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www.ildialogo.org VERITA', VANITA', E "CHARITAS": LA CHIESA (E NON SOLO L'ITALIA) E' A UN BIVIO. Una nota del teologo e cardinale Bruno Forte, amico del Papa e della Confindustria (più che della Verità), su "Il Sole-24 Ore" di oggi - con alcuni appunti,a c. di Federico La Sala

"CONFIGURATI IN CRISTO"?! MA QUALE CRISTO?! QUELLO DELLA CHIESA DI SWEDENBORG?! SE UN PAPA TEOLOGO SCRIVE LA SUA PRIMA ENCICLICA, TITOLANDOLA "DEUS CARITAS EST" ("CHARITAS", SENZA "H"), E’ ORA CHE TORNI A CASA, DA "MARIA E GIUSEPPE", PER IMPARARE UN PO’ DI CRISTIANESIMO...
VERITA', VANITA', E "CHARITAS": LA CHIESA (E NON SOLO L'ITALIA) E' A UN BIVIO. Una nota del teologo e cardinale Bruno Forte, amico del Papa e della Confindustria (più che della Verità), su "Il Sole-24 Ore" di oggi - con alcuni appunti

Ciò che appare urgente per uscire dalla crisi è preferire alla logica di corte vedute della vanitas la logica della condivisione e del servizio. Averlo chiaramente presente è dovere di tutti, nella misura in cui ci stia a cuore una città futura che sia meno dissimile dalla città di Dio, voluta e sperata per il bene dell’intera famiglia umana: quella che Agostino ebbe l’audacia di proporre (...)


a c. di Federico La Sala

APPUNTI SUL TEMA:

LA GRAZIA DEL DIO DI GESU’ E’ "BENE COMUNE" DELL’INTERA UMANITA’, MA IL VATICANO LA GESTISCE COME SE FOSSE UNA SUA PROPRIETA’. Bruno Forte fa una ’predica’ ai politici, ma non ancora a se stesso e ai suoi colleghi della gerarchia. Una sua nota, con appunti

RATZINGER ’A SCUOLA’ DEL VISIONARIO SWEDENBORG. Una nota di Leonard Boff e una di Immanuel Kant

TUTTO A "CARO-PREZZO": QUESTO "IL VANGELO CHE ABBIAMO RICEVUTO". IL VANGELO DI RATZINGER, BERTONE, RUINI, BAGNASCO E DI TUTTI I VESCOVI.

"È significativo che l’espressione di Tertulliano: "Il cristiano è un altro Cristo", sia diventata: "Il prete è un altro Cristo"" (Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, 2010). (Federico La Sala)


L’Italia a un bivio tra verità e vanità

di Bruno Forte (Il sole 24 Ore, 11 marzo 2012)

Singolare attualità del passato: definirei così l’impressione che lascia la lettura del passo De Civitate Dei in cui Agostino, meditando sul tempo drammatico che gli fu dato di vivere, quello del tramonto dell’impero romano, stigmatizza le ragioni della crisi: esse non si trovano nell’impatto esterno dei barbari, elemento solo concomitante, aperto anzi alla potenzialità positiva di immettere linfa nuova nel sangue malato di una civiltà in sfacelo. La profonda causa del declino è per il Vescovo d’Ippona di carattere morale: si tratta dell’attitudine - avallata dai vertici e divenuta mentalità comune - a preferire la vanitas alla veritas, la vanità alla verità.

Le due logiche si oppongono: la vanità dà il primato all’apparenza, a quella maschera rassicurante, che copre interessi egoistici e prospettive di corto metraggio dietro proclamazioni altisonanti, misurando ogni cosa sul gradimento dei più. La verità fonda invece le scelte sui valori permanenti, sulla dignità di ogni persona umana davanti al suo destino, temporale ed eterno. Eppure, nel mondo «che va dissolvendosi e sprofonda» («tabescenti ac labenti mundo»), Agostino riconosce l’opera di Dio, che nel rispetto delle libertà va radunandosi una famiglia per farne la sua città eterna e gloriosa, fondata «non sul plauso della vanità, ma sul giudizio della verità» («non plausu vanitatis, sed iudicio veritatis»: II,18,3).

Lo straordinario affresco di "teologia della storia", tracciato dal Pastore teologo, mi pare di un’impressionante contemporaneità: all’orgia della frivolezza, che ha celebrato i miti del consumismo esasperato e dell’edonismo rampante, vanno opposte scelte fondate sulla verità e sul primato dei valori, a cui a nessuno è lecito sottrarsi. Vorrei provare a indicare queste scelte confrontando vanitas e veritas in alcuni campi decisivi.

In primo luogo, la crisi della politica davanti a cui ci troviamo, evidente nel fatto che per salvare l’Italia i politici hanno dovuto lasciare il campo ai tecnici: è una crisi frutto anche del modo di agire che ha separato l’autorità dall’effettiva autorevolezza dei comportamenti e la rappresentanza democratica dalla reale rappresentatività dei bisogni e degli interessi dei cittadini. Dove l’amministratore o il politico perseguono unicamente il proprio interesse, puntando sull’immagine e sulla produzione del consenso, lì trionfa la vanitas a scapito della veritas.

Il primato della verità esige una politica ispirata alla ricerca disinteressata del bene comune, capace di ascoltare e coinvolgere i cittadini come portatori di bisogni e di diritti, di proposte e di potenzialità, e perciò in grado di dire anche dei "no" per fare ciò che è giusto: l’ideale della cosiddetta "good governance" è inseparabile dalla tensione etica che anteponga al proprio il bene comune.

Sul piano dei modelli culturali e delle risorse spirituali la vanitas trionfa lì dove si privilegia l’effimero a ciò che non lo è, sradicando l’agire dalla memoria collettiva, di cui sono tracce le opere dell’arte e dell’ingegno e le tradizioni spirituali e religiose. Una comunità privata di memoria perde l’identità e rischia di essere esposta a strumentalizzazioni perverse: il trionfo della veritas consiste qui nel rispetto e nella promozione del patrimonio culturale, artistico, religioso della collettività, come base per il riconoscimento dei bisogni e delle priorità cui tendere.

Un’azione educativa capillare, sostenuta da un sistema efficiente di didattica e di ricerca scientifica, è condizione indispensabile per la conservazione dei beni culturali, religiosi e ambientali, e ha un impatto positivo sull’economia, che va calcolato sia sincronicamente in rapporto alla fruibilità dei beni stessi, sia diacronicamente, misurandone gli effetti benefici sui tempi lunghi e i risparmi connessi a una sana azione di tutela e di prevenzione. Ne consegue che una società che non investa su scuola e università, formazione e cultura, è destinata a implodere.

L’ambito dell’economia è parimenti luogo della contrapposizione fra vanitas e veritas: se alla prima s’ispira un’azione economica orientata al solo profitto e all’interesse privato, alla seconda punta un’economia attenta non solo alla massimizzazione dell’utile, ma anche alla partecipazione di tutti ai beni, al rafforzamento dello stato sociale, alla promozione dei giovani, delle donne, degli anziani, delle minoranze. Un’economia di comunione, che miri alla messa in comune delle risorse, al rispetto della natura, alla partecipazione collettiva agli utili, al reinvestimento finalizzato a scopi sociali, al principio di "gratuità" e alla responsabilità verso le generazioni future, può essere il modello della svolta necessaria in questo campo (rilevanti in questa direzione sono le tesi dell’Enciclica di Benedetto XVI Caritas in veritate del 29 giugno 2009).

La città futura non potrà essere programmata e gestita secondo logiche esclusivamente utilitaristiche: o sarà frutto di un’economia integrata, che unisca l’interesse pubblico e quello privato secondo i principi di un’"economia civile" in grado di valorizzare tutti i soggetti in gioco e di promuoverne la crescita collettiva, o rischierà di accrescere le dinamiche di frammentazione, che producono la disumanizzazione della società. Processi di riconversione industriale e di ottimizzazione del capitale umano, legati anche all’investimento sulla qualità del prodotto, appaiono quanto mai urgenti, specie di fronte agli scenari di crisi che vanno profilandosi a motivo della concorrenza del mercato del lavoro. Qui la centralità della persona umana, la sua dignità, la sua salute, appaiono criteri decisivi, dove vanitas e veritas vengono a discriminarsi. Una società che non investa su lavoro e salute dei cittadini è destinata a inesorabile declino.

È, dunque, l’etica il campo di applicazione più profondo della dialettica proposta da Agostino: a una morale individualista e utilitaristica, finalizzata esclusivamente all’interesse dei pochi, occorre opporre un’etica della verità, aperta a valori fondati sulla comune umanità e sulla dignità trascendente della persona. Quest’etica si caratterizzerà per il primato della responsabilità verso gli altri, verso se stessi e verso l’ambiente, per l’urgenza della solidarietà, che pone in primo piano i diritti dei più deboli, e per l’apertura ai valori spirituali.

Ciò che appare urgente per uscire dalla crisi è preferire alla logica di corte vedute della vanitas la logica della condivisione e del servizio. Averlo chiaramente presente è dovere di tutti, nella misura in cui ci stia a cuore una città futura che sia meno dissimile dalla città di Dio, voluta e sperata per il bene dell’intera famiglia umana: quella che Agostino ebbe l’audacia di proporre come orizzonte di senso e di speranza per il futuro di un’umanità, che sembrava destinata a un inarrestabile destino di dissoluzione.



Domenica 11 Marzo,2012 Ore: 11:18
 
 
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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 11/3/2012 15.11
Titolo:MORALE E POLITICA. UNA RIFLESSIONE SULLA LEZIONE DI DOSSETTI ....
GIUSEPPE DOSSETTI (1913-1996)

C’è una morale nella politica

di Sergio Zavoli (Il Sole 24 Ore - Domenicale, 11 marzo 2012)

Avrebbe novantanove anni, nacque nel febbraio del 1913, è stato tra i personaggi centrali della democrazia repubblicana sorta sulle macerie del fascismo, il suo pensiero politico e la sua essenza civile e morale stanno ancora attraversando l’identità di un cattolicesimo che ha il suo esordio storico quando i cattolici, nella riconquistata libertà, consolidano laicamente la scelta democratica di Sturzo.

È appena il 1945 quando - mentre De Gasperi interpreta la necessità di dar vita a una economia di mercato - Dossetti propende per una libertà politica cui va affiancata un’economia anche statale in grado di garantire la tutela dei ceti subalterni, ovviamente deboli rispetto al potere condizionante delle grandi forze economiche. Dossetti scrive: «La Democrazia cristiana non vuole e non potrà essere un movimento conservatore», attirandosi qua e là addirittura il sospetto di voler far sua la distinzione di Maritain tra fascismo e comunismo. Mentre il primo, cioè, andava considerato una forza estranea agli ideali cristiani in quanto perseguiva un ideale di Stato-guida, che permea di sé tutto, dalla cultura agli ordinamenti, al cittadino sacrificato all’individuo; il secondo è visto come una sorta di "eresia cristiana", cioè un sistema che richiama lontanamente originarie ispirazioni comunitarie. D’altronde fu Berdjaef, il filosofo russo espulso dall’Urss nel 1922, a dire che il comunismo doveva intendersi come «la parte di dovere non compiuta dai cristiani».

Ma Dossetti tende alla qualità di una scelta ben più radicale e autentica, che ne farà un testimone scomodo, talvolta persino mal tollerato, di quanto si può dare alla politica senza farlo venir meno alla morale, al pragmatismo senza sottrarlo ai principi, al cittadino senza privarlo della persona.

Chi non ha in mente questa fedeltà laica e insieme religiosa al primato dell’uomo, quello della sua intrinseca e libera dignità personale, stenterà a farsi largo negli aspetti non di rado impervi - per esempio della dignità sacerdotale - di don Giuseppe Dossetti. Non a caso egli fa coincidere l’unicum cui si ispira affrontando la politica come il momento in cui si diventa responsabili personalmente di ciò che scegliamo per l’orientamento di noi stessi e nei confronti degli altri.

Ecco, allora, la base su cui poggiare il peso della scelta: la norma costituzionale dell’eguaglianza tra i cittadini, da perseguire attraverso la ricerca e la messa a punto di un modello di statualità sottratta, insieme, alla vischiosità della conservazione borghese e a una giustizia sociale i cui costi gravino sulle libertà personali; nell’assoluta preminenza dei diritti inalienabili di un uomo partecipe della speranza collettiva - laica, razionale, organizzata dalla politica dentro la storia - ma nella intangibile responsabilità della risposta individuale.

Si è detto di Dossetti che aveva i principali nemici, per paradosso, nelle sue idee. Certo, voler trarre da una vocazione originale e rigorosa un patrimonio di principi da comunicare a masse di cittadini comportava un’impresa virtuosa e pedagogica tale da scontrarsi con quel bisogno di duttilità e tolleranza che la gran parte di un popolo appena rinato alla democrazia coltivava nel limbo di una coscienza civile ancora confusa; in cui, per legittimarsi anche spiritualmente, bastava esibire l’alibi del «perché non possiamo non dirci cristiani», di crociana memoria, per indispettire chiunque intendesse la lotta politica come un esercizio fondato sulla pregiudiziale anti-comunista, e da tenere in sospetto una parte della stessa sinistra, la quale si sentiva insidiata nella sua dimensione più difficile, quella dell’autocritica filosofica e pragmatica.

Questi condizionamenti non giovarono all’immagine pubblica di Dossetti, ma al tempo stesso ne esaltarono la dimensione, per dir così, più sottesa e costosa. Tra gli uomini che hanno rifondato lo spirito democratico del nostro Paese è quello che ha reso più manifesto il significato morale del far politica, seppure alzandolo a un tale livello di esemplarità da essere, non di rado, irriconoscibile. Forse si fa torto al politico, ma quanto gli si toglie nella sfera pubblica alla sfera pubblica ritorna proprio attraverso quella privazione: è il paradosso-Dossetti, la sua storia e la sua coscienza. Pochi eletti, di quegli anni e dopo, hanno uniformato i propri gesti all’esigente esemplarità di quella lezione. Dossetti ne fu così consapevole che prese su di sé, assumendolo nel suo animo, il segno di contraddizione che egli stesso aveva finito per rappresentare. E quando cominciò a capire che la parola, passando per strade e piazze spesso votate alla facilità degli slogan, all’intelligenza pratica e quindi alla realtà del giorno per giorno non suscitava più le risposte che avrebbe voluto udire, la portò nel deserto e ne rimase paziente, incorruttibile custode.

Così aveva descritto il senso di quel viaggio fruttuoso: «Il mio sacerdozio è nato da uno sbocco credo coerente con la vita che già conducevo, una vita consacrata nell’intenzione e nella forma al dominio dell’orazione sull’azione tutta orientata a diffondere tra i laici cristiani una formazione che stesse a monte del pensiero socio-politico e che lo sanasse continuamente dai suoi pericoli: perché il pensiero politico è continuamente insidiato da grandi pericoli». E subito dopo, per ricomporre nella sua fondamentale unità il senso dell’altra scelta, aggiungerà: «Noi non siamo monaci, conduciamo una vita molto simile, o quasi integralmente eguale alla vita dei monaci, però negli istituti monastici tradizionali non mi riconosco».

Nasceva qui, non sentendosi espulso dalla politica, ma riconoscendone i legittimi limiti temporali, la necessità di radicare in un certo luogo - con una testimonianza tangibile anche per i significati di memoria e di lascito - la scelta definitiva di Monte Sole come riferimento e irradiazione verso la Palestina, l’Oriente, le cento terre, le cento patrie, le cento paci promesse. Monte Sole è una sorta di vulcano alla rovescia, dove si è compiuta una violenza senza tempo, in quanto consumata davanti al giudizio di Dio. È quindi il luogo della preghiera continua, per un perdono senza soste.

Qui Dossetti vuole un radicamento e si conforma a una regola. Egli è «uomo delle regole». Prima del presbiterio viene da una cultura giuridica, sa che la civiltà del diritto si fonda sul "contratto". Occorre regolare quel "contratto": nella Costituzione come nel Concilio, come nella stessa "piccola regola" che si darà il monastero di Monte Sole. Un "contratto" che rimetta insieme, anzitutto, storia ed etica, politica e morale, non per trasferire nella vita civile quello che ricavi dalla vita religiosa. Non è integralismo, né zelo, né mera virtù: si tratta di rivivere la dimensione pubblica secondo il principio della condivisione e della solidarietà.

C’è un fascino di Dossetti che sta anche in questo continuo contemplare e agire, nel mettere in crisi ciò a cui pensa per sottoporlo alla prova di ciò in cui crede. Egli vedeva, in lontananza, una grande crisi religiosa, anche di cristianità, forse per l’insorgere di culture pragmatiche, dispensatrici di straordinari sollievi terreni, spesso ingannevoli e persino alienanti. Anche di qui il suo sguardo all’Oriente, in cerca di una grande scaturigine di religiosità, da cui attingere per nutrire un grembo vasto, limpido, universale. C’è un enigma nell’aver visto queste distanze, e concepito quel viaggio, dal suo stare a Monteveglio, il piccolo centro della sua intoccabile, appartata totalità. «Non è possibile purificarsi da solo o da soli; purificarsi, sì, ma insieme; separarsi per non sporcarsi è la sporcizia più grande». Sono parole di Tolstoj e don Giuseppe le sa a memoria.

La parte finale della sua vita è stata giudicata una fuga dal mondo. Dossetti stesso annotava: «E qualcuno (anche tra cattolici e persino teologi) parla della vita monastica non solo come di "fuga dal mondo", ma persino dalla Chiesa». E qui è possibile cogliere una conclusione: «Al termine di ogni via c’è l’unico e definitivo mistero di Gesù di Nazareth, figlio di Dio e figlio di Maria, che con la sua croce e la sua morte volontaria, gloriosa e vivificante, è divenuto il primogenito dei morti aprendo per noi la via della Risurrezione».

Dossetti chiuderà il suo libro, lacerato e di nuovo riunito dalla sua totalità, il 15 dicembre del 1996. Credenti e non credenti parteciperanno alle esequie in gran numero. Intorno alla bara, per un tratto della cerimonia funebre, si alterneranno vecchi partigiani con i loro nipoti e pronipoti, i nuovi bambini della comunità; laicamente destinati a capire i valori anche civili che lo spirito, secondo Dossetti, sa mettere nella storia. La quale forse non si ripete, ma quanto disse e visse Dossetti somiglia ancora a non poche questioni che si presentano davanti alla Chiesa e ai cattolici nella dimensione globalizzata dei problemi. La centralità dell’uomo, l’etica associata allo sviluppo, la relazione tra uomo e ambiente, le connessioni tra diritti umani e civili, la lotta agli egoismi vecchi e nuovi, la salvaguardia delle diverse identità, il dialogo tra le culture religiose, la laicità dello Stato e della politica, sono temi che investono anche la teologia cattolica e la pratica dei credenti, la loro visione della società e delle relazioni umane. Tutto ciò nel segno della prima delle regole: la ricongiunzione del cittadino con la persona, della politica con la moralità, dello Stato con l’interesse del popolo.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 11/3/2012 18.03
Titolo:ESSERE CRISTIANI. L’occasione sprecata dalla Chiesa
Hans Küng, l’occasione sprecata dalla Chiesa

di Enzo Bianchi (La Stampa, 11 marzo 2012)

C’ è da rallegrarsi a ritrovare nelle librerie un’opera come Essere cristiani di Hans Küng (Rizzoli, pp. 936, € 25), a quasi quarant’anni dalla prima pubblicazione: «un’introduzione all’essere cristiani [...], una piccola “summa” della fede cristiana», secondo le parole stesse dell’autore, volta a presentare «non un Vangelo diverso, ma lo stesso Vangelo di sempre, riscoperto per il nostro tempo». Un’analisi densa e articolata del cristianesimo a partire dal Gesù storico e dal suo annuncio della «buona notizia», una ricerca condotta con competenza e grande sensibilità ecumenica da un allora giovane teologo cattolico che aveva partecipato al Concilio Vaticano II come esperto.

Küng era e rimane un appassionato di Cristo, un credente convinto che il Vangelo possa parlare al cuore e alla mente di uomini e donne di ogni tempo e di ogni cultura, un pensatore che non teme di affrontare le sfide del dialogo con la ragione e con le altre religioni. E l’impatto profondo che questa sua opera ha avuto presso tanti cristiani e anche presso chi era estraneo alla Chiesa o si era ritirato ai margini di essa ne sono una prova inequivocabile. Parlo di «impatto» e non di «successo» perché se sui numeri delle copie vendute di un libro possono incidere tanti fattori contingenti o meno, anche estranei al contenuto, sugli effetti duraturi che un’opera può avere e sull’arricchimento personale che riesce a offrire anche a distanza di anni solo il messaggio del testo può influire.

In questo senso Küng non solo espone «una» possibile introduzione al cristianesimo - per quanto ricca e documentata - ma, attraverso di essa, lascia trasparire la passione di una ricerca assidua del radicalismo evangelico, comunica a un largo pubblico il clima spirituale e la volontà di dialogo che hanno segnato la feconda stagione della Chiesa nel postconcilio, getta squarci di luce su orizzonti di speranza.

Certo, Essere cristiani è stata e rimane anche un’opera altamente controversa: assieme ad altri suoi testi di quella stagione gli valse il ritiro della missio canonica per l’insegnamento della teologia nelle facoltà cattoliche, senza tuttavia che si giungesse a una condanna nei confronti dell’autore e della sua teologia.

La complessità dei problemi sollevati, la durezza di certi accenti polemici, l’incomprensione reciproca ha portato a scavare un fosso sempre più ampio tra Küng e il magistero cattolico. E proprio qui il rammarico si unisce al compiacimento per la riedizione di Essere cristiani. Sì, perché questo testo fa toccare con mano la grande opportunità che non si è saputo o potuto cogliere. Il teologo svizzero, infatti, proponeva «una introduzione [all’essere cristiani]: un’introduzione diversa o diversamente orientata non incorre nella scomunica, ma chiede invece un po’ di tolleranza».

La scomunica non è giunta, ma anche la tolleranza è rimasta latitante: poteva innescarsi un dialogo estremamente fecondo all’interno della Chiesa stessa, un dialogo magari anche aspro, che avrebbe però arricchito dal di dentro la comunità dei credenti alla quale Küng non ha mai smesso di appartenere. Invece si è acconsentito a un progressivo estraniamento della ricerca teologica di Küng dal cuore del messaggio cristiano e, soprattutto, dal contesto cattolico. Normale e positivo progresso di una ricerca teologica libera e indipendente? Forse è stato così dal punto di vista dell’autore.

Dal punto di vista della comunità cristiana, non solo cattolica, del suo cammino ecumenico, della sua ricerca di sempre maggiore fedeltà al Vangelo, si è trattato piuttosto dell’incrinarsi di una voce dovuta alla perdita di autorevolezza oggettiva (quella soggettiva è rimasta intatta, anzi, si è forse rafforzata): le posizioni di Hans Küng, così stimolanti per i cristiani di oggi e per l’uomo contemporaneo, non hanno più avuto come luogo di confronto e di risonanza la comunità cattolica in quanto tale.

Eppure i problemi sollevati nell’opera - il ruolo della parola di Dio, il significato del Gesù storico, la funzione dell’autorità, le modalità dell’esercizio del ministero presbiterale, ildialogo ecumenico e con le altre religioni, l’apertura al mondo... restano ineludibili ancora oggi e la riflessione teologica ha tuttora da guadagnare a tener conto dell’analisi acuta e tagliente di Küng.

Non a caso, la breve prefazione alla nuova edizione di Essere cristiani si chiude con la medesima frase posta a sigillo dell’edizione originale del 1974, affermazione definita dall’autore stesso «il mio credo»: «Seguendo Gesù Cristo l’uomo nel mondo d’oggi può vivere, agire, soffrire e morire in modo veramente umano: nella felicità e nella sventura, nella vita e nella morte, sorretto da Dio e fecondo di aiuto per gli altri». Sì, la sequela cristiana, il camminare sulle tracce di Gesù di Nazaret che ha narrato Dio può avere senso per l’uomo di ogni tempo e cultura, per la riscoperta dell’umanità che lo abita: colui che la fede confessa come «vero Dio e vero uomo» restituisce all’uomo la sua qualità e dignità più profonda.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 19/4/2012 22.32
Titolo:Bruno Forte, un cammino drammatico e luminoso..
Benedetto XVI, un cammino drammatico e luminoso

di Bruno Forte
in “Il sole 24 Ore” del 19 aprile 2012


Sedici e 19 aprile sono due date importanti nella vita di Joseph Ratzinger, Benedetto XVI. La prima
è quella della nascita, a Marktl am Inn in Baviera, ottantacinque anni fa. La seconda è la data
dell\\\\\\\'elezione al pontificato, nel 2005. Entrambe le ricorrenze hanno suscitato un\\\\\\\'ondata di
attenzione, di auguri da parte dei grandi della Terra, di innumerevoli messaggi di affetto, di segnali
di tenerezza e di fiducia dai piccoli e dagli umili di ogni parte del mondo.

Le due date sono anche
un\\\\\\\'occasione di riflessione e di bilancio per l\\\\\\\'impatto di questo pontificato, che già segna di sè la
storia. È il filone che vorrei seguire, chiedendomi quali caratteri fondamentali presenti l\\\\\\\'opera di
questo Papa e che cosa essa vada soprattutto dicendo alla Chiesa e al mondo. Non esiterei a definire
la vita e il pontificato di Benedetto XVI con due aggettivi, che li caratterizzano come un cammino
inseparabilmente drammatico e luminoso.


L\\\\\\\'aspetto drammatico dell\\\\\\\'esistenza di Joseph Ratzinger e della Sua azione quale Successore di
Pietro risulta evidente se solo si pensa al contesto storico dei Suoi giorni: nato ai tempi della
Repubblica di Weimar, l\\\\\\\'attuale Papa ha vissuto molto presto gli anni sconvolgenti della dittatura
nazionalsocialista e della guerra. Educato da genitori saldamente credenti, ha appreso con
naturalezza la diffidenza verso le menzogne del potere, che lo ha portato da giovanissimo studente a
dichiarare apertamente a chi con la forza del potere avrebbe voluto arruolarlo nelle file del regime
che i suoi progetti erano totalmente diversi, perché nel suo cuore sentiva di essere chiamato al
ministero di perdono e di carità del sacerdozio.

La reazione violenta che seguì a quella dichiarazione non smosse minimamente la fermezza del
giovane Ratzinger, tanto che egli venne destinato a ruoli secondari e \\\\\\\"insignificanti\\\\\\\" nella difesa
contraerea. Al dramma del totalitarismo seguì l\\\\\\\'esperienza non meno difficile del dopoguerra, della
Germania divisa fra i due blocchi, di un Occidente attraversato dalle contrapposizioni ideologiche e
dal vento della contestazione del \\\\\\\'68.

Il giovane sacerdote, professore di teologia, non cedette alle mode, e - come aveva lucidamente
rifiutato da ragazzo la barbarie ideologica - così continuò a opporsi alle semplificazioni di letture
ispirate ai \\\\\\\"grandi racconti\\\\\\\" delle ideologie, matrici di violenza e di strumentalizzazioni della
dignità umana.

Accanto a Giovanni Paolo II il Card. Ratzinger fu l\\\\\\\'amico, il consigliere lucido e
discreto, il compagno di viaggio messo al fianco del Mosé che Dio aveva scelto per attraversare il
guado fra i due millenni. Gli scenari dello \\\\\\\"scontro di civiltà\\\\\\\" dell\\\\\\\'inizio del nuovo Millennio hanno
ulteriormente accentuato il senso drammatico dei processi in atto, di cui Papa Benedetto ha
mostrato di avere precisa consapevolezza pronunciando sin dall\\\\\\\'inizio il suo \\\\\\\"no\\\\\\\" deciso a ogni uso
della violenza in nome di Dio, sia in forza della ragione rettamente adoperata, sia in forza della fede
nell\\\\\\\'unico Padre e Signore di tutti.

Ma il dramma ha attraversato anche dal di dentro la Chiesa: è la crisi della fede su cui questo Papa
si è espresso con singolare chiarezza e determinazione. «Quando annunciai di voler istituire un
Dicastero per la promozione della nuova evangelizzazione - affermava Benedetto XVI il 30 maggio
del 2011 -, davo uno sbocco operativo alla riflessione che avevo condotto da lungo tempo sulla
necessità di offrire una risposta particolare al momento di crisi della vita cristiana, che si sta
verificando in tanti Paesi, soprattutto di antica tradizione cristiana».

La crisi non è quella di
superficie che possa toccare l\\\\\\\'una o l\\\\\\\'altra struttura della Chiesa, ma quella che va alla radice
dell\\\\\\\'intera esistenza credente. Si tratta di quella «perdita del senso del sacro, che giunge a porre in
questione i fondamenti che apparivano indiscutibili, come la fede in un Dio creatore e provvidente,
la rivelazione di Gesù Cristo unico salvatore, e la comune comprensione delle esperienze
fondamentali dell\\\\\\\'uomo quali il nascere, il morire, il vivere in una famiglia, il riferimento a una
legge morale naturale».


Davanti agli scenari del dramma in atto, Benedetto XVI non cede alla rinuncia o al pessimismo: egli
non esita ad annunciare il grande \\\\\\\"sì\\\\\\\" di Dio risuonato in Gesù Cristo, e a proporre ragioni di vita e
di speranza che rendano sensata la vita e bello l\\\\\\\'impegno per il bene di tutti. Si tratta di un
messaggio luminoso, che mira a promuovere e sostenere uno straordinario sforzo di rinnovamento
della vita cristiana ed ecclesiale: come aveva affermato da giovane professore di teologia, la riforma
«non consiste in una quantità di esercizi e istituzioni esteriori, ma nell\\\\\\\'appartenere unicamente e
interamente alla fraternità di Gesù Cristo...Rinnovamento è semplificazione, non nel senso di un
decurtare o di uno sminuire, ma nel senso del divenire semplici, del rivolgersi a quella vera
semplicità...che in fondo è un\\\\\\\'eco della semplicità del Dio uno. Diventare semplici in questo senso -
questo è il vero rinnovamento per noi cristiani, per ciascuno di noi e per la Chiesa intera» (Il nuovo
popolo di Dio, Brescia 1971, 301. 303).

L\\\\\\\'autentica riforma voluta da questo Papa è, insomma, quella della conversione evangelica, la sola
capace di riportare la Chiesa alla bellezza originaria e di farla risplendere come segno levato fra i
popoli. Sarà da questo ritrovato riconoscimento del primato di Dio confessato e amato - cui
precisamente punta l\\\\\\\'anno della fede indetto per il 2012-2013 - che verrà la nuova primavera della
Chiesa e del mondo, di cui gli uomini hanno immensa necessità e urgenza: «Ciò di cui abbiamo
soprattutto bisogno in questo momento della storia - aveva detto qualche settimana prima di
diventare Papa - sono uomini che, attraverso una fede illuminata e vissuta rendano Dio credibile in
questo mondo. La testimonianza negativa di cristiani che parlavano di Dio e vivevano contro di Lui,
ha oscurato l\\\\\\\'immagine di Dio e ha aperto la porta dell\\\\\\\'incredulità. Abbiamo bisogno di uomini che
tengano lo sguardo dritto verso Dio, imparando da lì la vera umanità. Abbiamo bisogno di uomini il
cui intelletto sia illuminato dalla luce di Dio e a cui Dio apra il cuore, in modo che il loro intelletto
possa parlare all\\\\\\\'intelletto degli altri e il loro cuore possa aprire il cuore degli altri. Soltanto
attraverso uomini che sono toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini» (Subiaco, 1 Aprile
2005).

Tale è in prima persona questo Papa: e il riconoscimento sempre più ampio che gli viene tributato
sta a dire che la forza della verità, da lui amata e servita, si irradia di per sé, attraverso la mitezza del
gesto e la semplicità della vita, la forza dei ragionamenti e l\\\\\\\'ascolto dell\\\\\\\'altro, la testimonianza
coraggiosa e la speranza vissuta. Che tutto questo raggiunga e illumini tante menti e tanti cuori è
l\\\\\\\'augurio più vero, certo il più gradito, che possiamo fare all\\\\\\\'ottantacinquenne Papa, giovane di
appena sette anni di pontificato...

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Dottrina della fede secondo Ratzinger

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