanni Mazzillo (Teologo) *

G come gioia, come Gesù, respiro di gioia per tutti gli infelici della terra. Parliamo di Gesù, il cui corrispondente nome greco Iesoûs deriva direttamente dall’originale ebraico Je(ho)šhu e significa JHWH salva, per precisare immediatamente che il termine salvezza oggi non significa gran che per i nostri contemporanei, e di conseguenza risuona poco interessante persino quel nome, pur originariamente portatore di una gioia immensa e inaudita. Ciò avviene non solo per l’inevitabile logorio delle parole più usate e talora abusate, ma per il fatto che ha perso rilevanza e pertanto significato il valore stesso della “salvezza”.

Salvezza
Salvezza da chi e/o da che cosa? Appunto, è questo il primo problema. La salvezza appare di primo acchito un concetto immediatamente derivato dal superamento di una situazione negativa, Si salva, o come succede in questo caso, viene salvato, qualcuno che si trova in una situazione di pericolo. Il pericolo di perdere qualcosa, di perdere se stesso. Di essere cancellato, di sparire, appunto come sparisce da un computer un testo non “salvato” o un’immagine non messa al sicuro. Ma essere salvati è per noi persone umane, e pertanto non riducibili a una traccia di codificazione binaria o algoritmica, molto di più che conservare un’impronta e una presenza. Coerentemente con la nostra realtà dinamica e relazionale, essere salvati significa avere un luogo, un senso, una rilevanza nel contesto di una realtà che giustifica, sorregge, garantisce il mantenimento e la crescita qualitativa, e pertanto il conseguente riconoscimento di un originario, inalienabile, imprescindibile valore personale.

La domanda «Chi o che cosa si può dire oggi salvato?» esige pertanto una primordiale differenziazione. Altro è il concetto di ciò che è salvato (cioè il dato messo al sicuro), ben altro è l’essere umano salvato. Questi non è solo garantito in ciò che ha di più proprio e pertanto è distinto dal mero “dato”, che invece è una sorta di file compilato (non per nulla in tedesco proprio il file è chiamato Datei, leggi datai, cioè «rea-ltà data»). L’essere umano è tale solo in un incontro, in una relazione. La persona è tutta nelle relazioni delle quali vive. Proprio la relazionalità sorregge il senso e la gioia del suo esistere.

L’annuncio di Gesù, già nella sua venuta in questo nostro mondo, è l’annuncio di una relazionalità umana felicemente riuscita. Nel Vangelo è direttamente collegato alla Grazia, termine che esprime tutto ciò e anche qualcosa di più.

Nell’annuncio della sua nascita, diversamente da quanto appare nella traduzione latina, e in quella italiana da essa derivata, nella preghiera più popolare che ci sia, Maria è salutata non con il saluto che si dava all’imperatore, alle autorità o anche agli amici con l’esclamativo «Ave!», bensì con l’invito a rallegrarsi, cioè a gioire (chaîre): a entrare in un circuito di esultanza per un dono gratuito e inatteso. Colei che è piena di grazia (kecharitōménē) è invitata a rallegrarsi perché tutto in lei è frutto ed espressione della «grazia» (cháris), cioè di un dono amorevole quanto sorprendente, che sarà presto annuncio di gioia per tutto il popolo e per ogni uomo: “Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù...”. L’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia...» (Lc 1,30-31; 2,10-11).

Il resto del Vangelo, soprattutto quello di Luca, evidenzia la gioia improvvisa e incontenibile che contagia quanti vengono a contatto con Ješhu. A cominciare da Elisabetta e dal suo bambino, che le esulta nel grembo, il futuro Battista. Così esultano ancora due anziani che sembrano essere rimasti in vita per mantenere viva la speranza d’Israele: Simeone e Anna, o i pastori; mentre nel racconto di Matteo, viene detto che i Magi “provarono una grandissima gioia” nel rivedere la stella che indicava il luogo della natività di Gesù.

La stessa gioia è testimoniata dai semplici e dagli umili, dagli infelici e dai peccatori che si sentono aiutati, capiti, perdonati. A gioire sono ancora i bambini e le donne, classi tradizionalmente neglette dalla piena partecipazione alla grazia collegata alle tradizionali benedizioni di Dio. Insomma il cuore del Vangelo è la lieta notizia annunciata ai bisognosi e agli infelici della terra. Il Dio che si dona totalmente, è il Dio che dona illimitatamente la gioia agli uomini. E perché la nostra gioia fosse piena (Gv 15,11), il Figlio di Dio è arrivato umanamente a perdere se stesso.

Perché avessimo una gioia che nessuno avrebbe mai più potuto toglierci, ha permesso che fosse tolta a lui la vita, per riprenderla di nuovo, ma con la conoscenza ormai nella sua carne e nella sua psiche di cosa significhi la morte umana. Di cosa voglia dire la gioia di vivere, di vivere non con il naturale sorriso con cui vive ogni creatura per la stessa gioia dell’esistere, ma di provare e diffondere la gioia di chi conosce la sofferenza e non resta inchiodato alla sofferenza. O al limite, di chi, nonostante le ferite e talora i chiodi mai interamente rimossi della sofferenza, sa sorridere della vita, perché questa è ormai rischiarata da colui che vince la morte e la depressione della sofferenza.

La gioia è dunque uno dei nomi della salvezza, ma di una salvezza che assume di volta in volta nomi nuovi e nomi antichi: riscatto, liberazione, sensatezza, leggerezza dell’esistere... Se la parola non fosse tanto inflazionata, si potrebbe dire che la salvezza altro non è che la felicità. È la felicità nel suo senso etimologico: come abbondanza e fertilità. Possiamo tradurre: come vita sensata che raggiunge il suo scopo e nasce da relazioni benevole, tendenti al bene altrui, trovando negli altri la propria gioia e comunicandola con relazioni che fanno crescere se stessi e gli altri.

In quanto tale, la felicità è simile alla pace e ne è la forma storica: è star bene con sé e con gli altri, con il proprio passato e con il proprio futuro. Perché, soprattutto oggi, c’è bisogno paradossalmente più di ricostruire il futuro che il passato o il presente. Per poterlo fare c’è bisogno di quella gioia consapevole che non si arrende e che non si ripiega su se stessa. Si ritrova nel futuro di una convivenza che non nasconde, ma sa riconoscere e superare i conflitti attraverso uno sguardo d’amore verso ciò che ci è intorno. È uno guardo che viene da lontano e tuttavia tocca la nostra umanità, questa mia e questa tua umanità, quella assunta, attraversata e come divinizzata da quel Gesù che continuamente dà senso a ogni tentativo di superare la violenza con l’amore. È l’unico a dar senso a ogni discorso di pace, anche questo che hai appena finito di leggere.

* MOSAICO DI PACE, LUGLIO 2012
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 27/1/2013 16.08
Titolo:EDITTO DI COSTANTINO (321 d. C.)
Ecco perché Costantino non fu tollerante

risponde Corrado Augias (la Repubblica, 9.11.2012)

Caro Augias,

vari quotidiani, dando notizia della mostra milanese su Costantino, hanno titolato sulla sua “tolleranza”. Vorrei ricordare che fu proprio Costantino il padre dell’antisemitismo. Egli emanò, l’11 dicembre 321, l’editto Codex Judaeis, prima legge penale antiebraica, segnando così l’inizio di una persecuzione e del tentativo di genocidio degli ebrei. L’editto definiva l’ebraismo: “secta nefaria, abominevole, feralis, mortale” e formalizzava l’accusa di deicidio. Da allora, il processo antisemitico non s’è più interrotto, ad eccezione del breve periodo di reggenza dell’imperatore Giuliano detto (a torto) l’Apostata.

I successivi imperatori introdussero le Norme Canoniche dei Concili nel Codice Civile e Penale. Con Costantino II, Valentiniano e Graziano, dal 321 al 399 d.C., una serie spietata di leggi ha progressivamente e drasticamente ridotto i diritti degli ebrei.
Si condannava ogni ebreo ad autoaccusarsi di esserlo: in caso contrario c’erano l’infamia e l’esilio. Proibito costruire sinagoghe. Leggi contro la circoncisione. Obbligo di sepoltura in luoghi lontani e separati da quelli cristiani. Altro che tolleranza, c’è un limite anche alla falsificazione della storia.
-Arturo Schwarz

La mostra milanese celebra i 17 secoli che ci separano dalla promulgazione di quell’editto di Milano (313 e.v.) con il quale il grande imperatore rendeva il cristianesimo “religio licita”, dopo che per secoli i suoi seguaci erano stati perseguitati. Le ragioni del provvedimento, al di là delle letture agiografiche, furono ovviamente politiche: l’impero tendeva a spaccarsi, la nuova religione parve un “collante” più efficace dei vecchi culti. Costantino peraltro conservò per tutta la vita il titolo “pagano” di pontifex maximus e si convertì al cristianesimo solo in punto di morte.

Né il suo comportamento personale ebbe nulla di veramente cristiano (fece uccidere moglie e figlio) anche se gli ortodossi lo hanno santificato. Quel che più conta, considerata la lettera del signor Schwarz, fu il suo fiero antigiudaismo. Arrivò a definire quella religione “superstitio hebraica” contrapponendola alla “venerabilis religio” dei cristiani. Presiedette, da imperatore, e diremmo da “papa”, il fondamentale Concilio di Nicea (325).

Soprattutto aprì la strada all’unificazione dei due poteri, temporale e religioso, in uniche mani. All’inizio furono quelle dell’imperatore, cioè le sue, col passare degli anni diventarono quelle del pontefice romano. Alla fine di quello stesso IV secolo il percorso si concluse quando un altro imperatore, Teodosio I, proclamò il cristianesimo religione di Stato, unica ammessa, facendo così passare i cristiani dal ruolo di perseguitati a quello di persecutori di ogni altro culto, ebrei compresi.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 01/2/2013 15.55
Titolo:Sul primato di Pietro . Intervista a Fulvio Ferrario,
Sul primato di Pietro

intervista a Fulvio Ferrario,

a cura di Paola Cavallari e Lucia Scrivanti

in “Esodo” n° 4, dell’ottobre-dicembre 2010

Paola Cavallari e Lucia Scrivanti, della redazione di Esodo, hanno intervistato il pastore Fulvio Ferrario, docente di teologia presso la facoltà valdese di Roma, impegnato nel terreno dell’ecumenismo, intorno a storici terreni di dibattito e a interpretazioni della Parola tuttora non condivise tra le chiese cristiane, ostacolo a quell’unità fra credenti in Cristo Gesù, che rappresenta una delle principali condizioni (la condizione fondamentale?) per una credibile testimonianza. Questo è infatti il comandamento del Maestro prima della sua morte: "Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri" (Gv 13,34-35). Sullo stesso argomento dell’intervista a Fulvio Ferrario, nel prossimo numero della rivista verrà presentato un intervento di un teologo cattolico.

-La prima questione che ti poniamo è un commento al passo di Matteo 16,18 ("E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa") - un commento da te, pastore valdese e affermato professore di teologia.

La teologia protestante e quella cattolica hanno da tempo acquisito che la figura di Pietro, già prima, e sicuramente dopo la morte di Gesù, ha svolto un ruolo preminente all’interno del gruppo più stretto intorno al Signore. Prima della Pasqua, troviamo nella tradizione sinottica il fatto che Pietro è il portavoce del gruppo dei dodici, e che comunque svolge un ruolo di preminenza. Dopo la Pasqua, Pietro è il primo nelle liste delle apparizioni, e tutto lascia pensare che l’iniziativa di ricostituire il gruppo dei discepoli dopo la morte di Gesù risalga a Pietro.

-Un consenso trasversale tra protestanti e cattolici? Non sussistono problemi di interpretazione?

Sì. Questo consenso non conosce al suo interno delle differenziazioni confessionali, perché da tempo l’esegesi a livello scientifico si è emancipata dalle ipoteche confessionali. Ma qui finisce il piano della constatazione storica.

I problemi dei protestanti non sono con Pietro, sono con il pontefice romano Benedetto XVI. Cominciano con l’idea di successione. La domanda è se la figura di Pietro come tale, e il ruolo che Pietro ha avuto possano ammettere l’idea di una successione; se il ruolo di Pietro non si sia esaurito con Pietro.

Il passo che lega a Pietro l’idea della custodia di una tradizione relativa a Gesù: "Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa", certamente, dal punto di vista di chi l’ha scritto, non prevede che altre persone esercitino lo stesso ruolo dopo Pietro. Quello che si vuol dire, invece, è che la tradizione su Gesù è legata al nome di questo testimone.

Prova ne sia che il passo di Matteo è riferito al vescovo di Roma solo a partire dal III secolo. Per 250 anni a nessuno è venuto in mente di legare il passo di Matteo su Pietro alla figura del vescovo di Roma. In una prima fase, a Roma non c’è stato un monoepiscopato; nel I secolo a Roma la chiesa era una rete di gruppi governata da un collegio di presbiteri. Il monoepiscopato, l’idea cioè di un vescovo unico in una chiesa locale, si stabilisce a Roma relativamente tardi.

Poi, dopo la morte di Ignazio di Antiochia - che è colui che dall’oriente importa in occidente l’idea dell’episcopato unico - a Roma vediamo apparire il vescovo.

Passano ancora cent’anni circa e, a questo punto, la sede romana rivendica una sorta di primato tra le chiese. È questa la fase in cui si passa dal greco al latino, come lingua ufficiale della chiesa, ed è anche la fase in cui il vescovo di Roma si comprende come successore di Pietro. Egli inizia a citare il passo petrino come testimonianza di una particolare autorità del vescovo di Roma.

La chiesa di Roma, prima d’allora, era comunemente definita la chiesa di Pietro e di Paolo, con riferimento al fatto che entrambi erano morti martiri a Roma. Nel III secolo essa inizia a essere chiamata la chiesa di Pietro - non più di Pietro e Paolo. Si osserva un’esigenza di legare un mito di fondazione alla funzione di accentramento della figura dirigente. Questo è il quadro.

Il testo di Matteo non ha nulla a che vedere con la questione confessionale relativa al papato come funzione primaziale del vescovo di Roma. Stupisce che - dopo tutto quello che l’esegesi ci ha spiegato - in alcuni testi ancora oggi - penso, ad esempio, all’enciclica Ut unum sint di Giovanni Paolo II - la rivendicazione del primato del vescovo di Roma venga motivata con riferimento al passo petrino.

-Se capiamo bene, allora, l’esegesi scientifica, sia cattolica, sia protestante, attesta che, dopo la morte di Pietro come guida nel primo periodo - guida motivata dalle stesse parole di Gesù - ci sia stata una sorta di eclisse del modello monocratico, che riemergerà dopo secoli nel monoepiscopato...

È tutto diverso. L’evangelo di Matteo fa un discorso sulla persona di Pietro. La persona di Pietro muore a Roma verosimilmente sotto Nerone. Il Nuovo Testamento non è in alcun modo nemmeno sfiorato dall’idea che esista qualcosa come una successione a Pietro in una funzione. Questo può essere letto solo in lavori che non hanno un carattere scientifico. Negli altri, invece, si sostiene che il Nuovo Testamento non ha alcuna idea di una successione alla figura di Pietro. O, più spesso, non si affronta nemmeno il tema.

A Roma non c’era un vescovo - una persona singola - ma un collegio. L’idea che una successione a Pietro godrebbe delle prerogative e delle promesse associate al passo matteano di Gesù è, lo ripeto, del III secolo. Cioè nasce ed è documentata per la prima volta in una fase tardiva, nella quale la chiesa di Roma rivendica un primato rispetto alle altre chiese.

-Quale sarebbe stata allora l’esigenza per cui Gesù avrebbe pronunciato la famosa frase del passo matteano, creando così il "primato" di Pietro?

Non possiamo più risalire all’intenzione del Gesù della storia. Quello che possiamo dire è che Matteo, nel momento in cui scrive il vangelo, cioè più o meno 50 anni dopo la morte di Gesù, intende affermare che le tradizioni relative a Gesù che si richiamano a Pietro - cioè che sarebbero state tramandate da Pietro e dai suoi seguaci - dispongono di una particolare autorevolezza. È verosimile, in base a criteri di critica storica, che Pietro abbia svolto una funzione particolare nel gruppo di persone più vicine a Gesù.

-Ci può essere qualche legame con il conflitto Pietro/Paolo nel cosiddetto concilio di Gerusalemme?

La questione non era tanto tra Pietro e Paolo, i quali si sono scontrati in un’altra disputa ad Antiochia, relativa alla partecipazione dei non cristiani di origine ebraica alla cena. Il conflitto era tra Paolo e i giudei cristiani, cioè tra Paolo e i cristiani di origine ebraica/palestinese di Gerusalemme. Paolo era uno dei cristiani ebrei di lingua greca: si trattava dei cosiddetti ellenisti, come li chiama il libro degli Atti. I cristiani palestinesi (di lingua greca) erano i "progressisti", per così dire, invece i cristiani di lingua aramaica erano il partito conservatore; essi pensavano che, siccome Gesù era nato ebreo ed era ebreo, per diventare cristiani occorresse diventare ebrei, cioè farsi circoncidere; Paolo li chiama anche giudaizzanti. Questo era lo scontro.

Paolo si reca a Gerusalemme, Pietro assume, per quel che noi ne possiamo sapere soprattutto da quanto possiamo dedurre dalle epistole di Paolo - infatti il libro degli Atti è assai successivo alla fonte -, il ruolo di mediazione tra il partito giudeo palestinese duro, che viene identificato sempre col nome di Giacomo - Paolo lo chiama il fratello del Signore - e Paolo stesso.

In mezzo c’è Pietro, che in qualche modo cerca di mediare. Ma il ruolo primaziale nella comunità di Gerusalemme, se mai ce n’è stato uno, non era di Pietro ma di Giacomo, per quel che noi possiamo capire in base alla testimonianza di Paolo.

Tutta la discussione relativa al primato di Pietro non si situa nel contesto di Gerusalemme, ma già dopo il trasferimento di Pietro a Roma. La questione Pietro/Paolo non è la più lacerante. Appare invece evidente una dicotomia Paolo/Giacomo. Ad un certo punto, Pietro si schiera, in una discussione ad Antiochia - sempre secondo Paolo - troppo dalla parte di quelli di Giacomo, e questo crea uno scontro tra i due.

-Ma allora sorge una domanda: non avrebbe dovuto essere Pietro questo “capo” della comunità, secondo quanto abbiamo detto prima?

Non è questo il punto, perché la tradizione che pone in luce Matteo si sviluppa altrove. Non bisogna pensare a Gerusalemme come ad un centro da cui tutto si dipana. Il conflitto tra Giacomo e Paolo si verifica prima che venga scritto l’Evangelo di Matteo. Non solo, ma l’Evangelo di Matteo non si sa dove sia stato scritto, pensiamo alla Siria; quindi da un’altra parte.

La tradizione relativa al primato di Pietro - tradizione che si consolida nell’Evangelo di Matteo, e il riferimento c’è solo in Matteo - non gioca alcun ruolo nella disputa tra Paolo e Giacomo. Paolo non ne sa nulla. Non c’è nessun passo nelle lettere di Paolo, da cui noi apprendiamo che Pietro sia stato investito di una particolare responsabilità da parte di Gesù.

C’è un errore di prospettiva nella domanda, che deriva da questo presupposto: all’origine c’è il passo petrino, che è precedente a tutto, poi viene il resto...

In un certo senso ci troveremmo di fronte ad un presupposto vero perché, se l’avesse detto Gesù - ma non possiamo ricostruire se storicamente sia così - l’avrebbe detto prima. Però quello che noi conosciamo è una tradizione filtrata dalla teologia di Matteo. E il Vangelo di Matteo è stato scritto ben dopo le dispute tra Paolo e Giacomo. Ben dopo l’invio o l’andata di Pietro a Roma, ben dopo la morte di Pietro.

-Ora vorremo sapere un tuo parere sul dogma dell’infallibilità papale.

Il dogma dell’infallibilità papale viene definito nel 1870, in un momento in cui Roma sta per essere attaccata dall’esercito italiano. Il Concilio Vaticano I° viene interrotto a motivo della presa di Roma da parte dei bersaglieri dell’esercito italiano. Rappresenta il culmine di un processo iniziato con la controriforma, ma che ha avuto una accelerazione nell’800 col papato di Pio IX. Roma vuol accentuare il peso della tradizione, contrapponendosi al Sola scriptura dei protestanti. Roma si richiama così ad una tradizione orale che sarebbe antecedente alla Scrittura. Col tempo questa tradizione viene identificata col magistero ecclesiastico: esso sarebbe il custode della tradizione, e il magistero ecclesiastico viene poi identificato col papato.

Il dogma del 1870 è un frutto del cosiddetto ultramontanismo, di quel movimento centrato sulla autorità del papa, che pretende di resistere all’illuminismo, al liberalismo, insomma alla modernità. I dogmi del Vaticano I sono due: l’infallibilità dottrinale del papa quando parla ex cathedra, e il primato di giurisdizione del pontefice romano. Quindi un’estrema personalizzazione e accentramento del ministero, dell’autorità in ambito dottrinale e morale.

-E un commento protestante?

Il fenomeno rappresenta il punto di vertice di un processo di lievitazione incontrollata dalla funzione del vescovo di Roma. È un lungo percorso, le cui tappe sono, ad esempio, prima Leone Magno, poi Gregorio VII, quindi Innocenzo III, la Controriforma, eccetera. Ma certamente il papato della Riforma, quello con cui polemizza Lutero, dal punto di vista dottrinale e dogmatico, è molto più leggero del papato di Pio IX. Ad esempio, nel dibattito ecumenico attuale, se la dottrina romana relativa al papato fosse quella del XVI sec., per molti protestanti oggi - e certamente per molti ortodossi - non ci sarebbero ostacoli decisivi.

-Paolo Ricca parla di carismi differenti, a proposito delle diverse confessioni cristiane. Esiste, a tuo parere, un qualche carisma anche nella figura dell’autorità papale in sé, a prescindere dalle "degenerazioni" storiche che si sono create nel tempo?

No, io non credo. Può darsi che esistano dei protestanti che rispondano affermativamente. Io credo che storicamente il papato abbia svolto un ruolo pernicioso per l’unità cristiana. Il papato ha favorito sia la divisione tra l’Oriente e l’Occidente, sia quella, all’interno dell’Occidente, tra le chiese della Riforma e la chiesa che non ha accolto la Riforma. Poi, all’interno del cattolicesimo romano, ha favorito lo scisma dei vecchi cattolici - quelli che non hanno accettato il dogma dell’infallibilità; e, sempre dentro la chiesa romana, ha favorito tutti gli scontri successivi - ad esempio, il modernismo
- sulla libertà. Ha favorito un accentramento del quale la chiesa romana ha incredibilmente sofferto.

Se in altre condizioni il vescovo di Roma potrebbe o potrà svolgere un ministero diverso, è una questione che allo stato attuale non è dato di dirimere. Sono molto drastico: l’idea che spesso si dà del ministero papale come un ministero di unità è ideologica. Di fatto il papa ha svolto e svolge una funzione di divisione.

-Ma non si potrebbe pensare, in qualche modo, ad una funzione di utilità, all’interno di una chiesa ecumenica, nella figura di un primate?

Bisogna distinguere due questioni. Quello che afferma il dogma del primato - più che quello dell’infallibilità - è che il vescovo di Roma esercita un primato di giurisdizione sulla chiesa universale per diritto divino, perché tale primato corrisponde alla volontà di Dio nella sua rivelazione in Gesù Cristo. Questo viene rifiutato dagli evangelici. Una questione diversa è se, dal punto di vista della praticità - e non dal punto di vista del diritto divino -, sia o meno utile che un vescovo eserciti una questione presidenziale in una ipotetica chiesa ecumenica, cattolica, una sorta di coordinatore, di portavoce, di presidente. Spesso si discute di questo, ma è una discussione campata per aria, perché in realtà quello che esiste de facto è un papato romano, il quale si fa forte di un apparato dogmatico, cioè di due dogmi della fede che lo riguardano.

Per quanto riguarda le altre forme di esercizio del papato, diverse da quelle attuali, che a suo tempo Giovanni Paolo II ha ipotizzato, bisogna dire che il problema non riguarda l’esercizio, bensì la concezione che il papato ha di se stesso. Solo che queste forme di esercizio più collegiale del primato non le ha mai viste nessuno. Quali sono? Sarebbe interessante - ma non risolutivo - vedere queste nuove forme più collegiali all’opera all’interno della chiesa romana. Ma qui, invece, continua ad operare un forte centralismo papale, per nulla collegiale. Anzi, le prerogative dei singoli vescovi e del collegio episcopale sembrano oggi notevolmente ridotte rispetto al primo decennio successivo al Concilio Vaticano II.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 01/2/2013 21.43
Titolo:La Chiesa-Popolo di Dio secondo il Concilio
La Chiesa-Popolo di Dio secondo il Concilio

di Giordano Frosini

in “Settimana” n. 5 del 6 febbraio 2013

Nella storia del post-concilio in generale e di quello italiano in particolare, il 1985 è un anno di importanza rilevante per due avvenimenti che hanno avuto un influsso notevole e prolungato nella vita della Chiesa sia italiana che universale.

Nel mese di settembre si tenne il secondo convegno delle chiese italiane a Loreto e, solo pochi giorni più tardi, dal 24 novembre all’8 dicembre, si celebrò a Roma il sinodo straordinario a vent’anni dalla fine del concilio Vaticano II. Se si vuole riflettere in profondità oggi, a cinquant’anni dall’inizio dello stesso concilio, sulla storia della ricezione della grande assise ecumenica, non è possibile prescindere né dall’uno né dall’altro avvenimento, almeno in lontananza uniti insieme dallo stesso spirito e da una comune ispirazione.

Del convegno di Loreto si è parlato a sufficienza nel passato, soprattutto per mettere in risalto il cambio di marcia della Chiesa italiana, che conserva ancora, a distanza di quasi quarant’anni, conseguenze ben visibili, tutt’altro che positive, a giudizio di chi scrive. Vogliamo ora mettere in luce quanto avvenne nel sinodo straordinario che, per il suo influsso, va naturalmente ben al di là dei confini e dei problemi della Chiesa italiana e ha suscitato una discussione sulla quale è opportuno ritornare.

Le tre fasi post-conciliari

Normalmente, nella divisione della ricezione post-conciliare in tre tempi, il sinodo viene considerato come la fine del primo periodo e l’inizio del secondo. Il terzo si fa poi cominciare col giubileo del 2000 e si estende fino ai nostri giorni. Di esso si è parlato soprattutto, ma non soltanto, per la vicenda riguardante il concetto di “popolo di Dio”, sostituito, con una sorta di colpo di mano, con la parola “comunione”. Da allora (si veda, per esempio, l’esortazione post-sinodale Christifideles laici), per esprimere l’ecclesiologia del Vaticano II, si parlerà comunemente di Chiesa-mistero, di Chiesa-comunione e di Chiesa-missione: la Chiesa-popolo di Dio praticamente sparisce dal vocabolario usuale anche dei teologi.

Eppure il termine appare addirittura nello stesso titolo del capitolo secondo della costituzione Lumen gentium, in seguito a una scelta ben ponderata dagli attenti padri conciliari, in diretto collegamento col capitolo primo dedicato al mistero della Chiesa. Come dire: il mistero, che nasconde in sé l’intima natura della Chiesa, si realizza concretamente in un popolo, con tutte le caratteristiche che il termine si porta con sé. La scelta proveniva da un uso molto lontano e frequentissimo sia del Primo che del Secondo Testamento, oltre che della liturgia. Un conteggio preciso, compresi connessi e derivati, sarebbe praticamente impossibile. Il sinodo straordinario terminò con una relazione che sostituiva l’ormai consueta esortazione post-sinodale del pontefice, e un messaggio - si direbbe: ironia della sorte - «al popolo di Dio».

Il teologo Walter Kasper, chiamato per l’occasione a fare da segretario, rilasciò quasi immediatamente i suoi ricordi e il suo commento in una piccola pubblicazione, che ci può aiutare molto a ricomporre il dibattito, svoltosi purtroppo in un tempo abbastanza ristretto: Il futuro dalla forza del concilio. Sinodo straordinario dei vescovi 1985 (Queriniana, Brescia 1986).

Suscita un po’ di meraviglia il fatto che la critica e la sostituzione del concetto di popolo siano state fatte proprie e approvate anche da lui, che pure ha dimostrato più tardi di essere capace di grande originalità e di altrettanto coraggio.

La cosa fu mal digerita in un primo tempo, poi però la contestazione lentamente si organizzò dando vita, specialmente nel Sudamerica, ad una reazione di cui dobbiamo prendere pienamente atto.

Questa sostituzione non è per caso un atto indebito su un testo conciliare, nato non proprio immotivatamente e senza adeguata preparazione da parte della grande assemblea?

Per la verità, la lettura del documento finale destava già in principio una certa sorpresa, perché si affermava che «il fine per cui è stato convocato questo sinodo è stato la celebrazione, la verifica e la promozione del concilio Vaticano II», con una precisazione ulteriore: «Unanimemente e con gioia abbiamo verificato anche che il concilio è una legittima e valida espressione e interpretazione del deposito della fede, come si trova nella sacra Scrittura e nella tradizione della Chiesa» (n. 2). Un sinodo può parlare così di un concilio ecumenico, la massima espressione del magistero della Chiesa? Con questo stesso spirito, chiaramente sopra le righe, si sostituisce una delle espressioni centrali del documento conciliare: quella di “popolo di Dio”.

Lo riconosce W. Kasper nel testo prima citato, quando afferma che la relazione introduttiva «denuncia certi arbitri e soggettivismi nel modo di organizzare la liturgia e un modo d’intendere troppo esteriore la partecipazione attiva in campo liturgico, nel senso cioè di una mera cooperazione esterna, invece di un coinvolgimento nel mistero di morte e risurrezione di Gesù Cristo. Constata poi anche un distacco dall’interpretazione scritturistica della tradizione viva e del magistero della Chiesa, anzi una notevole incomprensione della verità oggettivamente data, soprattutto nella sfera della dottrina morale, e anche un certo “cristianesimo di selezione”. Il cuore della crisi è stato individuato nel modo d’intendere la Chiesa.

La qualifica della Chiesa come “popolo di Dio” spesso è stata mal interpretata: la si è isolata dal contesto storico-salvifico della Scrittura e spiegata a partire dal senso naturale, o politico di “popolo di Dio”. Talvolta anche il dibattito sulla democratizzazione della Chiesa ha subito l’ipoteca di tale malinteso». Così, la relazione finale poteva affermare: «L’ecclesiologia di comunione è l’idea centrale e fondamentale nei documenti del concilio». Una frase certamente accettabile, ma in altro contesto, quello direttamente inteso dai padri conciliari. Era proprio necessario, per evitare i malintesi e le erronee interpretazioni del post-concilio, mettere in disparte il concetto di popolo? Non si potevano evitare gli inconvenienti denunciati purificando l’acqua sporca senza buttare via insieme anche il bambino? La questione è così posta nel suo significato fondamentale e il dibattito che ne seguì di conseguenza, all’interno e all’esterno del sinodo, è colto alla sua radice.

La rivolta dei teologi

I teologi che non vorranno accettare il cambiamento sinodale avranno buon gioco a mostrare i danni che da questo possono derivare e di fatto, almeno alcuni tutt’altro che secondari, sono derivati nella concezione e nella vita della Chiesa. Una constatazione che rende ancora più discutibile, in certo modo anche più grave, l’operazione condotta dai padri sinodali, già in questione per avere indebitamente corretto in un punto importante il pensiero del concilio sottoposto alla loro analisi. Si tratta di un vero e proprio cortocircuito teorico e pratico, per il quale è necessario non rassegnarsi. I vantaggi derivanti dalla dottrina conciliare erano stati ben individuati anche dai primi commentatori della costituzione Lumen gentium, come G. Philips, O. Semmelroth, Y. Congar.

Sostanzialmente tutto nasce dalla considerazione della Chiesa come soggetto storico, «l’ultima fase definitiva dell’alleanza bilaterale, che Dio ha stretto col popolo da lui salvato», la comunità escatologica che «peregrina nella storia come un giorno il popolo eletto peregrinò nel deserto avviandosi verso la terra promessa», l’incarnazione storica del mistero provvidenzialmente messo al centro della stesura del primo capitolo.

Aspetti certamente non del tutto ignoti anche prima della celebrazione del concilio. «Questa presentazione teologica - aggiungeva Semmelroth - non vuole affatto sostituire la dottrina della Chiesa quale corpo mistico del Signore con quella di popolo di Dio. Intende piuttosto integrarla, perché l’essenza della Chiesa è così complessa da non poter essere esaurita né da una definizione logica né da un’unica immagine».

Anzi, la priorità del concetto di popolo rispetto all’immagine del corpo sottolinea ancora meglio uno dei motivi principali, se non il principale, della scelta dei padri conciliari, che è quello dell’affermazione dell’uguaglianza sostanziale fra tutti i membri della Chiesa, il motivo che aveva già consigliato lo spostamento del capitolo dedicato alla gerarchia dal secondo al terzo posto.

Anche nella triade privilegiata fra le diverse immagini della Chiesa (popolo di Dio, corpo di Cristo, tempio dello Spirito Santo), precede il concetto di popolo, non soltanto per un motivo di carattere trinitario, ma anche perché il corpo mette in luce la diversità delle membra, della quale si parla soltanto dopo aver assicurato la sostanziale uguaglianza fra tutti i battezzati: la diversità dei carismi e dei ministeri non deve ostacolare quel concetto che il n. 32 della Lumen gentium esprimerà con icastica solennità con le note parole: «Quantunque alcuni per volontà di Cristo sono costituiti dottori e dispensatori dei misteri e pastori per gli altri, vige fra tutti una vera uguaglianza (vera aequalitas) riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo». L’aggiunta dell’aggettivo, di per sé non necessario, dà all’espressione una forza e un rilievo singolari.

Certo, fra le caratteristiche del popolo di Dio non andrà mai dimenticata la comunione, che lega essenzialmente la Chiesa al suo fondatore e Signore e, di conseguenza e nella stessa maniera, tutti i membri componenti fra di loro.

Comunione però non è una sostanza, non indica un soggetto; in termini aristotelici, dovrebbe essere catalogata fra gli accidenti. Dunque, più un aggettivo che un sostantivo. Oltretutto, fra le caratteristiche del popolo tutto quanto sacerdotale, il testo conciliare enumera anche la potenziale capacità di raccogliere «tutti gli uomini» di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Ogni uomo è ordinato al popolo di Dio e ogni nazione è parte potenziale del regno universale di Cristo. Anzi, di più, «questo carattere di universalità che adorna e distingue il popolo di Dio è dono dello stesso Signore, e con esso la Chiesa cattolica efficacemente e senza soste tende ad accentrare tutta l’umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo nell’unità dello Spirito di lui» (LG 13). Una potenzialità che incipientemente e misteriosamente prende forma e attualità già nei giorni della storia.

Sulla stessa linea Congar, per il quale il concetto di popolo di Dio mette «in risalto alcuni valori biblici fondamentali e l’orientamento globale verso il servizio missionario del mondo, cosa che risalta già dalle prime parole della costituzione dogmatica Lumen gentium: 1) una prospettiva di storia della salvezza, cioè una prospettiva escatologica; 2) l’idea di un popolo in cammino, in condizioni di itineranza; 3) l’affermazione di una relazione con tutta l’umanità, essa stessa in via di unificazione, e alla ricerca, tra mille difficoltà, di una maggiore giustizia e pace».

Può il concetto di comunione conservare e mettere in evidenza tutte le caratteristiche che il concetto di popolo si porta con sé? Esso possiede una vera ricchezza di significati difficilmente reperibili altrove ed esprimibili diversamente. Popolo come soggetto eminentemente attivo su tutto il fronte dell’attività della Chiesa: un popolo sacerdotale, quindi, profetico e regale. Un ottimo schema di lavoro, di riflessione teologica, di catechesi.

La critica più aspra e decisa, come abbiamo già detto, proviene dal Sudamerica. Ad essa ha dato voce sistematica il teologo belga-brasiliano Joseph Comblin in un libro tradotto anche in italiano, dal titolo originale O povo de Deus (Il popolo di Dio, Servitium/Città aperta, Troina - Enna - 2007), pubblicato nel 2002, «in previsione del nuovo pontificato», come afferma lo stesso autore nelle prime parole dell’introduzione.

«Le critiche al Vaticano II - afferma l’autore - condussero il sinodo del 1985 semplicemente a eliminare il concetto di “popolo di Dio”, sostituendolo con il concetto di comunione, come se questo avesse la medesima risonanza e come se i due fossero alternativi. La conseguenza fu immediata, anche se non sappiamo se fu intenzionale o no». Una categoria troppo sociologica? Ma «la sociologia praticamente non usa mai il concetto di popolo e teme di usarlo».

Perché allora questo timore? Naturalmente la critica di Comblin è condotta secondo gli schemi e il linguaggio della teologia della liberazione e raggiunge il suo vertice con l’affermazione che la scelta del termine comunione potrebbe facilmente far rientrare dalla finestra ciò che è stato messo felicemente fuori dalla porta, imponendo in pratica la comunione come ubbidienza al volere e al pensiero della gerarchia, eliminando o rendendo comunque difficile il contributo da parte del rimanente popolo di Dio. Comunque «il tema della comunione non esclude il tema del popolo di Dio né deve prendergli il posto. Il concetto di comunione è molto più ristretto che il concetto di popolo. Il popolo è una forma di comunione, ma include molti più elementi che il concetto di comunione». Parole, queste ultime, sulle quali non è difficile trovarsi d’accordo.

Il pensiero di Pino Colombo

È questo il pensiero di non pochi altri teologi, fra cui merita di essere ricordato S. Dianich, che in vario modo e da diversi punti di vista hanno sottoposto a motivata critica il cambiamento del testo conciliare.

Ma vorremmo ricordare in particolare il teologo milanese recentemente scomparso Giuseppe Colombo, insospettato sulla base del suo pensiero teologico e meticoloso al massimo nel ricostruire e discutere le diverse concezioni prese in esame.

Ci riferiamo in questo momento soprattutto a un suo contributo pubblicato di recente negli studi in onore di S. Dianich (Ecclesiam intelligere, Dehoniane, Bologna 2012), da considerarsi l’ultimo suo intervento sul nostro problema, aggiornato anche ad una successiva presa di posizione del card. Kasper.

Ricostruita con precisione la vicenda in questione, dopo aver ricordato che «sulla sostituzione di “comunione” a “popolo di Dio”, la Relazione non dice una parola», rimane a noi il diritto di domandarci «perché il sinodo abbia ignorato completamente la nozione di “popolo di Dio”, liberandosi così del dovere di fornire una qualsiasi spiegazione». Anche se, come si afferma, la nozione in questione è stata corrotta, politicizzata, socializzata fino a perdere ogni riferimento alla Chiesa, «la domanda è se la reazione debba spingersi a espungere totalmente dai testi del magistero la nozione di “popolo di Dio”», finendo col porre in questo modo, oltre che un problema storico (perché abbandonare la scelta dei padri conciliari?), un problema teorico di notevole importanza.

Secondo il pensiero dell’autore, mentre «“popolo di Dio” indicherebbe la svolta dell’ecclesiologia del Vaticano II», il concetto di comunione è visto in funzione della collegialità, cioè del rapporto papa-vescovi. «Non è possibile vedere, “oltre” la collegialità e (estendendo la nozione) “oltre” la comunione, il “popolo di Dio” conservandolo nella sua nozione propria, invece di rifiutarlo come una nozione inaccettabile? Di fatto sembra che al sinodo esso sia stato considerato come un’alternativa.

È quindi da chiedersi se, rispetto al “popolo di Dio”, la nozione di “comunione” non stacchi la Chiesa dal mondo, ritraendola in se stessa, sui suoi problemi interni (collegialità, conferenze episcopali, problemi dei laici, vocazione universale alla santità). Nessuno può contestare l’importanza e l’urgenza di questi problemi, ma l’insistente ed esclusivo richiamo ad essi sembrano costituire una penalizzazione evidente rispetto all’apertura al mondo del “popolo di Dio”». Di nuovo, e per altro verso, un ritorno al passato, questa volta per motivi esterni piuttosto che interni, ma sempre fondamentali nella mente dei padri conciliari e nei documenti ai quali essi dettero vita.

Su questo sfondo - continua il teologo milanese - c’è anche da considerare che ai paesi del terzo mondo e dei cosiddetti paesi emergenti va riconosciuto il diritto di elaborare una teologia autoctona, senza imporre loro le linee della teologia occidentale. «In ogni caso, la Chiesa come “comunione” è l’ecclesiologia del sinodo straordinario 1985, non è l’ecclesiologia del concilio Vaticano II, che - salvo meliori iudicio - è quella del “popolo di Dio”». Per questo è meglio tenere distinti il concilio e il sinodo, anche dopo i più recenti tentativi di mantenerli uniti di Kasper e Pottmeyer.

Un necessario recupero

Dopo avere ascoltato le diverse opinioni, una scelta si impone anche per noi. Omnibus perpensis, sembra giusto rispettare la scelta conciliare, a cui i padri arrivarono dopo una riflessione serena e matura durante le sedute assembleari e in non pochi casi anche in precedenza. Essa fa corpo con la scelta fondamentale di evidenziare, prima delle specificazioni, l’elemento unificante di tutte le componenti della Chiesa. Non si perde niente di quanto porta con sé il concetto di comunione e l’incombente immagine di corpo mistico, ma non si può negare che l’intenzione del concilio sia quella di chiamare a raccolta l’intero popolo cristiano e di fare appello al suo comune senso di responsabilità. È bene che questa vocazione risuoni e risplenda chiaramente nel termine stesso scelto avvedutamente dal concilio.

A norma di logica ecclesiale, nessuno ha diritto di cambiare il pensiero e i termini destinati a veicolarlo di un concilio ecumenico, che rimane l’espressione massima dell’insegnamento della Chiesa. Se il concetto di popolo è stato deteriorato da immissioni d’altro genere, si può sempre ricorrere a una sua purificazione, senza metterlo totalmente o quasi in disparte. C’è piuttosto da pensare, in questa fase di stanca della ricezione conciliare, a un suo richiamo perentorio perché la comunità cristiana partecipi attivamente e responsabilmente ai compiti che un concilio coraggioso e innovatore ha ad essa consegnato.

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Dottrina della fede secondo Ratzinger

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