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www.ildialogo.org PER LA RIFORMA DELLA CHIESA, CAMBIARE REGISTRO!!! "Lo sterco del diavolo abita in Vaticano". Una nota di Riccardo Chiaberge,a cura di Federico La Sala

AMORE ("CHARITAS") O RICCHEZZA ("CARITAS")?! AL GOVERNO DELLA CHIESA UN PAPA CHE PREDICA CHE GESU’ E’ IL FIGLIO DEL DIO "MAMMONA" ("Deus caritas est": Benedetto XVI, 2006)!!! Dopo la fine dell’alleanza trono-altare la Chiesa cattolica non ha ritrovato la strada evangelica ("Deus charitas est": 1 Gv. 4.8)!
PER LA RIFORMA DELLA CHIESA, CAMBIARE REGISTRO!!! "Lo sterco del diavolo abita in Vaticano". Una nota di Riccardo Chiaberge

(...) la storia millenaria della Chiesa e del suo rapportotormentato e ambivalente col mondo dell’economia ci aiuta a capire tante cose anche sulla realtà deinostri tempi (...)


a cura di Federico La Sala

Lo sterco del diavolo abita in Vaticano

di Riccardo Chiaberge (il Fatto Quotidiano, 30.10.2010) 



Nell’Europa del Medioevo non esistevano leggi anti-riciclaggio, ma l’Inferno funzionava molto
meglio di adesso e il girone degli usurai era affollato di buoni finanzieri cristiani come Ettore Gotti Tedeschi. Fenus pecuniae, funus est animae, “il profitto del denaro è la morte dell’anima”, aveva
ammonito a suo tempo papa Leone Magno. Chi presta soldi in cambio di interessi, si legge in un
manoscritto anonimo del Duecento, commette un peccato gravissimo contro la natura, “pretendendo
di generare denaro dal denaro, come un cavallo da un cavallo o un mulo da un mulo”. E nel suo
manuale per confessori il vescovo inglese Tommaso di Cobham rincara la dose: “L’usuraio punta a
guadagnare senza lavorare, addirittura dormendo; ciò va contro il precetto del Signore che ha detto:
‘Con il sudore del tuo volto mangerai il pane’”.


SE LA CHIESA medievale divide la società in tre classi, uomini di preghiera, guerrieri e lavoratori,
il predicatore francese Giacomo di Vitry ne aggiunge una quarta: i professionisti dell’usura. “Essi
non partecipano al lavoro degli altri uomini e perciò non subiranno il castigo degli uomini, ma
quello dei diavoli. La quantità di denaro che hanno guadagnato con l’usura corrisponde alla quantità
di legna inviata agli Inferi per bruciarli”.


Chissà quanta legna sarebbe necessaria per un Madoff o un Tanzi. Certo, le fiamme eterne per gli
strozzini erano di ben scarsa consolazione per le loro vittime, che non potendo contare sulla
giustizia degli uomini dovevano affidarsi a quella del Padreterno. Talvolta, però, la punizione
arrivava in anticipo: si racconta di ricchi prestasoldi privati dell’uso della parola in punto di morte,
in modo da non potersi confessare (ma forse si avvalevano della facoltà di non rispondere al
sacerdote), o colpiti da infarto senza avere il tempo di pentirsi. E un domenicano di Lione narra un
episodio spettacolare: “Nell’anno del signore 1240, a Digione, un usuraio volle celebrare le sue
nozze con grande sfarzo... Mentre i due promessi sposi felici stavano per entrare in chiesa accadde
che una statua di pietra raffigurante un usuraio trascinato all’Inferno dal Diavolo si staccò e cadde
con tanto di borsa sulla testa dell’usuraio in carne e ossa, uccidendolo”.


Tornando al succitato Gotti Tedeschi, attuale capo dello Ior, paragonarlo agli usurai del XIII secolo
sarebbe ridicolo prima che ingiusto. Ma la storia millenaria della Chiesa e del suo rapporto
tormentato e ambivalente col mondo dell’economia ci aiuta a capire tante cose anche sulla realtà dei
nostri tempi. Lo stesso giorno in cui il Tribunale del riesame di Roma confermava il sequestro di 23
milioni di euro a carico della banca vaticana per certe movimentazioni sospette, il presidente
interveniva a un convegno su etica e finanza promosso dall’Osservatore Romano e puntualmente
ripreso dal laico Sole 24 Ore. E parafrasando il famoso passo del Vangelo di Marco sul cammello e
la cruna dell’ago, si lanciava in un’ardita ipotesi teologica: “Il ricco, per entrare nel regno dei cieli
deve diventare ancora più ricco, perché se la ricchezza non viene creata il rischio è poi di distribuire
la povertà”. Anche se la ricchezza è frutto di speculazione, o peggio di frodi ai danni dei
risparmiatori? Anche quando la gobba del cammello è gonfia di titoli tossici o di conti correnti
intestati a prestanome?


COME RICORDA il grande medievista Jacques Le Goff nel suo Lo sterco del diavolo. Il denaro
nel Medioevo
(Laterza, pagg. 220, euro 18,00), l’unico modo di evitare l’Inferno, per un usuraio, era
la restituzione del maltolto. Cosa che non avveniva di frequente, malgrado i fulmini del clero: come
diceva re Luigi IX il santo, “è una pessima cosa appropriarsi dei beni altrui perché restituirli è così
arduo che la sola pronuncia della parola rende strozza la gola a causa delle r che contiene, le quali
rappresentano i rastrelli del demonio che sempre trascinano indietro coloro che hanno deciso di
restituire i beni altrui”.


Poi con lo sviluppo dei commerci, l’aumento della circolazione monetaria e la crescita
dell’indebitamento anche il mondo ultraterreno ebbe bisogno di ampliamenti, sicché fu istituito il
Purgatorio, dove pure speculatori e strozzini avevano una chance di redenzione. Un regime di
carcere meno duro, con possibilità di riduzione della pena per buona condotta. I più abili e
meritevoli riescono a strappare un Lodo ad personam e vanno dritti in Paradiso senza fare
anticamera. Basta qualche opera di bene o un oratorio dedicato alla Vergine. Tipico il caso degli
Scrovegni, ricchi mercanti padovani del XIII secolo. Dante schiaffa il padre, Rainaldo, nel girone
degli usurai, ma il figlio Enrico, che consolida il business di famiglia, espia la propria opulenza con
un gesto esemplare di caritas: investe un mucchio di quattrini in una cappella affrescata da Giotto,
raccomandando che il ciclo dei vizi e delle virtù non appaia punitivo verso la sua categoria. Come
biasimarlo? Dopotutto, gli Scrovegni del Duemila non lasciano all’umanità chiese affrescate, ma
ville ad Antigua e si comprano la benevolenza del clero vietando le unioni gay.


Peraltro è difficile mandare all’inferno i mercanti se ci si mostra più avidi di loro. Oltre a dover
venire a patti con le leggi dell’economia, fin dal Medioevo la Chiesa diventa essa stessa una
potenza economica che ha sempre più fame di “pecunia”. È ancora Le Goff a ricordarci che fu il
trasferimento ad Avignone, agli inizi del Trecento, a far impennare le spese della Santa Sede. Sale il
numero dei dignitari della corte (tra 400 e 500, un centinaio in più rispetto all’ultimo papa romano,
Bonifacio VIII) e Clemente V arriva a spendere ben 120 mila fiorini all’anno, di cui 30 mila solo
“per la gestione domestica del suo palazzo tra stipendi, cibo, cera, legna, bucato, fieno,
mantenimento dei cavalli ed elemosine”.

E le entrate? A parte le somme che vescovi e abati devono
pagare al momento della nomina, il grosso proviene dai “censi” corrisposti dal re di Napoli e da altri
signori italiani e dall’obolo di San Pietro versato dai regni scandinavi. “Tutte queste imposte –
osserva lo storico – vengono saldate di malavoglia dai debitori nonostante il frequente ricorso alla
scomunica”. Per forza: sai che gusto foraggiare dei papi che pensano solo a costruire palazzi
sontuosi e ad armare eserciti per difendere le loro terre. Il fisco pontificio è una sanguisuga che
ricorre a ogni mezzo per rimpinguarsi, inclusa la Peste nera che si abbatte sull’Europa dal 1348: “I
benefici di molti titolari morti durante l’epidemia – ricorda Le Goff – vanno ad alimentare
direttamente le finanze della Chiesa”. E quando non sanno a cosa appigliarsi, tirano in ballo la lotta
alle eresie, spauracchio sempre buono per giustificare confische, procure e gabelle. E poi ci
lamentiamo dell’otto per mille e dell’esenzione dall’Ici...


OGGI BENEDETTO XVI tuona giustamente contro il potere distruttore dei “capitali anonimi che
pongono l’uomo in schiavitù” e predica l’avvento di un “mercato buono”, una specie di non profit
universale che ricongiunga le sfere della giustizia e della carità. Ma il suo messaggio perde
credibilità se la finanza vaticana, lo Ior o la Propaganda Fide si comportano con la stessa cupidigia e
scarsa trasparenza dei capitalisti senza Dio. Come scrive Monsignor Giuseppe Casale, arcivescovo
emerito di Foggia-Bovino, in un suo coraggioso libello (Per riformare la Chiesa, edizioni La
Meridiana, pagg. 76, euro 12,00), “la povertà è per la Chiesa un discorso teologico prima che
sociologico”. Dopo la fine dell’alleanza trono-altare la Chiesa cattolica non ha ritrovato la strada del
Vangelo e oggi, “nella opulenta società dell’Occidente aiuta i poveri, ma resta quasi impermeabile
alla scelta della povertà per se stessa. Il culto a Dio giustifica il barocchismo di vesti liturgiche e di
insegne episcopali. La necessità di sostenere opere pastorali spinge a servirsi dei meccanismi della
finanza moderna”. A rischio di incappare nelle maglie della giustizia come i tanti peccatori in
doppiopetto che maneggiano troppo disinvoltamente lo “sterco del diavolo”.



Sabato 30 Ottobre,2010 Ore: 11:14
 
 
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Indice completo articoli sezione:
Dottrina della fede secondo Ratzinger

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