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www.ildialogo.org A SCUOLA DELLA "CHARITAS" O DELLA "CARITAS"? MILANO: ALLA LEZIONE DI AMBROGIO, IL CARDINALE SCOLA PREFERISCE CONTINUARE A SEGUIRE LA LEZIONE RATZINGERIANA DELLA "CARITAS IN VERITATE", DEL "LATINORUM"! Un'intervista di Aldo Cazzullo,a c. di Federico La Sala

NATALE IN VATICANO, 2011. RETTIFICARE I NOMI E BONIFICARE LA CHIESA DALLO SPIRITO DI "MAMMONA ("CARITAS") E DI "MAMMASANTISSIMA" O PORTARE AL SUICIDIO LA CHIESA CATTOLICO-ROMANA?! Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto per il Padrone Gesu'("Dominus Iesus")!
A SCUOLA DELLA "CHARITAS" O DELLA "CARITAS"? MILANO: ALLA LEZIONE DI AMBROGIO, IL CARDINALE SCOLA PREFERISCE CONTINUARE A SEGUIRE LA LEZIONE RATZINGERIANA DELLA "CARITAS IN VERITATE", DEL "LATINORUM"! Un'intervista di Aldo Cazzullo

Che idea si è fatto del caso San Raffaele? - Mi mancano troppi elementi per formulare un giudizio che ora si baserebbe solo su quantoapprendo dai media (...)


a c. di Federico La Sala

NOTA SUL TEMA:
 
 
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Scola: la nuova guerra si chiama spread, temo per la violenza

intervista ad Angelo Scola

a cura di Aldo Cazzullo (Corriere della Sera”, 23 dicembre 2011)


Il cardinale Angelo Scola sta preparando il primo Natale da arcivescovo di Milano. Nella sala tra il chiostro, piazza Fontana e l'abside del Duomo sono appesi i ritratti dei predecessori: Achille Ratti divenuto Papa come Pio XI, Ildefonso Schuster, Giovanbattista Montini futuro Paolo VI, Giovanni Colombo, Carlo Maria Martini, Dionigi Tettamanzi.

Eminenza, nel discorso di Sant'Ambrogio lei invita a non parlare sempre e solo di crisi, ma di travaglio e transizione. Che cosa intende dire?

«Dobbiamo considerare con molto realismo l'effettiva gravità della crisi economico-finanziaria. Però in tutti questi anni ho sempre avuto la percezione che la categoria di "crisi" da sola non riesca ad esprimere tutto quello che c'è in gioco. Quel che è avvenuto ha come orizzonte la mutazione inedita che si è prodotta dopo la caduta dei muri. Dopo la fine delle utopie del XX secolo, si sono succeduti rapidissimamente cambiamenti, più che epocali, inediti: la civiltà delle reti, la globalizzazione, la mutazione della percezione corrente della sessualità e dell'amore, la possibilità — irta di rischi — di mettere le mani sul patrimonio genetico, i grandi sviluppi della fisica micromolecolare che indaga l'origine del cosmo — si pensi alla cosiddetta "particella di Dio" —, e poi il "meticciato di culture", i flussi migratori... Mi pare chiaro che, se noi non collochiamo la lettura della crisi all'interno di questo travaglio inedito, non ne usciremo. Una lettura tesa ad individuare ricette tecniche non basta».

Lei contrappone alla degenerazione della finanza il tema del gratuito.

«Questo è un tema su cui la Caritas in veritate ha scommesso moltissimo, ma è stata snobbata dai mondi dell'economia e della finanza. Si confonde il gratuito con il gratis. Quando parlo di gratuità mi riferisco alla coscienza che il lavoro produttivo e il lavoro finanziario, come ogni altro lavoro, possiedono in se stessi una bontà e una bellezza che è possibile riconoscere e attuare. Per i nostri artigiani una bella sedia doveva essere ben fatta prima che ben pagata. Certo, anche l'utile ha valore, ma viene in un secondo momento. La gratuità così intesa è antidoto all'avidità».

In Italia però si è assistito a una svolta politica, alla nascita di un nuovo governo, che segna anche un nuovo impegno dei cattolici. Come lo giudica?

«Il richiamo autorevole che viene dal Papa e dai vescovi all'impegno politico non prefigura alchimie partitiche. II riferimento è alla visione antropologica che la dottrina sociale si porta dietro nella sua triplice articolazione — principi di riflessione, criteri di giudizio, direttive d'azione —, secondo la formulazione di Giovanni Paolo II che mentre correggeva  la teologia della liberazione rilanciava la dottrina sociale della Chiesa».

Lei ha espresso gravi preoccupazioni sulle tensioni che stanno lacerando l'Europa.

«Una volta si affrontavano i problemi di dialettica interna allo spazio europeo con la guerra. Ora li stiamo affrontando con lo spread: speriamo che dallo spread  non si ritorni alla violenza».

Teme davvero il ritorno alla violenza?

«Sì, ho questo timore. Non penso a una guerra intraeuropea. Temo che i disequilibri del pianeta possano esplodere là dove la guerra è già in atto o incrociare la delicatissima evoluzione del Nord Africa. La speranza affidabile è che ci si muova tutti: la casa brucia. Per uscire dall'attuale "impagliatura", l'Europa deve ritrovare il meglio della sua storia. Solo così si potrà rivitalizzare la società civile. Inoltre non si può né si deve rinunciare al livello di guida e di indirizzo che la politica possiede per sua natura. In questo contesto la Chiesa italiana è chiamata ad approfondire con slancio deciso il cammino degli ultimi decenni, dal Convegno ecclesiale del 1976 in avanti. Abbiamo il dono del magistero di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Noi cristiani dobbiamo recuperare il nostro compito specifico, il compito educativo a tutti i livelli dal battesimo in avanti. Il risveglio dell'impegno politico diretto dei cattolici, se rettamente inteso, potrà poi dare un contributo alla
rigenerazione del Paese».

Ritiene che un primo passo verso il risveglio dei cattolici si sia compiuto con la formazione di questo governo?

«E solo un segnale. Purché non la si metta in termini di potere. Ovviamente non c'è realtà associata in cui non sia implicato il potere. Ma che tipo di uomo è colui che è preso a servizio dalla società per guidarla, colui che assume un potere? Il problema non è come noi cattolici possiamo riprendere un'egemonia nel Paese. Il problema è vivere il potere nel suo aspetto di verità. Coloro che ascoltavano Gesù dicevano: "Costui parla con autorità" perché lo vedevano coinvolto in ciò che diceva. Gesù ha pagato di persona. La categoria della testimonianza è fondamentale. Gli statisti che hanno dato avvio all'Europa erano uomini che parlavano con autorità, perché erano per primi coinvolti nel progetto in cui credevano. Lungi da me sottovalutare la competenza, la tecnicalità, ma il motivo per cui uno si gioca ogni giorno nella vita viene prima di ogni ruolo o competenza è il senso stesso del vivere. Lo sperimentiamo a Natale. Il "Dio con noi" cambia il senso della vita. Se Dio è con noi, io vivo in maniera diversa. Bisogna guardare in modo nuovo all'uomo e al suo essere in relazione. Giovanni Paolo II diceva che dalla seconda metà degli anni 60 si era aperta una grande contesa sull'humanum, ma in questi anni tutti, anche nella durezza di certe fasi che il Paese ha attraversato, sapevamo cosa fosse l'humanum. Oggi noi dobbiamo riscoprirlo, ripensarlo».

Sta dicendo che c'è un deficit della politica che da soli i tecnici non possono colmare?

«Certo c'è un deficit della politica. Dobbiamo ripensarla in termini radicali. Non la impressiona il fatto di quanto poco si parli della storia recente? Accenno per esempio al rapporto tra movimento operaio e movimento cattolico. Anche i sindacati ne parlano troppo poco. Come si fa a leggere i cambiamenti radicali senza un riferimento a questa storia, per poter aprirci al futuro? Ricordo un colloquio con Augusto Del Noce che mi colpì molto. L'autore de Il suicidio della rivoluzioneprofezia non piccola, intuì con molto anticipo che la Dc stava finendo perché aveva smarrito la testimonianza e aveva perso la cultura. Ho visto di persona fino agli anni 70 l'impegno gratuito di uomini e donne che, dopo aver lavorato duramente tutto il giorno, la sera trovavano l'energia per dare una mano nel gestire i mille campanili. Amministravano il Paese. Si tratta di intensificare il
gusto, l'energia, la passione per la famiglia, il condominio, il campanile, il popolo».

Qual è il suo giudizio sull'era di Berlusconi? La Chiesa gli ha concesso un credito eccessivo?

«E presto per dare un giudizio complessivo. La mia attenzione è puntata sul compito della Chiesa e degli uomini di Chiesa — quindi su ciò che mi riguarda personalmente —, su quello che la grande tradizione chiama il bonum Ecclesiae. L'espressione, ovviamente, non va tradotta con "ciò che è vantaggioso per la Chiesa". Per esempio, si sta facendo un gran polverone sull'Ici; andiamo piuttosto a vedere cosa c'è da tenere e cosa c'è da correggere. Difendere il bonum Ecclesiae, liberi da ogni pretesa egemonica, significa per i cristiani portare in tutti gli ambienti la proposta del Vangelo, la bellezza dell'esperienza cristiana nel quotidiano della vita associata. Se questo sarà vissuto nella sua giusta forma, avremo uomini capaci di virtù non solo teologali — fede, speranza, carità — ma anche cardinali: prudenza, giustizia, fortezza, temperanza. Sarebbero belle virtù anche per un politico».

Lei proviene dal movimento di CL Non teme che, tra i quasi diciassette anni di potere di Formigoni, gli affari, gli scandali, CL sia caduta in qualche eccesso?

«Credo che CL sia un fenomeno educativo ecclesiale formidabile, in cui ha primaria importanza la trasmissione tra le generazioni di una modalità persuasiva e vitale di essere cristiani. Tutto il resto, finché io ho potuto vedere dall'interno, cioè fino a vent'anni fa, è sempre stato considerato dell'ordine delle conseguenze, della responsabilità personale di chi si assumeva un determinato compito. Credo che questo adesso sia ancora più chiaro, più marcato ed evidente. Non ho rapporti particolari con il movimento rispetto a quelli con altre realtà associative. Però da quel che vedo e leggo, mi pare che il successore di don Giussani si stia muovendo decisamente in questa direzione: gli uomini che si sono giocati in politica portano lì la loro faccia e su questa base sono stati e saranno valutati dai cittadini. Conosco Roberto Formigoni da quando aveva 14 anni, anche se da
tempo ci si vedeva assai di rado. Se è stato eletto per quattro volte consecutive presidente della Regione Lombardia, ci sarà una ragione. Non credo fossero tutti voti di CL. La sorte di un politico alla fine la determina chi vota».
 
Che idea si è fatto del caso San Raffaele?
 
Mi mancano troppi elementi per formulare un giudizio che ora si baserebbe solo su quanto apprendo dai media.  Tutti dicono che è un luogo di grande eccellenza. Non ho ragione per dubitarne. Qualche interrogativo è nato talvolta circa la ricerca biotecnologica. La fede non blocca la ricerca, ma chiede allo scienziato di essere un uomo fino in fondo e quindi di assumersi la responsabilità di rispettare un'antropologia e un'etica adeguate».

Come giudica la nuova giunta di Milano?

«Su questo è sufficiente ricordare l'insegnamento di san Paolo: l'autorità legittimamente eletta dal popolo, viene ultimamente da Dio; finché non ci sono atti o leggi contrari alla legge di Dio, massimo rispetto, massima apertura. Ho incontrato il sindaco Giuliano Pisapia, come ho incontrato Formigoni e il presidente della Provincia di Milano Guido Podestà. Ho trovato grande correttezza,  grande attenzione, come a Venezia in Cacciari, Galan e negli altri interlocutori politici. La Chiesa cerca rispetto per la verità».

Lei è nato a Lecco, che fa parte della sua diocesi, e si è formato a Milano. Come l'ha ritrovata?

«Per me Milano è entusiasmante. Ho passato qui gli anni dell'università e quand'ero fuori ci venivo molto spesso. Devo ammettere di aver fatto fatica a staccarmi da Venezia, che è un grande dono per l'umanità; ma la formula del mio "ritorno a casa" è vera. Sarà forse un anticipo del crepuscolo dovuto all'età...».

Non dica così, lei ha appena compiuto settant'anni.

«Di anni non ne avrò davanti tanti e sempre a Dio piacendo. Credo che per l'uscita dall'attuale travaglio Milano abbia una funzione di protagonista di primo piano. La sua è una storia in cui l'elemento lavoro è già ben "rodato" a partire dal '700. Inoltre la magnanimità e l'accoglienza appartengono al Dna di questa "terra di mezzo". Anche se, come da ogni parte, c'è bisogno di un surplus di relazione, di rispetto, di narrazione, di umiltà nel lasciarsi raccontare dagli altri, di tensione al riconoscimento reciproco, per trovare quel "compromesso nobile" che è il fondamento dell'azione sociale e politica in una società plurale come la nostra». 


Sabato 24 Dicembre,2011 Ore: 10:55
 
 
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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 24/12/2011 16.02
Titolo:Il codice di Don Verzè
Il codice di Don Verzè, boss con la tonaca

di Francesco Merlo *

ORDINA: «Bruciate!» e il picciotto va e appicca il fuoco. Don Luigi Verzé è il primo prete capomafia della storia d’Italia e il silenzio del Vaticano o è rassegnato o è omertoso, decidete voi. Ma per noi siciliani è un sollievo che almeno sia padano questo ’don’ che è due volte ’don’, per il turibolo e per la coppola storta. Attenzione: non un prete mafioso, non un prete al servizio della mafia, che ce ne sono stati tanti, ma un boss che amministra i sacramenti, un don Calogero Vizzini con il crocifisso portato - fateci caso - all’occhiello, lì dove si mettono gli stemmi dei Lyons e del Rotary, e i massoni vi appuntano il ramo d’acacia e i gagà la mitica pansé. Anche don Calogero non pagava mai con le mazzette tipiche della corruzione diciamo così normale, ma con bigliettoni ’impilati’. «Le buste di don Verzé - raccontano i testimoni oculari - erano alte tre o quattro centimetri con biglietti da 500 euro». Don Calogero Vizzini le chiamava appunto ’pile’. E don Verzé non comunica con i pizzini come i più rozzi tra i corleonesi, ma si attiene ai classici che affidavano le sentenze ’allo sguardo e al silenzio ’.

E SE proprio deve farsi intendere don Verzé «manda l’autista - tutte le citazioni sono prese dai verbali - anche all’estero». Trasmette gli ordini «attraverso messaggeri umani». Il pizzino infatti è mafia stravagante, deviazione sbruffona, «niente di scritto e niente al telefono» raccomanda Marlon Brando Vito Corleone: «La polizia registra, poi taglia e cuce le parole per farvi dire quello che vuole».

Il codice di don Verzé non è quello classico del danaro cattolico, neppure nella variante diabolica della simonia. Don Verzé non è uno di quei generosi mostri italiani che hanno messo insieme mammona e il Padreterno, come direbbero gli evangelisti Matteo e Luca, l’ingordigia e la bontà. È invece un don Luciano Liggio per la gloria di Dio. Anche don Luciano bruciava una campagna e poi si presentava al proprietario: «Non rende, vendetemela». Sono gli stessi metodi criminali di don Verzé che aveva deciso di comprare i terreni confinanti con il suo ospedale, ma il proprietario non voleva vendere perché vi aveva costruito campi da tennis, da calcio e da calcetto, spogliatoi e bar... Ebbene nel 2005 e nel 2006 quegli impianti subirono due incendi dolosi. Poi don Verzé convocò Pollari, capo del Sismi e gli disse: «Mandaci la Finanza».

In quel periodo il prete fondatore dell’ospedale San Raffaele pubblicava con Bompiani "Io e Cristo" per spiegare come «la Fede si fa opera». E infatti la Finanza andò, controllòe multò. Ma il proprietario resisteva. E allora «sabotate» ordinò letteralmente don Verzé prendendosi una pausa dalla pia esegesi neotestamentaria (pag. 123 sgg) del famoso «verbum caro factum est», il verbo si è fatto carne. E specificò: «Sabotate, ma state attenti all’asilo e ai cavalli che sono nostri». Il picciotto, che stavoltaè un ingegnere, lo rassicura: «Sarà sabotato il quadro elettrico, quindi i campi non potranno essere illuminati e quando gli "amici" andranno a fargli la proposta di acquisto, lui sarà in ginocchio...». "Gli amici", "in ginocchio"...: il linguaggio cristologico qui diventa cosco- massonico.

Qualche giorno dopo "l’ingegnere", che sembra il personaggio misterioso dei romanzi di Le Carrè, titolo nobile e funzione ignobile, spiega a un don Verzé in partenza: «Quando lei sarà in Brasile ci sarà del fuoco». Come si vede, è un dialogo in argot, allusivo al crimine e alla mafia. E infatti don Verzé indossa i gessati dei mafiosi di una volta, ha la faccia anonima dei veri malacarne, con il cappello che richiama la coppola ma la nega, e forse perché un prete capomafia poteva nascere solo nel Lombardo Veneto, nella terra dei "buli" e dei "bravi", la terra sì del cardinale Borromeo e di Manzoni ma anche della Colonna Infame, delle opere benedette da don Giussani, dell’investimento economico come pietas, del capitalismo dell’Opus dei. E infatti il titolo del dialogo tra Carlo Maria Martini e don Verzé è ’Siamo tutti nella stessa barca’ (non banca): «Eminenza, posso chiamarla eminente padre?» . E il cardinale: «Chiamami padre Carlo Maria Martini». Don Verzé recita la parte del piccolo uomo davanti al santo: «Amore, verità, libertà di scelta». È un libro tutto compunzione e incenso. Il cardinale lo lodae lo legittima: «Nessuno meglio di lei...», «capisco la sua posizione, don Luigi», «comprendo i suoi sentimenti», «trovo bella questa sua espressione». A quel tempo don Verzé è già chiacchierato ma molto potente, nessuno immagina che organizza attentati e distribuisce mazzette e che i suoi ospedali sono fondati su una corruzione enorme, ma certo i suoi lussi sono già evidenti, le sue spese folli non passano inosservate, i suoi uomini gestiscono misteriose società in mezzo mondo, dal Sudamerica alla Svizzera, hanno conti correnti i dappertutto, e don Verzé ha comprato un aereo e ne prenota un altro e tratta una intera flotta perché non vuole perdere tempo negli aeroporti, e tutti sanno che l’aereo è l’arma principe dei malavitosi e dei guerrieri.

Inoltre don Verzé non parla come un Marcinkus alle prese con la volatilità della finanza ma come un capobastone, un campiere che controlla il territorio: «La Moratti, l’ho convinta io a fare il sindaco», «il cardinale Tettamanzi l’ho fatto venire io a Milano» e Formigoni, che il faccendiere di don Verzé ospita nel suo yacht, è sotto controllo perché «l’abbiamo salvato noi». E Berlusconi «dono di Dio» è «legatissimo alla famiglia», anche se, «ha fatto qualche giro di valzer». Ecco: Dio non s i cura del sesso quando si fanno affari. Perché appunto il verbo si è fatto carne.

Ma non bisogna credere che don Verzé sia un ateo mascherato e che tutto quei suoi libri di dottrina siano solo copertura. È al contrario un devoto in missione mafiosa per conto di Dio perché le vie della provvidenza sono infinite e se c’è la necessità di un attentato, beh, Dio non è certo un moralista.

Don Verzé è come quei preti medievali che, convinti di essere illuminati dalla grazia, commettevano in nome di Dio ogni nefandezza, vivevano a statuto speciale, in sospensione dei peccati, in deroga. Del resto don Verzé non ha sedotto solo il cardinale Martini e tutta la credula Milano cattolica.

Come ogni rispettabile padrino aveva bisogno della copertura laica e dunque l’ha ingaggiata. Massimo Cacciari ed Ernesto Galli della Loggia sono due intelligenze di prima grandezza nella cultura italiana, di quelli che braccano e scovano e mettono alla gogna i vizi del paese, uno come grande vedetta lombarda e l’altro come doge dei mari del sapere, callido Ulisse di Venezia: «mio carissimo amico dell’anima» dice don Verzé. Eppure anche loro sono stati impaniati, sono caduti nella panie dell’imprenditore in Cristo, del Christusunternehmer, avrebbe detto Cacciari se non fosse stato professore e rettore della sua università. Anche il facondo Vendola, quello che scioglie in bocca le parole come caramelle ideologiche, non ha mai avvertito nel comparaggio per l’ospedale a Taranto il sentore dell’imbroglione in Cristo, e gli ha invece fornito la legittimazione della sua pregiata griffe di sinistra.

Vaticano, cultura laica e sinistra comunista: nessun mafioso siciliano era riuscito a superare tutti questi livelli. Con don Verzé siamo ben oltre i colletti bianchi. E certo la Chiesa se fosse coerente dovrebbe scomunicarlo come scomunicò quei quattro frati di Mazzarino che, unico caso nella storia della mafia, taglieggiavano i contadini, facevano caporalato, decidevano vita e morte, controllavano il territorio: trasformarono il loro convento in un covo di prepotenza. E quando, era il 1960, furono processati, turbarono gli animi degli italiani al punto che gli stessi giudici ebbero soggezione e si misero a somministrare gli ergastoli come fossero sacramenti. Ma la Chiesa - pensate, la Chiesa complice di allora - non ebbe pietà per quei sai sporcati e per quella mania di fra bruciare i terreni, proprio come ha fatto don Verzé, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo.

* la Repubblica, 02 dicembre 2011
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 29/12/2011 16.10
Titolo:RISCRIVERE LA STORIA DI ANGELO SCOLA! Ordine del Vaticano .....
Wikipedia e il cardinale

di Gianni Barbacetto (il Fatto Quotidiano, 29 dicembre 2011)

Può il Vaticano far cambiare una voce di Wikipedia? Sì, può farlo. È successo per la voce su Angelo Scola, il nuovo cardinale arcivescovo di Milano, proveniente dal movimento di Cl. Tutto è nato da un articolo del Fatto Quotidiano, pubblicato il 19 giugno 2011: “Alla vigilia dell’ordinazione, il rettore Attilio Nicora decide di ‘fermare’ il giovane Scola. Il seminario milanese ha una tradizione antica e prestigiosa, che risale a San Carlo Borromeo: non può tollerare che alcuni seminaristi vivano tra i chiostri silenziosi di Venegono come fossero un corpo separato, senza riconoscere davvero l’autorità dei superiori, dei professori, dei teologi, del padre spirituale, perché hanno i loro maestri, i loro superiori, i loro teologi, i loro padri spirituali. Monsignor Nicora spiega ai ciellini che vogliono farsi ordinare preti che non possono usare il seminario ambrosiano come fosse un taxi”. Dunque l’attuale arcivescovo di Milano è stato, da giovane, di fatto espulso dal seminario milanese.

La vicenda finisce su Wikipedia, che cita la fonte: l’articolo del Fatto. A questo punto, però, si muove padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa vaticana. Contatta, con estrema cortesia, il sottoscritto, chiedendogli se è in grado d’indicargli la via per far cambiare la voce di Wikipedia, poiché questa mette in grave imbarazzo un altro cardinale, monsignor Attilio Nicora, il quale nega di aver “fermato” Scola: questi viene ordinato sacerdote nel luglio 1970, mentre Nicora diventa rettore del seminario milanese soltanto nell’ottobre successivo. Chi scrive non sa dare al gentilissimo padre Lombardi alcuna indicazione utile su come cambiare una voce di Wikipedia. Ma passano alcune settimane e accade il miracolo.

Dall’enciclopedia on line scompare la notizia di Scola “fermato” per “settarismo”, sostituita da una nota che dice così: “Gianni Barbacetto, nel suo articolo ‘Scola a Milano, la rivincita del vescovo di Cl’, sostenne che ‘alla vigilia dell’ordinazione il rettore Attilio Nicora decide di fermare il giovane Scola’, perché aderente al movimento di Cl. Questa vicenda non trova conferma nella realtà, in quanto Scola fu ordinato nel luglio 1970 e Attilio Nicora divenne rettore del seminario solo il 7 ottobre 1970. Lo spostamento di Scola a Teramo fu motivato dalla decisione dei suoi superiori a Venegono di attendere 18 mesi di ferma militare prima della sua ordinazione; Scola preferì invece essere ordinato subito”.

Ammettiamo allora che non sia vera la vox populi che attribuisce proprio a Nicora - non ancora rettore, ma già autorevole professore a Venegono - la decisione di “fermare” il ciellino candidato al sacerdozio. La decisione formale è quindi del rettore precedente, l’indimenticato monsignor Bernardo Citterio. Ma la sostanza resta immutata: la diocesi di Milano sceglie di non procedere neppure all’ordinazione diaconale di Scola, che gli avrebbe evitato il servizio militare. È di fatto un’espulsione.

Vecchie storie degli anni Settanta, in cui le passioni ideologiche erano forti, a destra, a sinistra e anche nella Chiesa. Nei decenni successivi, Scola non ha mancato di dimostrare libertà di pensiero e autonomia anche dal movimento in cui è cresciuto. Ma i fatti restano fatti: Wikipedia ora cambierà di nuovo la voce su Scola, cardinale arcivescovo di Milano e, chissà, possibile futuro papa?

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