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www.ildialogo.org Benedetto XVI e la crisi del papato in quanto forma istituzionale. "I corvi, il papa e la posta in gioco". Un'analisi di Aldo Maria Valli - con alcune note,a c. di Federico La Sala

IL MESSAGGIO EVANGELICO, IL PARADOSSO ISTITUZIONALE DEL MENTITORE, E IL CEDIMENTO STRUTTURALE DELLA TRADIZIONE CATTOLICO-ROMANA...
Benedetto XVI e la crisi del papato in quanto forma istituzionale. "I corvi, il papa e la posta in gioco". Un'analisi di Aldo Maria Valli - con alcune note

La concentrazione di potere, senza eguali, nelle mani di uno solo, l’influenza inevitabile che il ruolo di capo di stato ha su quello di capo spirituale e la mancanza di veri luoghi di dibattito all’interno della curia stanno determinando una situazione che, specialmente nel confronto con la società della comunicazione, si è fatta insostenibile. Un modello che ha retto per secoli sta mostrando ora crepe sempre più evidenti.


a c. di Federico La Sala

Note sul tema:

KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").

LA GRAZIA DEL DIO DI GESU’ E’ "BENE COMUNE" DELL’INTERA UMANITA’, MA IL VATICANO LA GESTISCE COME SE FOSSE UNA SUA PROPRIETA’. Bruno Forte fa una ’predica’ ai politici, ma non ancora a se stesso e ai suoi colleghi della gerarchia. Una sua nota, con appunti

IL MESSAGGIO EVANGELICO, IL PARADOSSO ISTITUZIONALE DEL MENTITORE, E LA CATASTROFE DELL’EUROPA.
DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO: IL PROGRAMMA DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT.

VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. (Federico La Sala)

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I corvi, il papa e la posta in gioco

di Aldo Maria Valli (Europa, 9 giugno 2012)

A questo punto occorre pur dirlo. La vicenda dei corvi è anche la forma espressiva, sotto molti aspetti sciagurata ma efficace, trovata dalle tensioni interne in Vaticano in vista del nuovo conclave. Senza voler mancare di rispetto al papa regnante, sul piano storico non si può ignorare che siamo entrati nella fase fibrillatoria che contraddistingue la fine dei pontificati, quando le forze in campo si muovono per guadagnare le posizioni migliori e raggiungere equilibri e accordi da far contare nel momento della scelta del nuovo papa.

La posta in gioco è il papato che sarà, e il terreno di scontro è la politica attuata da Ratzinger, specie per quanto riguarda la sua lettura del Concilio Vaticano II. In modo felpato, com’è nel suo stile, ma anche molto chiaro nei contenuti, Benedetto XVI ha di fatto riletto il Concilio in senso anti-innovativo. Basandosi sull’idea, incontestabile, che la Chiesa non ha né può avere una carta costituzionale, perché la sua sola “costituzione” è la sacra scrittura, Ratzinger ha però depotenziato l’eredità conciliare per quanto riguarda almeno quattro contenuti fondamentali del Concilio stesso: la collegialità, la liturgia, l’ecclesiologia, l’ecumenismo.

Circa la collegialità, la prassi dei sinodi fa capire di che tipo sia lo svuotamento attuato. Il sinodo, creatura conciliare, nasce per dare voce al confronto fra i vescovi e per far giungere le loro istanze al papa, ma oggi questa è una finzione, perché al posto di un confronto aperto c’è solo un accostamento di voci sotto il controllo del potere centrale della curia, senza un autentico dibattito e senza la possibilità, per ogni vescovo, di interloquire con il papa e di avere da lui qualche risposta concreta.

Quanto alla liturgia, le simpatie di Benedetto XVI per il rito antico sono note, e da queste derivano le sue scelte. Il concilio, su questo piano, non è mai stato apertamente criticato, ma con l’andare del pontificato sono state ripristinate forme liturgiche decisamente preconciliari e la preoccupazione di Ratzinger per il recupero dei lefebvriani, con tutte le energie spese in proposito, è di per sé eloquente.

Sul piano dell’ecclesiologia, abbiamo un rinnovato centralismo, con il papa e la curia romana in posizione di preminenza, i vescovi nel ruolo di meri esecutori, senza possibilità di vero confronto, e i laici totalmente subordinati, chiamati in causa in funzione di supplenza e solo se del tutto in linea con le indicazioni centrali. La nozione di Chiesa come “popolo di Dio” sembra lontana, persa nelle nebbie di un clericalismo di ritorno.

Infine l’ecumenismo. Anche in questo caso, nessuna sconfessione aperta del concilio, ma se poi si vanno a vedere i comportamenti concreti si nota la regressione. Significativa la giornata di Assisi di un anno fa, dove la preoccupazione di evitare il sincretismo ha svuotato l’incontro di contenuto ecumenico per farlo diventare un pellegrinaggio fatto in comune ma senza reali segni di fraternità, e dove si è preferito accentuare il ruolo dei non credenti, trasportando così il confronto dal piano della preghiera a quello del confronto culturale.

Stando così le cose, mentre la Chiesa (per ammissione dello stesso Benedetto XVI) sta vivendo una pagina “drammatica”, segnata anche dalla disubbidienza di alcuni preti europei che, non trovando altre forme per manifestare le proprie richieste e il proprio disagio, hanno deciso di dire no al magistero su questioni come il celibato, la consacrazione ministeriale delle donne e il divieto di comunione per i divorziati risposati, dentro le sacre mura si confrontano e si scontrano le fazioni: continuare su questa strada che è di sostanziale ridimensionamento dell’eredità conciliare oppure aprire una pagina diversa, all’insegna del confronto tra i punti fermi del concilio, che devono restare tali, e le nuove realtà? Il fatto che il confronto sia emerso secondo le modalità che abbiamo sotto gli occhi, attraverso fughe di documenti, è di per sé significativo.

Quella che vediamo non è soltanto la crisi di questo papato. E una crisi del papato in quanto forma istituzionale. La concentrazione di potere, senza eguali, nelle mani di uno solo, l’influenza inevitabile che il ruolo di capo di stato ha su quello di capo spirituale e la mancanza di veri luoghi di dibattito all’interno della curia stanno determinando una situazione che, specialmente nel confronto con la società della comunicazione, si è fatta insostenibile. Un modello che ha retto per secoli sta mostrando ora crepe sempre più evidenti.

Ma fino a quando la Chiesa, nella sua espressione gerarchica, potrà fingere di non accorgersene? Fino a quando la linea della segretezza potrà essere privilegiata rispetto a quella della trasparenza e la forma dell’assolutismo (che alimenta inevitabilmente manovre oscure e maldicenze) rispetto a un confronto aperto, magari anche duro ma istituzionalizzato? Fino a quando la paura dovrà prevalere sulla fiducia? Questa è la posta in gioco. Questi i veri problemi che i corvi e le conseguenti battaglie fra guardie e ladri hanno portato alla luce.

Queste le vere tensioni che stanno sotto e dietro i fatti di cronaca. Se nella Chiesa cattolica ci fosse un’opinione pubblica sarebbero motivo di dibattito. Ma nella Chiesa una vera opinione pubblica non c’è, perché chi cerca di alimentarla viene costantemente mortificato ed emarginato. Ed anche su questo aspetto, a cinquant’anni dal concilio, bisognerebbe riflettere.



Sabato 09 Giugno,2012 Ore: 11:13
 
 
Commenti

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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 13/6/2012 20.15
Titolo:La Chiesa cattolica ha esercitato per un millennio il suo potere temporale ...
«La gerarchia italiana fa fatica ad abituarsi all’internazionalizzazione della Chiesa»

intervista a Manlio Graziano*,

- a cura di Isabelle de Gaulmyn

- in “La Croix” del 13 giugno 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)

Questi scandali mostrano gli stretti legami che uniscono ancora il Vaticano agli affari italiani. Come spiegare questo legame?

Innanzitutto con la storia. La Chiesa cattolica ha esercitato per un millennio il suo potere temporale su una grande parte del territorio della penisola e, anche al di fuori dello Stato pontificio, il clero è stato per moltissimo tempo il più importante proprietario fondiario (del resto, non solo in Italia).
- Tale posizione ha necessariamente lasciato delle tracce, ma in Italia più che altrove, perché, fin dalla sua nascita, lo Stato italiano ha sempre tenuto in considerazione gli interessi della Chiesa. Nella memoria dei responsabili politici italiani, infatti, la mobilitazione organizzata dalla Chiesa, che aveva provocato la caduta della Repubblica napoletana del 1799, è rimasta un ricordo indelebile.
- Al momento della presa di Roma, la prima decisione del governo italiano è quindi stata di esentare l’antico Stato pontificio, per un periodo di due anni, dall’applicazione delle leggi di soppressione dei benefici ecclesiastici, e la seconda di votare delle leggi di garanzia (le guarentigie) a favore della persona e dei beni del papa e del Vaticano.
- Durante la sospensione delle leggi dette “anticlericali” a Roma, fu il clero stesso che alienò gran parte delle sue proprietà fondiarie e fece nascere un grande impero finanziario (che in Italia viene chiamato “le banche cattoliche”), che da allora è uno dei protagonisti, di cui non si può non tener conto, della vita economica (e quindi politica) del paese. Ma non tutte le proprietà in mano al clero sono state alienate o espropriate in seguito. Secondo diverse fonti, la Chiesa conserverebbe oggi ancora un controllo diretto o indiretto sul 20-25% del patrimonio immobiliare italiana, e gli accordi del Laterano del 1929 lo autorizzavano a non pagare imposte su tali proprietà.

Gli italiani della Santa Sede conservano uno stretto legame con quanto succede nella Chiesa italiana?

Per rispondere a questa domanda, bisogna fare una distinzione tra i cittadini della Repubblica italiana che lavorano per una delle istituzioni della Città del Vaticano, e i vescovi e i cardinali italiani che lavorano nel governo centrale della Chiesa universale. Questi ultimi mantengono certo un legame molto forte con la Chiesa della penisola, e molti di loro fanno ancora fatica ad abituarsi all’internazionalizzazione della Chiesa di Roma. È comunque certo che l’Italia resta il pilastro su cui si basa la Chiesa universale. Questo autorizza una parte della gerarchia di origine italiana a mantenere una certa ambiguità, arrivando a volte perfino a pensare che il governo della Chiesa universale le spetti di diritto. Ora, dal 1978, la direzione centrale della Chiesa è affidata ad un nonitaliano, e oggi sappiamo che una delle ragioni dell’elezione di Karol Wojtyla fu proprio la volontà di sottrarre la Chiesa universale ai conflitti che dividevano i cardinali italiani.

Quali sono le poste in gioco, per la Chiesa italiana, di questa prossimità col Vaticano?

Come ho appena detto, la Chiesa italiana, in generale, si sovrastima. La vicinanza ai sacri palazzi, il suo ruolo storicamente decisivo, l’obiettiva importanza della penisola come “laboratorio” nel quale le scelte del papa e della gerarchia sono sperimentate, e il fatto di rappresentare un “polmone” per l’amministrazione e per il governo della Santa Sede: tutto questo dà ai responsabili della Chiesa italiana la sensazione di potersi in qualche modo “sottrarre” alle regole di funzionamento che sono imposte a tutte le altre Chiese nazionali in nome della centralizzazione della Chiesa universale.

* insegnante di geopolitica e di geopolitica delle religioni alla Sorbona Parigi IV e all’American Graduate School di Parigi, autore di Identité catholique et identité italienne. L’Italie laboratoire de l’Église (Parigi, 2007) et Il secolo cattolico. La strategia geopolitica della Chiesa (Roma, 2010)
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 17/6/2012 21.10
Titolo:La crisi del Vaticano II: pesa la collegialità mancata
La crisi del Vaticano II: pesa la collegialità mancata

di Alberto Melloni (Corriere della Sera - La Lettura, 17 giugno 2012)

Il Vaticano II non ha tratto grandi benefici dalla stagione nella quale andava di moda. Le sue intuizioni più profonde sono spesso state banalizzate, le sue esigenze più imperative disattese. Adesso il vento dei vezzi ha girato e quelli che si vergognavano di non capirlo, o che osavano dare alle proprie pigrizie spirituali il venerando nome di Tradizione, fanno sogni impossibili. Questa galassia, alla quale Benedetto XVI ha regalato molti gesti di indulgenza, anziché accontentarsi e ringraziare, si è montata la testa.

Alcuni di loro, come padre Gherardini, supplicano da tempo un declassamento del Vaticano II a concilio adogmatico: così da liberarsi di quelle decisioni che hanno ridisegnato il volto ecumenico, interreligioso e eucaristico della Chiesa. E trovano talora sostegno inatteso in una storiografia che sente ormai di aver le prove che il Concilio si è svolto dopo la metà del secolo XX, quasi di sicuro all’inizio degli anni Sessanta, e che, testi alla mano, può dimostrare che in esso affiorano convinzioni religiose di chiara impronta cristiana...

Altri si sono ormai convinti che con poco - un altro decano o un altro segretario di Stato o un’altra infornata o addirittura un altro Papa - si potrebbe davvero seppellire il Concilio e saltare a un punto imprecisato del tempo, all’indietro o se mai in avanti, come se davvero l’esperienza fondamentale del cristianesimo fosse cruda materia, pensabile fuori da una storia. Ma al di là delle mode il Vaticano II rimane al centro della vita cristiana e della Chiesa cattolica, nelle sue decisioni cruciali sulla liturgia, la rivelazione, il ministero, la pneumatologia, la libertà, l’alleanza di Israele, l’alterità, la povertà.

Certo, ci sono decisioni che gli furono sottratte, e che si rischia talora di leggere come lacune. Paolo VI, com’è noto, ritenne che c’erano temi talmente delicati e complessi che il Papa li avrebbe risolti meglio da solo che non con un’assemblea: la guerra nell’era della deterrenza nucleare, il celibato ecclesiastico, la riforma della Curia romana, la contraccezione, la pratica della collegialità episcopale. Nodi che hanno isolato, tormentato, e alla fine schiacciato papa Montini. Giovanni Paolo II li ha letteralmente «sorvolati» col suo stile di non-governo. E sono rimasti lontani dall’agenda di Benedetto XVI.

A partire da quello più «latino» e più istituzionale di tutti che è la forma del governo ecclesiale. I1 Vaticano II, infatti, indicò la via della collegialità - che non è una specie di «democrazia», ma la conseguenza di un modo di vedere la Chiesa universale e le Chiese particolari in un dinamismo di comunione che nasce dal sacramento episcopale e non da una concessione del Papa o da un diritto dal basso.

Quella indicazione non è stata ubbidita: né nelle riforme della curia, né in quella del Codice di diritto canonico e neppure quando una enciclica wojtyliana - Ut unum sint - pose la questione della fisionomia del ministero petrino.

Ma se il Vaticano II non ha voluto costringere, non è stato per debolezza e nemmeno perché ignorava che la nostra storia sarebbe stata rapida: è stato il suo stesso modo d’essere e la convinzione che a esso toccasse iniziare, dare responsabilità. Che con quell’inizio e responsabilità ci si misuri malvolentieri non è colpa del Concilio, ma di chi esita.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 19/6/2012 16.22
Titolo:PARADOSSI DI UNA FINE ....
Paradossi di una fine di pontificato

di Stéphanie Le Bars

in “Le Monde” del 16 giugno 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)

Furti, macchinazioni, complotti, tradimenti, minacce: il Vaticano ha forse fatto in queste ultime settimane un salto indietro di secoli? Sembra perfino che la morte si aggiri nei vicoli lastricati di Roma, se si deve credere all’ex presidente della banca del Vaticano: congedato in fretta dal suo incarico, il 23 maggio, Ettore Gotti Tedeschi ha assicurato poco dopo di “temere per la sua vita”. Nemmeno un anno, o quasi, di pontificato di Benedetto XVI, è stato risparmiato da scandali e rivelazioni che hanno dato una coloritura “noir” ai metodi di governo di alcuni gerarchi della “Chiesa universale”. Iniziato nel 2005 come regno di transizione di un papa anziano e poco intraprendente, questo pontificato sconfina, per certi aspetti, nel tragico.

Dopo gli scandali di pedofilia e i numerosi casi di incomprensione tra il papa e il mondo, ora i Vatileaks, queste pubblicazioni di lettere confidenziali sulla stampa, delineano dei contorni di una fine regno paradossale. Benedetto XVI sembra come superato dalla vastità dei cantieri che lui stesso ha dovuto aprire, suo malgrado. E non è certo che l’energia e il tempo che gli restano gli bastino per rimettere ordine nella curia, per ristabilire la fiducia e restaurare un’immagine appannata.

Eppure Benedetto XVI sapeva che cosa doveva aspettarsi. Poco prima della sua elezione, il cardinale Ratzinger aveva fatto una diagnosi terribile. “Spesso la tua Chiesa ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti. E anche nel tuo campo di grano vediamo più zizzania che grano. La veste e il volto così sporchi della tua Chiesa ci sgomentano. Ma siamo noi stessi a sporcarli!”, aveva affermato durante la Via Crucis nel 2005. Ahimè! La politica di “trasparenza e di purificazione”, rivendicata da allora dal papa in materia finanziaria o sul problema della morale del clero, si scontra con le resistenze all’interno della curia e negli episcopati. Certo, affinché che “la barca” trovasse acque meno torbide, sarebbe stato necessario un papa politico, esperto nell’amministrazione degli uomini e in grado di sventare gli intrighi vaticani, un’arte italiana nella quale eccellono i membri della curia. Benedetto XVI è l’esatto contrario. Prima di tutto teologo, ha fatto una scelta diversa. Con una costanza che suscita l’ammirazione dei suoi sostenitori ma spiega in parte le disavventure del pontificato, l’ottuagenario ha preferito dedicare le sue forze alla restaurazione di una fede cattolica che considera in pericolo.

Costantemente, quindi, il papa invita i credenti a ritrovare “la lettura della parola di Dio”, a ritornare “al sacro”, a difendere posizioni “non negoziabili” in materia di morale, a mostrarsi fedeli alla “tradizione della Chiesa”, al punto da fare promesse agli integralisti contrari alla modernità... Questa strategia è adatta al “nocciolo duro” dei credenti. Ma non per una gestione politica e umana della Chiesa, tale da renderla più efficiente e seducente.

Così, dopo sette anni di pontificato, le riforme in materia di trasparenza e di governance, che il suo predecessore Giovanni Paolo II non aveva saputo né voluto intraprendere, restano incompiute. Dovendo affrontare scandali ricorrenti nel funzionamento dell’Istituto delle Opere di Religione (IOR), il Vaticano è stato spinto dagli organismi europei a mettere la sua banca in regola con le norme internazionali di lotta al riciclaggio di denaro sporco, per avere la possibilità di essere inserito nella “white list” dei paesi virtuosi. Le recenti fughe di documenti e la destituzione a sorpresa di Gotti Tedeschi fanno pensare che non tutti condividano l’opinione del papa e/o i metodi impiegati.

Lo scandalo Vatileaks ha messo in luce ciò che molti osservatori avevano già notato: una polarizzazione sulla persona del cardinal Bertone, numero due del Vaticano e fedele a Benedetto XVI, alimentata dall’importanza crescente dei suoi amici italiani negli affari della curia e nelle poste in gioco della successione. Se dovesse essere fatto oggi un conclave, gli italiani sarebbero presenti con 30 elettori su 125.

Questa situazione rende difficile per il Vaticano l’uscita dal suo italocentrismo, nel momento in cui la mondializzazione e le sfide che si presentano alla Chiesa (scristianizzazione da un lato, corruzione dall’altro, concorrenza, altrove, con il protestantesimo o con l’islam...) esigerebbero uno sguardo plurale, collegiale e nuovo sulle situazioni dell’istituzione. Ma la Chiesa resta segnata da un centralismo mortifero; il papa e le persone a lui vicine si muovono in un universo da “ancien régime”, in cui vige una “benevolenza fraterna”, dove i cattivi soggetti vengono spostati senza essere mai, o quasi mai, sanzionati. Al contempo, una parte dei fedeli e del clero hanno fatto proprie le esigenze di trasparenza, di individualismo, di democrazia, di concertazione delle società moderne e del loro funzionamento attraverso le reti.

Non avendo tenuto conto di queste nuove realtà, certe decisioni prese a Roma vengono contestate in Germania, negli Stati Uniti o in Giappone. Ci sono credenti fanno enormi sforzi per restare “cattolici”, ma il “cattolicesimo romano” verticale e onnipotente non sta più loro bene. Perfino dei preti arrivano a definirsi ufficialmente “disobbedienti”. Nel momento in cui occorrerà fare un bilancio, la “Chiesa universale” che sarà lasciata in eredità da Benedetto XVI al suo successore potrebbe rivelarsi addirittura più fragile e frammentata che non profondamente “purificata” e rinnovata.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 12/8/2012 16.49
Titolo:Il corvo paga per tutti? Una foglia di fico ....
Il corvo paga per tutti?

di Aldo Maria Valli

in “Europa” dell'11 agosto 2012


Rinvio a giudizio per Paolo Gabriele, l’ex aiutante di camera di Benedetto XVI. L’esito dell’istruttoria, che sarà comunicato da padre Federico Lombardi lunedì mattina, sembra questo.

Con l’accusa di furto aggravato di documenti riservati, dopo una lunga detenzione e ora agli arresti domiciliari, il maggiordomo dovrà dunque affrontare il processo, in autunno, e lo farà da solo, visto
che ha detto di aver agito senza complici. Si parla della possibilità che il papa conceda la grazia, il che non dovrebbe comunque evitare il processo.

Dall’istruttoria sarebbe emerso che Gabriele, detto Paoletto, ha trafugato i documenti, consegnandoli al giornalista Gian Luigi Nuzzi e tenendone un bel po’ in casa (sia nell’appartamento vicino a Porta Sant’Anna, sia in quello di Castel Gandolfo), per «il bene del papa». Pensava che la sua azione avrebbe contribuito a fare pulizia nei sacri palazzi, mettendo allo scoperto affarismo e trame di potere e aiutando il papa a disfarsi dei collaboratori infedeli. Una ben strana operazione trasparenza, condotta, quanto meno, in modo un po’ avventato.

Come dimostra il risultato, al momento opposto a quello desiderato da Gabriele: il papa ha infatti confermato nella sua carica il segretario di stato Bertone, obiettivo numero uno della manovra del Corvo, e lo ha ricoperto di elogi con una lettera affettuosa. Restano sul campo tante domande.

Possibile che Gabriele, novello Don Chisciotte, abbia fatto tutto da solo? Possibile che l’iniziativa sia stata tutta sua? Tutta sua la strategia? Tutta sua la decisione di rivolgersi a Nuzzi e non ad altri
giornalisti? A quanto pare il Vaticano intende pubblicare la sentenza del giudice istruttore Bonnet e la requisitoria del promotore di giustizia Picardi. Sarà così possibile, si spera, entrare nei dettagli
della vicenda.

Ma se anche questi documenti dovessero confermare che il corvo ha volato da solo sarà difficile non restare scettici. E peggio ancora sarebbe se i documenti dovessero essere pubblicati, come si vocifera, con omissis.

Veramente l’accusa sarà soltanto di furto aggravato e non anche di divulgazione dei documenti? La domanda è decisiva, perché nel primo caso ci sarebbe una contraddizione evidente con la tesi secondo cui l’accusato ha agito da solo. Se lui ha solo rubato, qualcun altro ha trafugato. Il legale di Gabriele, avvocato Fusco, ha ripetuto che nella vicenda non ci sono né mandanti né complici, ma la tesi del cavaliere solitario, oltre a non convincere, assomiglia troppo a una foglia di fico.


Specialmente considerando il fatto che in Vaticano anche i muri hanno orecchie e mantenere un segreto, per di più di questa entità, è veramente un’impresa da superprofessionista dell’intelligence,
cosa che Paoletto non è. L’appuntamento con i giornalisti è stato rimandato più volte, segno che la stesura dei documenti non è stata agevole.

Alla fine il papa ha voluto incontrare a Castel Gandolfo i tre cardinali che hanno formato la commissione d’indagine (Herranz, De Giorgi e Tomko), i magistrati vaticani, il comandante della
gendarmeria Giani e il neoconsulente per la comunicazione, il giornalista americano Greg Burke.

Non c’era Bertone, perché in vacanza (ma non poteva prendere un aereo e farci un salto, visto il suo ruolo decisivo?). Ultima annotazione. Paoletto durante gli interrogatori ha detto che era lui il corvo
camuffato e irriconoscibile apparso nella trasmissione televisiva Gli intoccabili in febbraio.

Ma
quella volta disse che di corvi in Vaticano ce n’erano diversi, almeno una ventina. Depistaggio o
voce dal sen fuggita?

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Dottrina della fede secondo Ratzinger

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