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www.ildialogo.org IL LAVORO, L'ART. 18, E LE ASTUZIE DEI FARAONI DI OGGI. MONS. BREGANTINI RILANCIA CORAGGIOSAMENTE LA LEZIONE DI KAROL WOJTYLA E SOLLECITA I VESCOVI A PARLAR CHIARO ED EVANGELICAMENTE. Un'omelia di Giovanni Paolo II del 1995 e una nota di Roberto Monteforte,a c. di Federico La Sala

MEMORIA DELLA LIBERAZIONE: INDIETRO NON SI TORNA. PER UNA NUOVA TEOLOGIA E PER UNA NUOVA CHIESA, RESTITUIRE L'ANELLO DEL PESCATORE A SAN GIUSEPPE!!!
IL LAVORO, L'ART. 18, E LE ASTUZIE DEI FARAONI DI OGGI. MONS. BREGANTINI RILANCIA CORAGGIOSAMENTE LA LEZIONE DI KAROL WOJTYLA E SOLLECITA I VESCOVI A PARLAR CHIARO ED EVANGELICAMENTE. Un'omelia di Giovanni Paolo II del 1995 e una nota di Roberto Monteforte

«Il lavoratore è persona o merce?». «Non lo si può trattare - scandisce - come un prodotto da dismettere, da eliminare per motivi di bilancio, perché resta invenduto». Poi osserva come in politica l’aspetto tecnico stia diventando prevalente su quello etico. Come sia eccessiva la «sintonia» tra profitto e aspetto tecnico.


a c. di Federico La Sala

NOTE SUL TEMA:

PER UNA NUOVA TEOLOGIA E PER UNA NUOVA CHIESA. L’INDICAZIONE DI GIOVANNI XXIII E DI GIOVANNI PAOLO II: LA RESTITUZIONE DELL’ANELLO DEL PESCATORE A GIUSEPPE.  Il loro successore ha il cuore di pietra e se lo tiene ben stretto.  Per lui Dio è Valore e tutto ha un caro-prezzo ("Deus caritas est")!!!

LA GRAZIA DEL DIO DI GESU’ E’ "BENE COMUNE" DELL’INTERA UMANITA’, MA IL VATICANO LA GESTISCE COME SE FOSSE UNA SUA PROPRIETA’. Bruno Forte fa una ’predica’ ai politici, ma non ancora a se stesso e ai suoi colleghi della gerarchia. Una sua nota, con appunti

VIVA L’ITALIA. LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. (federico la sala)

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Omelia di Giovanni Paolo II

Festa di San Giuseppe - Castelpetroso (Campobasso)
 Domenica, 19 marzo 1995 *

(...) La Chiesa considera suo precipuo dovere annunziare il “vangelo del lavoro”, che costituisce un aspetto essenziale della sua dottrina sulla giustizia sociale. E qui possiamo ritornare al Libro dell’Esodo ed alla missione liberatrice affidata da Dio a Mosè. Si tratta infatti di una liberazione anche in senso sociale. L’ingiustizia che i figli e le figlie di Israele sperimentano consiste nello sfruttamento del loro lavoro, anche allo scopo di distoglierli dalla vita familiare e dal servizio di Dio. Il faraone ritiene che in questo modo cesseranno di essere pericolosi per l’Egitto.

La strategia del faraone, di assoggettare mediante il lavoro, costituisce un significativo paradigma, entro il quale Mosè rappresenta quanti nel corso della storia non cessano di intraprendere la lotta per la giustizia sociale. Questa consiste per un aspetto essenziale nel riconoscimento della giusta dignità del lavoro umano e in un’equa remunerazione, grazie alla quale il lavoratore possa mantenersi insieme con la propria famiglia. D’altra parte, essa richiede anche adeguati interventi a favore di coloro che, pur non volendolo, si trovano nella precaria e avvilente situazione di disoccupati.

Il lavoro deve contribuire allo sviluppo dell’uomo e non al soffocamento servile della sua dignità. Questo è il postulato fondamentale del “vangelo del lavoro”. Gesù, impegnato accanto a Giuseppe al banco di lavoro, proclama questo vangelo mediante la sua stessa vita nascosta a Nazaret. La dottrina sociale cristiana e tutte le Encicliche sociali, cominciando dalla Rerum Novarum, rappresentano la manifestazione di tale “Sollicitudo rei socialis”, di quella sollecitudine per la giustizia sociale, che la Chiesa non si stanca di promuovere e di attuare annunziando il Vangelo dell’Alleanza di Dio con l’uomo. E questa tematica deve essere sempre riproposta nella giornata festiva di San Giuseppe. Questo umile carpentiere di Nazaret, accanto a Gesù di Nazaret, rappresenta anche la problematica della giustizia sociale per tutti noi, per il mondo del lavoro e per la Chiesa.

6. Carissimi, da questo Santuario, espressione della fede di un popolo laborioso e tenace, affido alla Madre Addolorata le attese e le speranze dell’odierna società, in particolare le attese del mondo del lavoro. Colei che al Calvario è stata unita al Sacrificio redentore di Cristo, ottenga ai suoi figli di essere sempre fedeli al Dio dell’Alleanza. Ottenga di portare frutti abbondanti di giustizia e di pace, mangiando “lo stesso cibo spirituale” e bevendo “la stessa bevanda spirituale” di cui ci parla la liturgia di oggi.

I nostri Padri - ricorda san Paolo - bevevano “da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era Cristo” (1 Cor 10, 4). Cristo resta la roccia alle cui acque beviamo anche noi.

Amen!

* ARCIDIOCESI CAMPOBASSO-BOIANO, 19 MARZO 2012

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I vescovi: l’uomo non è una merce

Soluzioni condivise

di Roberto Monteforte (l’Unità, 23 marzo 2012)

Non è lo scontro che serve al Paese. Soprattutto in questa fase. Chi può essere così sicuro che con la riforma dell’articolo 18 si risolva il problema della precarietà? Non ci si rende conto di quanto sia grave lo strappo con la Cgil, il maggiore sindacato italiano? E poi il lavoratore «non è una merce da eliminare per questioni di bilancio», ma una persona e come tale da rispettare.

Sono critiche di fondo quelle che monsignor Giancarlo Bregantini, arcivescovo di Campobasso- Bojano, presidente della commissione lavoro alla Cei e con un passato in fabbrica, muove al governo Monti. In un’intervista a Famiglia Cristiana esprime con chiarezza tutte le sue preoccupazioni per gli effetti concreti della riforma Monti-Fornero e soprattutto per la scarsa attenzione data alla dignità dell’uomo. «Con questa riforma la precarietà sarà vinta? O addirittura aumenterà?», si domanda. Parla a titolo personale il responsabile Cei per il lavoro e le questioni sociali, a pochi giorni dall’apertura del Consiglio Permanente dei vescovi.

Ma dopo che le agenzie hanno lanciato la sua intervista, anche la Cei prende ufficialmente posizione con il suo portavoce, monsignor Domenico Pompili. «La situazione del mondo del lavoro afferma Pompili - costituisce un assillo costante dei vescovi. La dignità della persona passa per il lavoro riconosciuto nella sua valenza sociale». «La Conferenza episcopale italiana - conclude - segue con attenzione le trattative in corso, confidando nel contributo responsabile di tutte le parti in campo, al fine di raggiungere una soluzione, la più ampiamente condivisa». Così la posizione di Bregantini trova copertura.

Le sue sono le preoccupazioni della Chiesa che è in prima linea nel fronteggiare la crisi economica e sociale. «I licenziamenti economici - afferma il vescovo - rischiano di generare un clima di paura in tutto il Paese». Teme che nelle aziende e nelle famiglie monti «un’ondata di terrore» per paura di vedersi licenziati per motivazioni economiche o organizzative. E aggiunge: «Una siepe protettiva sui licenziamenti economici bisognava metterla». Da qui il suo appello rivolto soprattutto ai politici perché «si possa creare una rete di diritti e di protezioni più solida».

Invoca coesione. Lasciare fuori la Cgil per questo lo giudica «un grave errore», come pure considerare questo una cosa «data quasi per scontata», come se non fosse «una cosa preziosa» per la riforma del lavoro avere il consenso del primo sindacato italiano. Va tenuto conto, infatti, che «dietro questa fetta di sindacato vi è tutto un mondo importante, cruciale da coinvolgere per camminare verso il futuro». L’altra critica è ai tempi stretti imposti per una riforma di questa portata e quel perentorio «la partita è chiusa» del premier Monti, mentre sarebbe stato necessario aprire il dialogo in Parlamento, nei luoghi di lavoro e nel Paese.

Ma è un tema etico di fondo quello che Bregantini pone di fronte ai licenziamenti «chiamati elegantemente, “flessibilità in uscita”». «Il lavoratore è persona o merce?». «Non lo si può trattare - scandisce - come un prodotto da dismettere, da eliminare per motivi di bilancio, perché resta invenduto». Poi osserva come in politica l’aspetto tecnico stia diventando prevalente su quello etico. Come sia eccessiva la «sintonia» tra profitto e aspetto tecnico.

Un promemoria della Chiesa per il premier Monti e il ministro Fornero e per tutti i cattolici impegnati in politica. Lo rilanciano in molti, da Rosy Bindi a Leonluca Orlando, che chiedono al governo di ascoltare la Cei.

 

 

 



Sabato 24 Marzo,2012 Ore: 06:51
 
 
Commenti

Gli ultimi messaggi sono posti alla fine

Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 24/3/2012 07.04
Titolo:l’art. 18 nel sistema del diritto del lavoro equivale al principio di uguaglianz...
Carlo Smuraglia: «Il reintegro è come l’uguaglianza nella Costituzione»

di Andrea Fabozzi (il manifesto, 22 marzo 2012)

Senatore, componente del Csm oggi presidente dell’Anpi, Smuraglia è autore di numerose opere sul diritto del lavoro. Memoria storica fondamentale per il paese, avverte: "Stiamo tornando indietro"

Partigiano combattente, professore all’Università di Milano, presidente della regione Lombardia, senatore, componente del Csm e oggi presidente nazionale dell’Anpi, Carlo Smuraglia, classe 1923, è soprattutto un maestro del diritto del lavoro. Fondamentale il suo commento allo Statuto dei lavoratori del 1970.

Professore, gli entusiasti di questa annunciata riforma del mercato del lavoro parlano di «fine di un’epoca», l’epoca cioè del «consociativismo». Siamo davvero a un passaggio storico?

Si può parlare di fine di un’epoca ma solo nel senso che si torna indietro. Cancellando a cuor leggero un principio per il quale si è combattuto per anni, e con ragione. L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è il frutto di una stagione di lotte, ma anche del fallimento della legge sul licenziamenti del luglio 1966. In quella legge si prevedeva, appunto, che anche nel caso di licenziamento ingiustificato riconosciuto come tale dal giudice, il lavoratore aveva diritto esclusivamente al risarcimento economico. La grande novità dell’articolo 18 fu il diritto al reintegro. Oggi torniamo al ’66.

Quanto fu difficile l’introduzione del principio dell’articolo 18 nello Statuto dei lavoratori?

Ci fu una discussione accesa in parlamento e ci furono forti pressioni contrarie degli industriali, ma fu soprattutto alla luce dell’esperienza precedente che alla fine il ministro Brodolini accettò il principio.

Ma lo Statuto fu votato da socialisti e democristiani, il Pci e il Psiup si astennero.

Le loro obiezioni erano sulla seconda parte dello Statuto, quella che riguardava la rappresentanza sindacale. Non sul reintegro per il quale si può dire che non ci fossero più dubbi addirittura dagli anni Cinquanta, dal dibattito seguito al famoso licenziamento per motivi politici del dirigente Fiat Battista Santhià. Ci fu un importante convegno nel 1955 in cui molti giuslavoristi introdussero il tema del reintegro e poi la legge del ’66 e infine lo Statuto. Ci vollero degli anni e molti scioperi, tornare indietro rispetto a tutto questo significa non capire cosa vuol dire riconsegnare al datore di lavoro la possibilità di licenziare a propria discrezione.

Ma la riforma Fornero prevede ancora il reintegro per il licenziamento discriminatorio.

Mancherebbe, su quello non ci può essere alcun dubbio. Il licenziamento discriminatorio è un atto nullo per un principio giuridico che non dipende neanche dallo Statuto dei lavoratori, ed è evidente che di fronte a un atto nullo resta in vigore la situazione precedente. Naturalmente la riforma di cui parliamo non dice che il datore di lavoro potrà licenziare a suo piacimento, ma temo che gli effetti saranno questi.

Anche nel caso di licenziamento per motivi economici?

Siamo franchi, quando ci sono delle ragioni economiche reali, una crisi aziendale, si tratta sempre di circostanze oggettive. Ma se il datore di lavoro non riesce a provarle e il giudice stabilisce che il licenziamento è infondato, perché mai non si dovrebbe ripristinare il rapporto di lavoro? Torniamo appunto a prima del ’66: sarà possibile liberarsi di un lavoratore pagando. L’imprenditore deciderà solo sulla base dei suoi costi e dei suoi benefici. E dovremmo aggiungere un altro problema.

Quale?

In molti casi persino il diritto al reintegro nel posto di lavoro si è dimostrato insufficiente, per cui più che smantellarlo si sarebbe dovuto renderlo effettivo. Pensi alla vicenda dei lavoratori Fiat a Melfi che l’azienda si è rifiutata di far tornare al loro posto e capirà come ancora oggi il principio trovi difficoltà di applicazione.

Chi parla della fine di un’epoca lo fa anche con riferimento alla mancata concertazione, anche questo è un passaggio epocale?

Mi sorprende che tutti quelli che in questi anni hanno riconosciuto la convenienza della concertazione adesso si rallegrino che sia stata stracciata. Secondo me si tratta di un errore di valutazione, soprattutto da parte del governo che non ricaverà nulla di positivo da questa scelta di rottura. Per venire incontro alle indicazioni di una parte molto liberista dell’Europa, rinuncia alla pace sociale.

La Cgil pagherà l’isolamento?

Dieci anni fa hanno riempito la piazza sull’articolo 18, è impossibile che i lavoratori abbiano cambiato idea. È vero che siamo in crisi ma i principi valgono anche in tempo di crisi. Cominciare a smantellarli è pericoloso perché non si sa mai dove si finisce. È un discorso analogo a quello che si fa sulla Costituzione. Si può cambiare, ma non si può nemmeno immaginare di toccare i principi fondamentali. E l’articolo 18 nel sistema del diritto del lavoro equivale al principio di uguaglianza nella Costituzione.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 24/3/2012 07.10
Titolo:L'ERRORE DI MONTI. Il lavoro va al di là dei suoi indicatori economici ...
Ma il consenso è un valore anche in Europa

di Gian Enrico Rusconi (La Stampa, 23.03.2012)

Il governo Monti sta commettendo il suo primo serio errore? Certamente ha toccato il punto nevralgico della sua doppia natura «tecnica» e «politica», su cui si è equivocato sino ad oggi.

Dopo l’efficace colpo di mano sulle pensioni giocato tutto sul panico-spread, dopo la deludente debole azione sulle liberalizzazioni, la coppia Monti-Fornero (con il silenzio un po’ strano degli altri presunti membri «forti» del governo) ha tentato la mossa energica della riforma del mercato del lavoro, senza rendersi conto che la posta in gioco è mutata rispetto alle altre iniziative. Non perché i sindacati siano soggetti sociali privilegiati o diversi rispetto agli altri, ma perché l’oggetto della mediazione è di natura diversa. Nella nostra società il concetto stesso di lavoro ha - giustamente - acquistato un significato che va al di là dei suoi indicatori economici.

Da qui l’ambiguità dell’espressione «liberalizzazione del mercato del lavoro», così come viene disinvoltamente recitata nei talk-show. C’è chi la ripete meccanicamente, considerandola la soluzione di tutti i mali sociali, economici e fiscali del paese, confondendola di fatto volentieri con la libertà di licenziamento - come se questa fosse la chiave della crescita. Naturalmente giura che non è vero. Ma è un fatto che da giorni il discorso gira e si incaglia sulle motivazioni e sulle tipologie del licenziamento. Chi diffida di questa impostazione del problema o comunque ne vede i gravi limiti e pericoli si espone al sospetto di essere un veterocomunista.

Nel frattempo tutta la polemica si è sedimentata attorno all’art. 18 e alla sua modifica. E’ giusto ricordare che le iniziative del governo Monti sono molto più ampie e innovative rispetto alle proposte di riforma dell’articolo incriminato. Ma se questo articolo ha acquistato di fatto - piaccia o no - un valore simbolico tanto forte, ci deve essere un motivo. Se si cerca di andare al fondo dei termini della polemica, si ha l’impressione di trovarci talvolta di fronte ad un processo alle intenzioni. Questa non è un’osservazione banale: è messa in gioco la fiducia reciproca tra governo e parti sociali. Si tocca la sostanza del consenso democratico. E’ un fatto politico.

Siamo così al punto nevralgico di questo «strano» governo, tra competenza tecnica e legittimità politica. Mario Monti - per quanto sappiamo sino a questo momento - ha dichiarato che presenterà le sue proposte al Parlamento corredate con un verbale ufficiale in cui sono illustrati i risultati dei contatti avuti nelle settimane scorse con le parti sociali. Non è ancora chiaro invece quale procedura di approvazione sarà adottata. E’ una singolare novità. Soprattutto perché è accompagnata da alcune forti dichiarazioni sulla «fine concertazione». Confesso che non mi è chiaro il senso di questa insistenza. Il comportamento del governo è del tutto legittimo, data la sua natura particolare, senza bisogno che ricorra ad una enfatica presa di distanza dalla concertazione come se fosse sinonimo di cattivo consociativismo o di inciucio politico-sociale.

Non insisto su questo equivoco, salvo far osservare ai tanti tedescofili improvvisati che spuntano ora nel nostro Paese (anche a proposito dell’art. 18) che la concertazione è stato uno dei fondamenti del sistema tedesco che continua a vivere di una cultura e istituzionalizzazione del consenso sociale inconcepibile per la nostra cultura politica. Non si può scegliere dal «modello tedesco» quello che più fa comodo ignorando tutto il resto.

Ma torniamo nel nostro Parlamento che dovrà affrontare anch’esso la sua prima prova seria da quando ha dato il suo sostegno al governo Monti. Il presidente del Consiglio guarda all’Europa - continua a ripeterlo, giustamente soddisfatto dello straordinario guadagno di immagine e di fiducia raggiunto in breve tempo dal nostro Paese. Ma qual è esattamente «l’Europa» a cui si riferisce Monti? La Banca centrale europea, alcuni membri della Commissione europea, la cancelliera Merkel, soddisfatta dei «compiti a casa» fatti sinora dagli italiani? E’ tempo che Monti argomenti meglio la dimensione europea della sua azione di governo, senza riferirsi esclusivamente agli indicatori di mercato, alle Borse o ad altri dati del cui valore relativo lui stesso è ben consapevole.

Mi auguro che Monti, consegnando al Parlamento il suo piano di riforma del lavoro, non affermi che soltanto esso - così come è scritto - ci metterebbe in sintonia con «l’Europa», con il sottinteso che la sua bocciatura ci allontanerebbe dall’Europa stessa. Non è così. Ricordo molto bene che in una dichiarazione delle prime settimane, Monti stesso ha detto che i sacrifici che gli italiani si stavano preparando a sostenere non erano un «diktat» dell’Europa (o della sua banca), ma una necessità oggettiva che rispondeva agli interessi di tutti gli italiani. E questi il loro consenso, sofferto, lo hanno dato. Oggi la problematica del mercato del lavoro è più complicata, ma il criterio dovrebbe essere lo stesso. Non si tratta di mirare ad un accordo «consociativo» che i severi «tecnici» disapprovano. Ma di ricercare una intesa ragionevole accogliendo obiezioni ragionevoli. Suppongo che anche «i tecnici» sappiano quale risorsa straordinaria e insostituibile per l’efficienza del sistema lavorativo sia il consenso sociale.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 24/3/2012 18.51
Titolo:Woityla santo subito? No! I retroscena ....
Woityla santo subito: i retroscena *

“Santo subito!” chiedevano i fedeli all’indomani della morte di Giovanni Paolo II, avvenuta il 2 Aprile del 2005. Il successore Benedetto XVI sembrò subito convinto nella volontà di rendere santo Karol Woityla, uno dei pontefici storicamente più importanti e per certi versi rivoluzionari del mondo cattolico, e in effetti il 1° Maggio del 2011, dinanzi ad una Piazza S. Pietro gremita fu sancita la beatificazione di Giovanni Paolo II in tempi record. Infatti, non era mai accaduto prima che, ad appena sei anni dalla scomparsa, un pontefice fosse beatificato.

Negli ultimi tempi però, la situazione sembra cambiata. In effetti, “rumors“ interni allo Stato della Chiesa parlano di una brusca frenata da parte di Ratzinger nel processo di canonizzazione in tempi brevi di "Karol il Grande“. Quali sarebbero le motivazioni di questo mutamento di rotta? Non ci sono voci ufficiali, ma nell’ambiente si parla di motivazioni politiche. Il problema sarebbe nella persona di Stanislaw Dziwisz. Questi è stato il segretario particolare di Woityla per quarant’anni, ma soprattutto uno degli uomini più fidati del pontefice, soprattutto nel periodo della malattia quando fu denominato “il Papa ombra“. Subito dopo l’avvento al soglio pontificio di Ratzinger, Dziwisz fu creato cardinale ed inviato a Cracovia come arcivescovo: sicuramente un atto meritorio verso un uomo che aveva dato tanto alla Santa Sede, ma forse anche un’azione strategica per allontanarlo dalle stanze del potere, vista l’importanza che aveva assunto all’interno dell’ambiente del Vaticano. In Polonia Dziwisz viene considerato l’erede diretto di Giovanni Paolo II e la sua figura carismatica è molto popolare e amata dai fedeli e, di conseguenza, una canonizzazione veloce di Woityla, fortemente caldeggiata dall’Arcivescovo, non farebbe altro che accrescerne la popolarità in Polonia, ma anche altrove. Qui sarebbe il nocciolo della questione: a Roma non sarebbe visto di buon occhio un rafforzamento ulteriore dell’Arcivescovo di Cracovia, che finirebbe anche per ridare slancio al gruppo della “polacchità“, costituito da sacerdoti, suore e religiosi provenienti dalla Polonia, cresciuto durante il pontificato di Woityla, e che ora si trova un po’ in minoranza rispetto alle scelte del pontefice tedesco.

Infine, un’altra prova della “freddezza” che al momento esiste tra il Vaticano e l’ambiente polacco, sta nell’attività di Radio Maryja. Questa è un’emittente fondata negli anni ’80 da padre Tadeusz Rydzyk, che si è sempre mossa ai limiti dei princìpi cattolici, sfociando spesso nell’antisemitismo e in posizioni antigovernative. L’Arcivescovo Dziwisz ha fermamente condannato l’attività di quest’emittente, mentre il Vaticano ha appoggiato la missione di Radio Maryja con una lettera scritta dal segretario di Stato, Tarcisio Bertone. Come finirà questo braccio di ferro? Ma soprattutto: quando avverrà e in quali termini avverrà la canonizzazione di Karol Woityla?

Francesco Matino

* SETTIMOPOTERE, 23.03.2012
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 25/3/2012 23.38
Titolo:"EL MUNDO". LAVORO ABUSIVO E SENZA CONTRATTO CON L'OPUS DEI ....
LAVORO ABUSIVO E SENZA CONTRATTO CON L'OPUS DEI

di Emanuela Provera - 25 Marzo 2012 *

"El Mundo" racconta le storia di sei donne che hanno denunciato l'Opera per violazione delle norme in materia di regolarizzazione dei rapporti di lavoro




Nei mesi scorsi ho ripercorso la storia di aderenti all'Opus dei che dopo esserne usciti hanno raccontato casi di abuso o sfruttamento del lavoro; da cui si sono generate denuncie e procedimenti giudiziari a carico dell'istituzione.

Qualche settimana fa Antonio Rubio, vicedirettore del quotidiano El Mundo, ha raccolto le storie di sei donne che nei mesi scorsi hanno denunciato l'Opus Dei per violazione delle norme in materia di regolarizzazione dei rapporti di lavoro.

Gli esposti si riferiscono a lavoro abusivo, senza contratto e sono stati presentati da donne che entrarono nell'Opera da giovani e furono destinate a lavori interni di direzione dei Centri, amministrativi o domestici.

Le denunce forniscono dettagli su presunte violazioni commesse dalla prelatura tra gli anni '70 (settanta) fino ad oggi e sono state presentate agli Ispettorati del Lavoro di Madrid, Vitoria, Santander, Pontevedre e Siviglia, fra giugno e dicembre del 2011. Come normalmente succede in questi casi le donne preferiscono mantenere l'anonimato per timore di rappresaglie professionali o ritorsioni.


M.G.M entrò nell'Opus Dei a 14 anni e vi rimase per 20 anni con mansioni di cuoca e addetta ai lavori domestici "In nessuno dei luoghi dove ho lavorato ho ricevuto una retribuzione, poiché la dovevo dare interamente alla Prelatura".

A.P. che ha presentato denuncia in novembre, racconta di aver lavorato "in nero" per 14 anni in cambio solo di vitto e alloggio. "Ho contratto una malattia psichica e denuncio inoltre che le persone inferme psichicamente lavorano o non lavorano a seconda delle decisioni dei direttori dell'Opus Dei e non di quelle dei medici...".

C.R.P. riferisce di avere lavorato come impiegata amministrativa per 18 anni nelle residenze dell'"Opera" senza mai avere avuto un contratto di lavoro. Nell'esposto inviato all'Autorità Centrale degli Ispettorati del Lavoro punta il dito su presunte irregolarità che riguarderebbero anche le persone assunte: "E' normale che un'impiegata sia dichiarata per un numero di ore molto inferiori a quelle di lavoro effettivo e con mansioni più basse di quelle per le quali è stata assunta".

La quarta donna abbandonò l'istituzione nel 2010, dopo 40 anni nel corso dei quali ha prestato lavoro senza contratto in lavori amministrativi e domestici. Oltre ad aver contratto un'infermità psichica, attualmente si trova in stato di "incapacità al lavoro".

Un'altra, M.I.M., che aveva diretto centri e associazioni, ha presentato denuncia in giugno. Come risposta, l'Ispettorato del Lavoro l'ha invitata a rivolgersi ai Tribunali ordinari.

Infine l'ultima denuncia è quella di una donna che ha lavorato per l'istituzione 30 anni, nella cui vita lavorativa risultano soltanto 14 anni di contribuzione. Intervistato dal quotidiano spagnolo, un portavoce della prelatura dell'Opus Dei ha asserito di trovarsi senza possibilità di difesa perché le autorità competenti (ispettorati del lavoro) non avrebbero comunicato alcuna denuncia contro di loro. E conclude dichiarando che "l'Opus Dei ha sempre agito, agisce e agirà nel rispetto delle normative vigenti".


* Fonte:

http://www.cadoinpiedi.it/2012/03/25/lavoro_abusivo_e_senza_contratto_con_lopus_dei.html#anchor
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 30/3/2012 09.49
Titolo:CONTAGIO DI SUICIDI. La Spoon River della crisi ...
La Spoon River della crisi

di Adriano Sofri (la Repubblica, 30 marzo 2012)

Il lavoro rende davvero liberi, perdere il lavoro vuol dire perdere la libertà. Vi sarete accorti che il rogo fotografato a Bologna l’altro ieri somiglia a quello del giovane tibetano a Nuova Delhi del giorno prima. E i titoli, a poche pagine di distanza:Il trentesimo tibetano che si è dato fuoco nell’ultimo anno”, “Nel Veneto, già trenta suicidi di imprenditori”. Ieri un operaio edile di origine marocchina si è dato fuoco davanti al municipio di Verona, è stato soccorso in tempo, era "senza stipendio da quattro mesi".

L’altro ieri il piccolo imprenditore edile a Bologna, accanto alla sede delle Commissioni tributarie. Si può andare indietro e trovarne uno al giorno, operai disoccupati, artigiani, imprenditori. Sta diventando l’altra faccia dei bollettini delle morti cosiddette bianche. Caduti sul lavoro, caduti per il lavoro. Una Spoon River della crisi. Giuseppe C., il bolognese di 58 anni di cui hanno raccontato qui asciuttamente Michele Smargiassi e Luigi Spezia, la sua pagina se l ’è scritta da solo. "Caro amore, sono qui che piango. Stamattina sono uscito un po’ presto, ho avuto paura di svegliarti. Chiedo a tutti perdono". Parole pronte per una bella canzone di Lucio Battisti. L ’ha scritto anche al fisco: "Chiedo perdono anche a voi". Una frase terribile, ora che qualche disgraziato ha messo le sue bombe alle porte di Equitalia, e non si può più dire che "bisognerebbe metterci una bomba".

Imprenditori si impiccano, e curano di farlo nei loro capannoni, nel giorno festivo o fuori dall’orario di lavoro. La classe dirigente, le persone di cui ieri si pubblicano i "maxistipendi", le maxipersone di cui si pubblicano gli stipendi - saranno magari altrettanto commosse dell’umanità minuta per questo stillicidio di immolazioni disperate. Il fatto è che ai nostri giorni i poveri e gli impoveriti e soli che si danno fuoco hanno fatto tremare i potenti del mondo più di un esercito di forconi.

Questo contagio di suicidi è infatti un segno di resa e di solitudine, ma non solo. È una rivendicazione estrema di dignità. Fa ricordare, dopo una lunghissima parentesi, quella onorabilità borghese per la quale ci si vergognava di una rovina, anche la più onesta, e si scriveva una lettera di amore e di perdono alla famiglia. Affare di gente all’antica: con tangentopoli, i suicidi furono pochi e soprattutto "di rango", che li dettasse la protesta o la disperazione, mentre un’intera classe dirigente mostrava una pusillanimità incresciosa, ed è stata quella tempra a farla durare, passata la piena, e continuare come e più di prima, salvo non vergognarsene più e non correre più in presidenza a denunciare il cognato. Quella dignità all’antica sembra ritornata negli operai restati senza lavoro, negli imprenditori che si danno del tu coi propri dipendenti e se ne sentono responsabili, negli stranieri che avevano fatto il loro pezzo di salita e si vedono di colpo riprecipitati in fondo.

È questo, la crisi, per tanti: non sapere più come fare, e non rassegnarsi alla destituzione della propria personalità. Perdere il lavoro vuol dire perdere il proprio posto, fisso o no, nel mondo. E non è vero che lo si ceda al prossimo della fila, quel posto sgombrato. Si sono inventati, non so se prima la parola o il fatto, non so se più offensivo il fatto o la parola, gli esodati. Se non ci fossero sindacati e parti politiche e sollecitatori d’opinione a sostenerli, di quale loro gesto si potrebbe stupirsi? È ora, e non durerà a lungo, il tempo di non lasciarli soli: è già un tempo supplementare. Lo sciopero del 13 aprile è un intervento di protezione civile, una scelta fra la dignità solidale e la commiserazione. Le persone che si arrendono, fino al gesto estremo, sentono d’essere abbandonate, "da tutti".

Creditori che la pubblica amministrazione non paga. Imprenditori cui non mancano le commesse ma la fiducia delle banche. Gli uni e gli altri che finiscono in mano agli strozzini. I più grossi se la cavano meglio: hanno i più piccoli cui negare il dovuto. La vicinanza fra morti sul lavoro e morti per il lavoro non è solo simbolica. La crisi spinge a fare in fretta, a risparmiare sulla sicurezza. Costa 100 euro la macchinetta per misurare l’ossigeno nei siti confinati da ripulire, e però gli operai ci si calano lo stesso, i primi a lavorare, gli altri a soccorrerli, e gli uni e gli altri a soffocarci, dipendenti e padroncini. Si muore sotto vecchi trattori rovesciati senza protezione, nonostante leggi e circolari.

Ieri si dava la cifra di un migliaio di suicidi nell’ultimo anno per ragioni economiche legate alla crisi. E in questa situazione volete ancora parlare di articolo 18? Proprio così. Per dire questo, che non è un argomento tecnico, nemmeno di quella tecnica sindacale che ha un importante valore sociale. È un affare di libertà e di dignità delle persone. Delle persone minuscole, della loro libertà con la minuscola. Benvenuti gli appelli a liberarsi dagli ideologismi (una volta o l’altra bisognerà richiedersi che cosa intendiamo per ideologia). Benvenute le cifre che spiegano come siano rari i casi in cui si è applicato il reintegro previsto dall’articolo 18 (e allora perché ci tenete tanto?). Ci saranno pure di qua cuori con un debole per l’ideologia e menti renitenti alle nude cifre, ma le persone che lavorano sentono dire "libertà di licenziare" e pensano che voglia dire libertà di licenziare. Pensano che se i casi sono stati così rari, dev’essere stato anche grazie a quell’articolo 18. E che una volta che lo si sia tolto di mezzo, i casi diventeranno molto meno rari. Che trasferire sulle spalle dell’operaio l’onere di provare che il suo licenziamento "economico" sia pretestuoso, è l ’inversione della prova.

E soprattutto sentono che perdere il lavoro è come vedersi crollare il mondo addosso, a sé e alla propria casa. La rovina: e le 15 mensilità al posto del lavoro non ripagano la rovina, ma le aggiungono l’umiliazione. Sbagliano governi e parlamenti a fare come se questi fossero affari di preti, di pompieri e di assistenti sociali. Il movimento operaio è passato attraverso l’ideologia del lavoro e anche l’ideologia del non-lavoro. Non ci si dà fuoco da soli, chiedendo di lasciare in pace la propria donna, per un’ideologia. Lo si fa per una fede offesa, come i giovani tibetani, o per una destituzione di sé, come un padre di famiglia italiano di 58 anni.

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Dottrina della fede secondo Ratzinger

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