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ISSN 2420-997X

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www.ildialogo.org IL "TESORO" DI SAN PIETRO E LA CARESTIA! Benedetto XVI "cambia la formula dell’Eu-carestia"! «Il calice fu versato per molti», non «per tutti»! Note di Gian Guido Vecchi e di Armando Torno,a c. di Federico La Sala

IL VANGELO DI PAPA RATZINGER E DI TUTTI I VESCOVI E IL "PANE QUOTIDIANO" DEL "PADRE NOSTRO", VENDUTO A "CARO PREZZO" ("CARITAS")!
IL "TESORO" DI SAN PIETRO E LA CARESTIA! Benedetto XVI "cambia la formula dell’Eu-carestia"! «Il calice fu versato per molti», non «per tutti»! Note di Gian Guido Vecchi e di Armando Torno

Le parole della tradizione liturgica, comunque, riprendono il greco perì pollòn e il latino pro multis, che sono un calco del semitico la-rabbîm: il quale significa «per le moltitudini» o anche «per tutti». Tradurre con «molti» ci sembra improprio rispetto all’originale ebraico.


a c. di Federico La Sala

MATERIALI SUL TEMA:

L’ EU-CHARISTIA.  "La parola «Eucaristia» deriva dal verbo greco «eu-charistèō/rendo grazie» che a sua volta proviene dall’avverbio augurale «eu-...-bene» e «chàirō-rallegrarsi/essere contento»" (Paolo Farinella, prete).

IL NOME DI DIO, SENZA GRAZIA ("CHARIS")! L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"

TUTTO A "CARO-PREZZO" ("CARITAS"): QUESTO "IL VANGELO CHE ABBIAMO RICEVUTO". IL VANGELO DI RATZINGER, BERTONE, RUINI, BAGNASCO E DI TUTTI I VESCOVI.

PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI. L’Acca in fuga

SE UN PAPA TEOLOGO SCRIVE LA SUA PRIMA ENCICLICA, TITOLANDOLA "DEUS CARITAS EST" ("CHARITAS", SENZA "H"), E’ ORA CHE TORNI A CASA, DA "MARIA E GIUSEPPE", PER IMPARARE UN PO’ DI CRISTIANESIMO.  (Federico La Sala)

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 «Il calice fu versato per molti»

Cambia la formula dell’Eucarestia

di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 25 aprile 2012)

La lettera di cinque pagine è rivolta alla conferenza episcopale tedesca ma riguarda ogni vescovo, a cominciare dagli italiani che ne discuteranno nell’assemblea di maggio. Benedetto XVI spiega le ragioni per cui si dovrà cambiare la formula dell’Eucarestia nella messa.

Nell’ultima cena Gesù spezza il pane («questo è il mio corpo») e poi prende il calice del vino, e qui durante la messa il sacerdote ripete parole che i fedeli sanno a memoria: «Questo è il mio sangue... versato per voi e per tutti in remissione dei peccati». Solo che nei Vangeli non si legge «per tutti». E il pontefice vuole che si torni alle parole di Gesù: «Versato per molti».

Lo stesso Papa ricorda i riferimenti testuali. Nel vangelo più antico, Marco (14,24) si legge upèr pollôn, in quello di Matteo (26,28) c’è scritto un analogo perì pollôn, insomma il «per molti» è la traduzione letterale dal testo originale greco. Assente in Giovanni, in Luca (22,19) c’è «per voi» (upèr umôn). L’indicazione era già contenuta in un documento della Santa Sede firmato nel 2006 dal cardinale Francis Arinze. Ma ha incontrato resistenze, dalla Germania agli Usa all’Italia.

L’espressione «per tutti» venne introdotta dopo il Concilio con la riforma di Paolo VI, nel ’69, il messale latino aveva «pro multis». Il timore di tanti vescovi è che si interpretasse la modifica come l’esclusione di alcuni dalla salvezza, una reazione preconciliare. Così il Papa ha scritto ai vescovi tedeschi, chiarendo che le cose non stanno affatto così: l’«universalità» della salvezza non si discute, anche San Paolo scrive che Gesù «è morto per tutti». Il senso non cambia: negli anni Sessanta, ricorda, gli esegeti giustificavano il passaggio a «per tutti» citando Isaia 53 («il giusto mio servo giustificherà molti») e dicendo che «molti» è «un’espressione ebraica per dire la totalità». Solo che Gesù usa «molti». Bisogna guardarsi da traduzioni «interpretative» che hanno portato a «banalizzazioni» e «autentiche perdite», scrive: «Mi accorgo che tra le diverse traduzioni a volte è difficile trovare ciò che le accomuna e che il testo originale è spesso riconoscibile solo da lontano».

Questione di «fedeltà» alla «parola di Gesù» e alla Scrittura. Il Papa invita tuttavia a preparare preti e fedeli: «Fare prima la catechesi è la condizione fondamentale per l’entrata in vigore della nuova traduzione». La sua stessa lettera, come una catechesi, dà voce ai dubbi («Cristo non è morto per tutti?», «Si tratta di una reazione che vuole distruggere l’eredità del Concilio?») per fugarli.

In Italia si continua a dire «per tutti» ma presto la Cei concluderà la discussione sul nuovo messale. I timori non mancano, ma un grande teologo come il vescovo Bruno Forte spiega: «Il problema non è teologico, ma pastorale. Il Papa mette in luce che la redenzione oggettiva, per tutti, passa attraverso l’adesione libera di ciascuno. Dire "per molti" non esclude ma anzi esalta la dignità e l’assenso umano. Tuttavia la gente è abituata a "per tutti": per questo, dice il Papa, il cambiamento va fatto dopo una lunga catechesi che ne faccia capire il valore».


I dubbi sull’originale ebraico

di Armando Torno (Corriere della Sera, 25 aprile 2012)

Le parole dell’Ultima Cena, allorché Gesù invitò a bere il suo sangue, ricordano che veniva versato «per molti» o «per tutti»? Il Vangelo di Giovanni non le cita, ma i sinottici - Matteo, Marco e Luca - le riferiscono con varianti.

Il testo, anche se Gesù parlava con i discepoli in aramaico, ci è giunto in greco e si è diffuso in Occidente nella versione di Gerolamo, la Vulgata latina. Se «per molti» fa discutere e taluni preferiscono «per tutti» (lo suggerì la riforma di Paolo VI del 1969), va detto che il Vangelo di Matteo (26,28) riporta perì pollòn (diventò pro multis); Marco (14,24), invece, sceglie uper pollòn che Gerolamo rende di nuovo con pro multis.

Le due espressioni greche possono avere in italiano - lo suggerì Luciano Canfora anni fa, durante i dibattiti sul caso - significati quali «per molte ragioni» (Matteo) o «in difesa di molti» (Marco). Luca (22,17) si esprime con uper umòn, che nella Vulgata diventa pro vobis e non contrasta con l’italiano «per voi».

Le parole della tradizione liturgica, comunque, riprendono il greco perì pollòn e il latino pro multis, che sono un calco del semitico la-rabbîm: il quale significa «per le moltitudini» o anche «per tutti». Tradurre con «molti» ci sembra improprio rispetto all’originale ebraico.



Mercoledì 25 Aprile,2012 Ore: 13:27
 
 
Commenti

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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 25/4/2012 19.11
Titolo:PER TUTTI, NON PER MOLTI: 25 APRILE, FESTA DELLA LIBERAZIONE ...
25 aprile 2012 Festa della Liberazione

Privilegio di tutti

di Umberto Folena (Avvenire, 25.04.2012)

Quanto vale per noi la li­bertà? La nostra, e quella altrui? A volte sorge il dub­bio che soltanto chi è vis­suto in schiavitù sappia, e possa, desiderare e apprezzare e gustare pienamente il sapore della libertà, fino a inebriarsene. E non è il caso degli italiani che abbiano meno di 70 anni. Può dunque accadere che quanto hai sempre avuto a porta­ta di mano, facile, senza sforzo, ap­paia privo di valore. Quanto vale per noi la libertà?

Oggi, 25 aprile, Festa della Libera­zione, vale la pena ricorrere alla sa­na cultura popolare e alla sua sag­gezza. Giorgio Gaber, "popolare" nel senso nobile – non accademi­co né erudito, capace di far sorri­dere e pensare, un alchimista del­l’intrattenimento alto, che mai fi­niremo di ringraziare e rimpiange­re – ci aiuta con una sua canzone di cui tutti ricordano il titolo e il re­frain,

La libertà , ma forse non gli sviluppi interni, i segreti nascosti e svelati nelle strofe, parole sempli­ci che sembrano scritte con 40 an­ni di anticipo. «Libertà è parteci­pazione »: e tutti pensavano, nel re­moto 1972, allo Statuto dei lavora­tori e ai Decreti delegati, alle fab­briche e alle scuole. Forse. Anche. Ma Gaber viaggiava in anticipo, le sue canzoni erano (e sono) mac­chine del tempo.

Partecipare, prendere parte, avere parte, essere parte. La libertà in u­na relazione di coppia, una fami­glia, una comunità, una nazione, l’Europa, il globo… Siamo una par­te non passiva ma attiva, e quella coppia, quella famiglia, quella co­munità, quella nazione siamo noi, e noi apparteniamo a loro ed esse appartengono a noi. La libertà è questo legame, emotivo prima che razionale. Se questo legame si sfi­laccia, o cessa, addio libertà. Se al­­l’I care («mi sta a cuore», don Mila­ni…) si sostituisce il «me ne frego», cessa la libertà.

La libertà, canta Gaber, non è «il volo di un moscone». Non consiste nel seguire l’impulso del desiderio anarchico, del capriccio egoista. Il volo del moscone appare casuale, senza progetto alcuno. Non c’è par­tecipazione. La libertà non è nep­pure «uno spazio libero». Che co­sa possiamo farcene – ad esempio – della libertà d’espressione, se si riduce a una sequenza di soliloqui? La libertà è espressione partecipa­ta, ossia dialogo: gli altri dicono la loro, ma io sono curioso, interes­sato, convinto di poter apprende­re, ansioso di mettere le mie idee a confronto con quelle altrui per mi­surarne la forza, la consistenza, l’ef­ficacia, la bontà, la verità.

Questa libertà c’è oggi in Italia, e quanto è diffusa? Abbiamo scam­biato per partecipazione la sem­plice esibizione. Mi mostro, mi e­sprimo, mi esibisco e credo di aver partecipato, e quindi di aver com­piuto «un gesto libero», di essere u­na persona libera… «che passa la sua vita a delegare», ironizza Gior­gio Gaber. No, non è così.

La festa della Liberazione è bella e importante e preziosa perché ci ri­corda che la libertà non è mai da­ta per sempre, acquisita, come un bene che si possiede. Ma è libera­zione, un work in progress che non ha mai fine, una conquista conti­nua, una costruzione senza sosta, un amore che desidera essere se­dotto e cantato e accarezzato sen­za che mai possiamo assopirci. La libertà è partecipazione, eccome. È un privilegio per chi ama condi­videre la propria 'conquista'. Per chi sa che mai sarà libero, lui, fin­ché non saranno liberi tutti, ma proprio tutti. Liberazione globale.

Umberto Folena
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 26/4/2012 17.52
Titolo:CHARITAS O CARITAS?! TUTTO FA BRODO .....
Il primato del lavoro e la centralità dell’uomo

di Angelo Scola, cardinale arcivescovo di Milano (Corriere della Sera, 26 aprile 2012)

Oggi, alle 21, presso la Basilica di Sant’Ambrogio, l’Arcivescovo di Milano, cardinale Angelo Scola, presiederà la Veglia di preghiera per il mondo del lavoro in occasione della Festa del Lavoro del 1° maggio prossimo. Nel corso della veglia verrà annunciata la partenza della fase due del Fondo Famiglia Lavoro della Diocesi di Milano, che metterà a disposizione un milione di euro per borse lavoro, formazione, microcredito e aiuto a chi ha perso l’occupazione. Lanciato nel Natale 2008 il Fondo ha raccolto finora 14 milioni di euro e ha aiutato economicamente oltre 7 mila famiglie nel territorio della Diocesi di Milano.

Alla fine del secolo scorso molti economisti si posero la domanda: «Nell’attuale mutato quadro di riferimento ha ancora senso parlare di priorità del lavoro sul capitale?". La sostenne con forza nel 1981 la Laborem exercens (LE nn. 13-14) e la ribadì, dieci anni dopo, all’interno di una più articolata visione del sistema economico, la Centesimus annus.

Oggi, nel pieno della crisi economico-finanziaria, e ben consapevoli delle conseguenze sociali che tale tesi comporta, possiamo ancora proporla? Non è mio compito, né ho la competenza per esprimere giudizi sugli odierni cambiamenti strutturali e sui gravi contraccolpi negativi per l’occupazione. Men che meno sono in grado di entrare nel merito della riforma del lavoro in atto e delle varie misure proposte e contestate da diverse parti sociali e politiche.

Resto tuttavia convinto che ci sono buone ragioni per sostenere, anche oggi, il principio del primato del lavoro.

Credo di poter dire che è l’economia stessa, nei suoi elementi costitutivi e nelle sue complesse articolazioni, ad esigere, dal suo interno, un solido nesso con l’aspetto antropologico ed etico del lavoro umano. Con felice intuizione Benedetto XVI nella Caritas in veritate ha parlato della necessità di allargare la "ragione economica" (CV nn. 32 e 36), evidenziando il carattere eminentemente umano di ogni attività economica. Solo su queste basi essa coopera alla vita buona. Altrimenti non riesce ad evitare pesanti contraddizioni e malesseri. Lo abbiamo visto con la grave crisi della finanza cui per altro, a giudizio di molti esperti, non si stanno apportando i necessari correttivi. Ha scelto la strada dell’«anonimato» invece del «personalizzato», dell’effimero invece del durevole, dell’«individualistico» invece del «comunitario», dell’immediato presente a scapito del futuro.

Non si esce da questa Scilla - Cariddi se non si riafferma con forza che il lavoro, in quanto attività propria dell’uomo - e, quindi, a prescindere da ogni sua ulteriore qualificazione (manuale, intellettuale...) - non è solo il motore di ogni attività economica, ma ne è il movente. Il lavoro apre ad essenziali relazioni interpersonali e ai rapporti di scambio che costituiscono la trama dell’economia. Questa implica sempre un insieme di scelte e di decisioni, ultimamente basate sulla fiducia, che si ripercuotono sugli altri.

Che cosa comportano queste considerazioni, solo apparentemente di carattere generale, per l’attuale congiuntura economica? E che cosa hanno da dire in merito alla riforma del lavoro?

Coraggiosamente Caritas in veritate parla di «gratuità», senza la quale «il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica» (CV, 35). La parola gratuità però va capita bene: non significa "gratis", ma indica un’altra unità di misura del valore del lavoro e della dignità di chi lavora, come acutamente afferma Péguy nell’opera «Il Denaro»: «Un tempo gli operai non erano servi... La gamba di una sedia doveva essere ben fatta, non per il salario... per il padrone, né per i clienti. ... Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto».

In che modo dare spazio al fattore gratuità nel complesso mondo del lavoro di oggi? Perché espressioni come «qualità del lavoro», «lavoro dignitoso» non restino parole vuote, occorre il coraggio di ripartire dalla persona, dalla priorità data allo sviluppo del "capitale umano e sociale". Le misure e i modelli di adeguate politiche per il lavoro dovrebbero, pertanto, essere incentrati principalmente sulla ricerca di nuove forme di responsabilità personale e comunitaria, sia dei lavoratori sia degli imprenditori. Su questa base saranno poi necessari nuovi servizi che favoriscano, soprattutto per i giovani, la crescita professionale abbinando a percorsi di formazione e riqualificazione un sostegno economico. Inoltre, perché escludere una partecipazione diretta del lavoratore, come già scrisse Maritain, alla gestione economica di ogni intrapresa lavorativa? Riaffermare, con nuove modalità, il primato del lavoro e, soprattutto, del soggetto che lavora, è sicura garanzia di crescita, oltre che importante giustificazione dei massicci sacrifici oggi richiesti.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 27/4/2012 17.44
Titolo:"PER GIOVE"! ZEUS PIU’ SAGGIO DEL DIO DI RATZINGER ....
"PER MOLTI" O "PER TUTTI"? ZEUS PIU’ SAGGIO DEL DIO DI RATZINGER


UNA "LEZIONE" DAL MITO DI PROMETEO, NARRATO DA PROTAGORA*

"Allorché l’uomo divenne partecipe della sorte divina, in primo luogo, per la parentela con gli dei, unico fra gli esseri viventi, cominciò a credere in loro, e innalzò altari e statue di dei. Poi subito, attraverso la tecnica, articolò la voce con parole, e inventò case, vestiti, calzari, giacigli e l’agricoltura. Con questi mezzi in origine gli uomini vivevano sparsi qua e là, non c’erano città; perciò erano preda di animali selvatici, essendo in tutto più deboli di loro. La perizia pratica era di aiuto sufficiente per procurarsi il cibo, ma era inadeguata alla lotta contro le belve (infatti gli uomini non possedevano ancora l’arte politica, che comprende anche quella bellica). Cercarono allora di unirsi e di salvarsi costruendo città; ogni volta che stavano insieme, però, commettevano ingiustizie gli uni contro gli altri, non conoscendo ancora la politica; perciò, disperdendosi di nuovo, morivano.

Zeus dunque, temendo che la nostra specie si estinguesse del tutto, inviò Ermes per portare agli uomini rispetto e giustizia, affinché fossero fondamenti dell’ordine delle città e vincoli d’amicizia.

Ermes chiese a Zeus in quale modo dovesse distribuire rispetto e giustizia agli uomini: «Devo distribuirli come sono state distribuite le arti? Per queste, infatti, ci si è regolati così: se uno solo conosce la medicina, basta per molti che non la conoscono, e questo vale anche per gli altri artigiani. Mi devo regolare allo stesso modo per rispetto e giustizia, o posso distribuirli a tutti gli uomini?«

«A tutti - rispose Zeus - e tutti ne siano partecipi; infatti non esisterebbero città, se pochi fossero partecipi di rispetto e giustizia, come succede per le arti. Istituisci inoltre a nome mio una legge in base alla quale si uccida, come peste della città, chi non sia partecipe di rispetto e giustizia»"

* Platone, Protagora, 323.


27 aprile 2012,


Federico La Sala
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 28/4/2012 11.58
Titolo:L’ultima decisione papale .... di Klaus Nientiedt
L’ultima decisione papale non faciliterà i rapporti tra Roma e le chiese locali

di Klaus Nientiedt

- “www.konradsblatt-online.de” del 25 aprile 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)

“Andremo tutti tutti tutti in paradiso, perché siamo tanto tanto bravi...” Questa ritornello carnevalesco lo si poteva sentir cantare già negli anni ’70 dai critici del Concilio Vaticano II e della riforma liturgica postconciliare. L’annuncio di salvezza del racconto dell’ultima cena “Questo è il mio sangue, il sangue dell’Alleanza, sparso per tutti”, lo vedevano sprecato in una redenzione generale, di tutti senza eccezione. Già allora volevano ritornare all’espressione “per molti”: “sparso per molti”, tutto il resto è, secondo loro, “grazia a buon mercato”, incompatibile con il testo biblico originale.

Papa Benedetto ha ora accondisceso anche a questo desiderio e ha dichiarato che l’unica traduzione esatta è “per molti”. Precedentemente aveva già tolto la scomunica ai quattro vescovi tradizionalisti rimasti e aveva ridato normalità al rito tridentino preconciliare nella forma straordinaria del rito romano. Ma c’è una differenza: questa volta la decisione papale non riguarda solo i tradizionalisti, ma tutti i fedeli.

Al posto dell’espressione interpretativa - come la chiama il papa - “per tutti”, secondo il desiderio del papa ora può essere usata la “semplice trascrizione” “per molti”. . Il papa stesso si muove nella sua argomentazione con una certa tensione: la “restituzione” di “pro multis” con “per tutti”, la definisce un’interpretazione che “era e rimane ben fondata”. Gli interessa però anche, innanzitutto, una traduzione “contenutisticamente” fondata e non necessariamente una “traduzione letterale”. E tuttavia: secondo un decreto del Vaticano del 2001 deve essere non tanto interpretazione quanto piuttosto traduzione: solo traduzione. E quindi “per molti”, e non “per tutti”.

Che il papa annunzi proprio adesso questo cambiamento, è in relazione ad una certa fretta. I vescovi stanno preparando un nuovo innario ed un nuovo messale. L’alternativa sarebbe stata mantenere la traduzione che c’era finora. Molti vescovi tedeschi avrebbero volentieri evitato il cambiamento. Uno dei motivi: indipendentemente dalla problematica della traduzione, che ai loro occhi non appare teologicamente cogente, questo modo di procedere provoca agitazione tra il clero. I vescovi vorrebbero evitare di far sorgere l’impressione che l’universalità della salvezza iniziata in Cristo debba essere relativizzata secondo un’interpretazione ecclesiale.

Il presidente della conferenza episcopale tedesca, arcivescovo di Friburgo Robert Zollitsch, considererà il fatto di non aver potuto impedire questo come una personale sconfitta. Eppure nella sua penultima visita a Roma aveva anche un mandato in questo senso da parte delle conferenze episcopali svizzera ed austriaca.

Quest’ultimo passo della politica liturgica vaticana si inserisce nel modo di procedere “da chiesa universale” della Santa Sede. Solo pochi mesi fa è entrato in uso nei paesi di lingua inglese un nuovo rito della messa, che prescrive rispetto ad alcuni cambiamenti postconciliari il ritorno alle traduzioni precedenti - cosa che ha suscitato notevoli proteste tra il clero, il popolo dei fedeli e i teologi.

Non illudiamoci: questa decisione non renderà più facili i rapporti tra il papa e la curia da una parte, e le chiese locali dall’altra. In questo modo, né i ricordi di una solare visita papale in Germania, né quelli degli scampanii bavaresi al compleanno del papa o all’anniversario della sua elezione incideranno favorevolmente. In questo contesto, molti sono molto preoccupati di come potranno evolvere i rapporti tra la Fraternità Sacerdotale San Pio X di Lefebvre e la Congregazione per la Dottrina della Fede. Alcuni già temono il canto trionfante di coloro che già da tempo si permettevano toni di scherno, cantando “Andremo tutti tutti tutti in paradiso, perché siamo tanto bravi...”
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 30/4/2012 17.35
Titolo:COME DA MESSALE di SAN PIO V (non di Paolo VI e non Ambrosiano)!
Messale di San Pio V:

(...) Hic est enim calix sanguinis mei, novi et aeterni testamenti: mysterium fidei: qui pro vobis et pro multis effundetur in remissionem peccatorum. Haec quotiescúmque fecéritis, in mei memóriam faciétis.
- (Questo infatti è il calice del mio sangue, del nuovo ed eterno testamento: Mistero della fede: che per voi e per molti sarà sparso in remissione dei peccati. Tutte le volte che farete questo, lo farete in memoria di me)


Messale di Paolo VI

(...) Prendete e bevetene tutti: questo è il calice del mio sangue, per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati. Fate questo in memoria di me.


Messale ambrosiano

(....) Prendete e bevetene tutti: questo è il calice del mio sangue per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati. Diede loro anche questo comando: ogni volta che farete questo lo farete in memoria di me: predicherete la mia morte, annunzierete la mia risurrezione, attenderete con fiducia il mio ritorno finché di nuovo verrò a voi dal cielo.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 01/5/2012 09.48
Titolo:"IN PERSONA CHRISTI": MA QUALE CRISTO?! Una analisi della teologa Lilia Sebast...
Donne e ministeri da segno dei tempi a indice di autenticità

di Lilia Sebastiani

in “Viandanti” (www.viandanti.org) del 10 marzo 2012

Nell’enciclica ‘conciliare’ Pacem in terris di Giovanni XXIII (1963) al n.22 l’ingresso crescente delle donne nella vita pubblica veniva annoverato tra i segni dei tempi, insieme alla crescita delle classi lavoratrici (n.21) e alla fine del colonialismo (n.23).

Ricordare l’enciclica è doveroso, per il valore storico di questo semplice e cauto riconoscimento: infatti è la prima volta che un documento magisteriale rileva la cosiddetta promozione della donna senza deplorarla - anzi come un fatto positivo. I segni dei tempi sono ancora al centro della nostra attenzione, ma per quanto riguarda le donne la questione cruciale e non ignorabile è ormai quella del loro accesso al ministero nella Chiesa, a tutti i ministeri.

Venerande esclusioni

Certo il problema dei ministeri non è l’unico connesso con lo status della donna nella Chiesa, ma senza dubbio è fondamentale; guardando al futuro, è decisivo. Non solo e non tanto in se stesso, ma per la sua natura di segno.

In questo momento nella Chiesa la donna è ancora esclusa dai ministeri ecclesialmente riconosciuti: non solo da quelli ordinati (l’Ordine sacro, cioè, nei suoi tre gradi: episcopato, presbiterato, diaconato) ma anche da quelli istituiti, il lettorato e l’accolitato. Questi ultimi, chiamati un tempo “ordini minori” e considerati solo tappe di passaggio obbligatorie per accedere all’ordinazione, furono reintrodotti nel 1972 da Paolo VI (Ministeria quaedam) come “ministeri istituiti” - per distinguerli da quelli ordinati, mantenendo però l’elemento della stabilità e del riconoscimento ecclesiale - e furono aperti anche a laici non incamminati verso l’Ordine; tuttavia si specificava chiaramente che tali ministeri erano riservati agli uomini, “secondo la veneranda tradizione della chiesa latina”.

Un po’ più recente l’istituzione dei “ministri straordinari dell’Eucaristia”: con prerogative non molto diverse da quelle degli accoliti, questi possono essere anche donne. E di fatto sono più spesso donne che uomini. Un passo avanti, forse? Certo però la dichiarata ‘straordinarietà’ sembra messa lì a ricordare che si tratta di un’eccezione, di una supplenza..., di qualcosa che normalmente non dovrebbe esserci.

A parte i servizi non liturgici ma fondamentali, come la catechesi dei fanciulli, quasi interamente femminile, e le varie attività organizzative e caritative della parrocchia, le letture nella Messa vengono proclamate più spesso da donne che da uomini; ma si tratta sempre e comunque di un ministero di fatto, che in teoria sarebbe da autorizzare caso per caso, anche se poi, di solito, l’autorizzazione viene presunta.

Il Concilio e l’incompiuta apertura

Il problema dell’accesso femminile ai ministeri è diventato di attualità nella Chiesa nell’immediato post-concilio, nel fervore di dibattito che caratterizzò quell’epoca feconda e rimpianta della storia della Chiesa. Il Vaticano II aveva mostrato una notevole apertura sulle questioni che maggiormente sembravano concernere il problema della donna in generale e della donna nella Chiesa in particolare. Sulle questioni più specifiche e sul problema dei ministeri i documenti conciliari erano generici fino alla reticenza, ma senza chiusure di principio. Ciò autorizzava a sperare nel superamento, non proprio immediato ma neppure troppo lontano, di certe innegabili contraddizioni che persistevano sul piano disciplinare. Inoltre altre chiese cristiane avevano cominciato da qualche anno, certo non senza resistenze anche aspre, a riconsiderare e a superare gradualmente il problema dell’esclusione (a nostra conoscenza, la chiesa luterana svedese fu la prima ad ammettere donne al pastorato, nel 1958).

Una chiusura fragile

Nel decennio che seguì il Concilio, il dibattito in proposito fu intenso. La Chiesa ufficiale mantenne però una posizione di cautela e di sostanziale chiusura sempre più netta, che culminò - volendo chiudere la questione una volta per sempre - nella dichiarazione vaticana Inter insigniores, che è della fine del 1976, ma resa pubblica nel 1977.

In questo documento l’esclusione delle donne dal ministero ordinato veniva ribadita con caratteri di definitività vagamente ‘infallibilista’, ma anche con un significativo mutamento di argomentazione, che ci sembra importante poiché dimostra che l’esclusione è un fatto storico-sociologico in divenire e non un fatto teologico-sacramentale.

Non si dice più, come affermava Tommaso d’Aquino, che la donna è per natura inferiore all’uomo e quindi esclusa per volere divino da ogni funzione implicante autorità; si richiama invece l’ininterrotta tradizione della Chiesa (che è evidente, ma è anche evidentissimo portato della storia e delle culture) e soprattutto la maschilità dell’uomo Gesù di Nazaret, da cui deriverebbe la congruenza simbolica della maschilità del prete che, presiedendo l’assemblea, agisce in persona Christi. Quest’ultimo argomento fragile e sconveniente è stato lasciato cadere, infatti, nei pronunciamenti successivi: questi si rifanno solo alla tradizione della Chiesa e a quella che viene indicata come l’esplicita volontà di Gesù manifestata dalla sua prassi.

Anche questo argomento non funziona. Gesù, che non mostra alcun interesse di tipo ‘istituzionale’, alle donne accorda, con naturalezza, una piena parità nel gruppo dei suoi seguaci. Sembra insieme scorretto e pleonastico dire che “non ha ordinato nessuna donna”, dal momento che, semplicemente, non ha ordinato nessuno. Non vi è sacerdozio nella sua comunità, ma servizio e testimonianza, diakonìa non formalizzata - eppure rispondente a una chiamata precisa - che, prima di essere attività, è opzione fondamentale, stile di vita, sull’esempio di Gesù stesso “venuto per servire”.

Nel Nuovo Testamento di sacerdozio si può parlare solo in riferimento al sacerdozio universale dei fedeli (cfr 1 Pt 2,9; Ap 1,6), negli ultimi decenni tanto rispettato a parole quanto sfuggente e ininfluente nel concreto del vissuto ecclesiale; oppure in riferimento all’unico sacerdote della Nuova Alleanza - sacerdote nel senso di mediatore fra Dio e gli esseri umani -, Gesù di Nazaret (cfr Ebr 9), il quale nella società religiosa era un laico, oltretutto in rapporti abbastanza conflittuali con il sacerdozio del suo tempo.

Un’esclusione che interpella tutti

Vi sono due fatti, molto modesti ma significativi, che aiutano a tenere viva la speranza. Il primo, che i pronunciamenti dell’autorità ecclesiastica volti a chiudere ‘definitivamente’ la questione sono diventati abbastanza ricorrenti, il che dimostra che non è poi tanto facile chiuderla. Il dibattito è aperto e procede. Il secondo, che l’argomentazione teologica sembra cambiata ancora: felicemente sepolto l’infelicissimo argomento della coerenza simbolica, già pilastro dell’Inter insigniores, si richiama solo la prassi ininterrotta della chiesa romana e sempre più spesso si sente riconoscere, anche dalle voci più autorevoli, che contro l’ordinazione delle donne non ci si può appellare a ragioni biblico-teologiche.

No, non si tratta di banali rivendicazioni. L’esclusione interpella tutti: nessuna/nessun credente adulto può disinteressarsi di questo problema chiave finché le donne nella chiesa non avranno di fatto le stesse possibilità degli uomini, la stessa dignità di rappresentanza.

E’ necessario ricordare che vi sono donne cattoliche di alto valore e seriamente impegnate - tra loro anche alcune teologhe - che a una domanda precisa sul problema dei ministeri istituiti rispondono o risponderebbero più o meno così: no grazie, il sacerdozio così com’è proprio non ci interessa. E’ un atteggiamento che merita rispetto: almeno in quanto manifesta il timore che insistere troppo sul tema dell’ordinazione induca ad accentuare l’importanza dei ministri ordinati nella Chiesa (mentre sarebbe urgente semmai ridurre quell’importanza, insomma ‘declericalizzare’).

Ma dobbiamo ricordare che il “sacerdozio così com’è”, nella storia e nella mentalità corrente, si fonda proprio sulla ‘separazione’, sullo spirito di casta, sul sospetto previo e sul rifiuto nei confronti della donna, che nella chiesa di Roma si esprime in una doppia modalità: l’esclusione delle donne dalle funzioni di culto, di governo e di magistero, è parallela all’obbligo istituzionale di essere “senza donna” per coloro che le esercitano. Il divieto per le donne di essere ministri ordinati el’obbligo per i ministri ordinati di restare celibi sembrano due problemi ben distinti, mentre sono congiunti alla radice. E ormai sappiamo che potranno giungere a soluzione solo insieme.

Segno dei tempi, certo. Segno di trasformazione, segno contraddittorio, segno incompleto, proprio come il tempo in cui viviamo. Per quanto riguarda la chiesa cattolica, però, non solo segno, ma indice di autenticità. Non temiamo di dire che sulla questione dei ministeri, che solo a uno sguardo superficiale o ideologico può apparire circoscritta, si gioca il futuro della chiesa.

Lilia Sebastiani

Teologa
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 04/5/2012 19.56
Titolo:AD AREZZO, CONTESTAZIONI CONTRO IL CAROPAPA E IL CAROMONTI ....
Monti e Papa ad Arezzo : contestazioni in arrivo.

Il Pontefice Ratzinger e il Premier Monti si troveranno ad Arezzo per una visita formale.

di Franca Corradini *

Ad Arezzo il 13 Maggio 2012 ci sarà un SIT IN dalle 9 alle 21 in Piazza Zucchi. CONTRO..... il Caropapa e il Caromonti.

Per questa visita si stima (a parere di chi scrive in difetto.. ) un costo totale di :500.000 Euro dei cittadini italiani,di cui 120.000 dei cittadini della Regione Toscana e 90.000 dei cittadini di Arezzo. Un gruppo di cittadini si sta organizzando raccogliendo adesioni attraverso un appello di cui riportiamo una parte : "...siamo cittadini delle città di Arezzo e Firenze, studenti e lavoratori. Apprendiamo da poco tempo che il Pontefice Ratzinger e il Premier Monti si troveranno ad Arezzo per visite formali il 13 maggio p.v. Chiediamo la vostra partecipazione all’organizzazione di un presidio unitario di protesta contro le loro politiche e per una società più laica, giusta, civile e vivibile e per dimostrare che esiste un’Arezzo, una Toscana molto diversa da quanto vogliono farci credere che sia....".

In tempo di crisi economica questo spreco di denaro pubblico pare un’insulto ai giovani e non disoccupati, ai precari, ai tanti cassaintegrati che popolano la cittadina toscana.

* A SCUOLA DI BUGIE. Viaggio tra gli errori e gli orrori della scuola italiana, 3 maggio 2012

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Dottrina della fede secondo Ratzinger

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