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www.ildialogo.org LE PARABOLE MEDIATICHE DI PAPA RATZINGER E I "TESTIMONI DIGITALI". "UN NUOVO UMANESIMO DIGITALE". Un commento di Umberto Folena sulle giornate del Convegno Cei. E una nota di Federico La Sala,

DALLA MEMORIA EVANGELICA ALLA MEMORIA MEDIATICA: WEB E REVISIONISMO VATICANO. CONTRO LE PARABOLE EVANGELICHE E LE PAROLE DI GRAZIA ("CHARIS) DELL'AMORE DEL "PADRE NOSTRO" E DI GESU' CRISTO ("CHARITAS") ...
LE PARABOLE MEDIATICHE DI PAPA RATZINGER E I "TESTIMONI DIGITALI". "UN NUOVO UMANESIMO DIGITALE". Un commento di Umberto Folena sulle giornate del Convegno Cei. E una nota di Federico La Sala

Una parola che segni la giornata? Più d’una. La prima è discernimento (...) conoscenza approfondita, attenta valutazione critica del mondo (...)Un’altra parola è anima. Anima cristiana. E si trova al centro dell’intervento di Bagnasco, quando indica «le strade possibili di un’anima cristiana per il mondo digitale».


TESTIMONI DIGITALI

 

Un nuovo umanesimo digitale

di Umberto Folena (Avvenire, 24.04.2010)

«E pensare che c’era il pensiero», cantava sul finire del secolo scorso il profeta laico Giorgio Gaber. Una canzone amara, che denunciava l’egemonia del fare e dell’agire, senza senso e senza scopo. Il dominio di una tecnologia che si fa idolatria. Per fortuna che c’è il pensiero, veniva da pensare ieri alla seconda, densa, densissima giornata di «Testimoni digitali». Per fortuna c’è chi nella rete si mette pure a pensare sul senso della rete stessa, e sui suoi nodi ed intrecci; e non soltanto agisce, inebriato dal potere seduttivo della tecnologia.

Una parola che segni la giornata? Più d’una. La prima è discernimento. La traduciamo: voglia e capacità di osservare, ascoltare, comprendere. Insieme, confrontandosi con chi condivide la stessa passione. E come stile permanente. L’invito al discernimento, in modo esplicito, è di monsignor Claudio Giuliodori, presidente della Commissione episcopale per la cultura e le comunicazioni sociali, e di padre Antonio Spadaro, gesuita redattore della «Civiltà cattolica». Discernimento, spiega Giuliodori, senza chiusure superficiali né ingenue adesioni. Più nel dettaglio: conoscenza approfondita, attenta valutazione critica del mondo dei media e della loro influenza. Per Spadaro, se internet è «il luogo delle risposte», spesso affastellate senza una logica chiara, il discernimento consiste innanzitutto nel riconoscere le domande vere all’interno del parco delle risposte. Discernimento. C’è una gran voglia di consapevolezza, di intelligenza, di chiarezza. Di conoscere rotte e venti nel mare della crossmedialità.

E al discernimento si rifà il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, quando invita gli animatori della comunicazione e della cultura a impegnarsi «con intelligenza e fiducia, senza assolutismi ingenui e acritici o demonizzazioni apocalittiche».

La seconda parola è in realtà un gruppo di parole tra loro simili e amiche: persona, uomo, antropologia. «Occorre portare una visione piena e integrale dell’uomo - è l’invito di Giuliodori - un uomo chiamato alla piena comunione con Dio e con i fratelli. Anche nella realtà digitale». È il «nuovo umanesimo digitale» di cui parla Chiara Giaccardi, presentando un’accurata ricerca sui giovani e il mondo digitale, con la rete come «luogo antropologico», dove la relazione può essere centrale, il rischio dell’individualismo disinnescato, lo spazio digitale costruito veramente dal basso. I giovani di cui parla Chiara Giaccardi sono diversi dai bamboccioni privi di sugo emergenti da altre rappresentazioni frettolose, superficiali e facilone, ma di maggiore appeal...

Un’altra parola è anima. Anima cristiana. E si trova al centro dell’intervento di Bagnasco, quando indica «le strade possibili di un’anima cristiana per il mondo digitale». E subito collegata a questa ci sono relazione e comunità, perché «dare un’anima - è sempre Bagnasco - significa restituire densità alle relazioni leggere della rete». Comunità: i mass media, la loro comprensione, la competenza nel saperli leggere e interpretare e «usare» spetta a tutti, non a una minoranza di addetti ai lavori. Il sociologo Guido Gili è netto: «Nell’ambiente globalizzato spetta a tutti comunicare. A tutti darsi una formazione adeguata. A tutti essere comunicatori allenati». Spetta a tutti essere testimoni in quello che Gili definisce «un campo di battaglia, di tensioni, di conflitti». E Spadaro ricorda: è necessaria la testimonianza di tutti, tutti i naviganti del Web. Tutti surfisti, chiamati a domare le onde dei media.

Il convegno sui nuovi (e vecchi...) media si rivela così un appuntamento che dimostra di avere a cuore sempre e comunque la persona, la sua capacità di vivere una vita consapevole, e quindi libera. È un convegno che si rivela un continuo invito alla creatività e alla fantasia, come emerge dalle testimonianze di lavoro sul campo, dal settimanale diocesano alla sala di comunità, da Tv2000 lanciata sul digitale terrestre al quindicinale aquilano risorto nella redazione container, dal neonato servizio parrocchie.map al Portaparola, fino al Consorzio editoria cattolica.

È un convegno che vive in sala e fuori, dove si ritrovano amici antichi e si allacciano amicizie nuove, e la rete si arricchisce di nodi, ed è un continuo scambio di idee, esperienze, valutazioni. I «Testimoni digitali» sono assai reali e amano guardarsi in faccia e parlarsi senza schermi. È un convegno la cui colonna sonora - un brusio fatto di dozzine di voci sottovoce - non è un difetto ma un pregio. Sono comunicatori che amano dialogare.

Umberto Folena


  Avvenire, 24.04.2010

 

  Il Papa: «Spianare la strada a nuovi incontri»

«Il tempo che viviamo conosce un enorme allargamento delle frontiere della comunicazione, realizza un’inedita convergenza tra i diversi media e rende possibile l’interattività». Lo ha detto, stamattina, Benedetto XVI, ricevendo in udienza nell’Aula Paolo VI i partecipanti al convegno. La rete manifesta, ha osservato il Papa, «una vocazione aperta, tendenzialmente egualitaria e pluralista, ma nel contempo segna un nuovo fossato: si parla, infatti, di digital divide. Esso separa gli inclusi dagli esclusi e va ad aggiungersi agli altri divari, che già allontanano le nazioni tra loro e anche al loro interno».

Non solo: «Aumentano pure i pericoli di omologazione e di controllo, di relativismo intellettuale e morale, già ben riconoscibili nella flessione dello spirito critico, nella verità ridotta al gioco delle opinioni, nelle molteplici forme di degrado e di umiliazione dell’intimità della persona». Questo convegno, invece, ha sottolineato il Pontefice, «punta proprio a riconoscere i volti, quindi a superare quelle dinamiche collettive che possono farci smarrire la percezione della profondità delle persone e appiattirci sulla loro superficie: quando ciò accade, esse restano corpi senz’anima, oggetti di scambio e di consumo».

«L’amore nella verità» costituisce «una grande sfida per la Chiesa in un mondo in progressiva e pervasiva globalizzazione» e i media possono diventare «fattori di umanizzazione», ha affermato Benedetto XVI, «non solo quando, grazie allo sviluppo tecnologico, offrono maggiori possibilità di comunicazione e di informazione, ma soprattutto quando sono organizzati e orientati alla luce di un’immagine della persona e del bene comune che ne rispetti le valenze universali».

Ciò richiede, ha proseguito il Papa, richiamando la sua enciclica “Caritas in Veritate”, che «essi siano centrati sulla promozione della dignità delle persone e dei popoli, siano espressamente animati dalla carità e siano posti al servizio della verità, del bene e della fraternità naturale e soprannaturale». Solamente a tali condizioni, ha avvertito il Pontefice, «il passaggio epocale che stiamo attraversando può rivelarsi ricco e fecondo di nuove opportunità. Senza timori vogliamo prendere il largo nel mare digitale, affrontando la navigazione aperta con la stessa passione che da duemila anni governa la barca della Chiesa. Più che per le risorse tecniche, pur necessarie, vogliamo qualificarci abitando anche questo universo con un cuore credente, che contribuisca a dare un’anima all’ininterrotto flusso comunicativo della rete».


 

 

 

I TESTIMONI DIGITALI,  IL VECCHIO SPIRITO DELLA MENZOGNA,  E  IL BUON USO DELLA PAROLA  E DEL BUON-MESSAGGIO ("EU-ANGELO") . *

 

 

Per fortuna che c’è il pensiero... Dopo duemila anni di  e-vangelizzazione (forzata e in-crociata) di una Gerarchia  che ha sempre e per lo  più identificato "Dio" con "Mammona" e "Cesare" con "Erode", l’"eu-charistia" con l’"eu-carestia",  è bene che si torni a riflettere sul comunicare - sull'evangelizzare, sulla Parola,  e sul "discernimento",  sulla capacità di "conoscenza approfondita, attenta valutazione critica"!!!

Se no, che ce ne facciamo del "pensiero" di persone dalla coscienza accecata dalla voglia di potere universale ("cattolico") e dalla lingua biforcuta, che contabbandano "anima cattolica" come "anima cristiana", "cattolicesimo" come "cristianesimo", la grazia ("charis") dell’amore divino ("charitas") come il "caro-prezzo" ("caritas") del Dio Ricchezza ("Deus caritas est": Benedetto, XVI)?!

Solo così,  il convegno sui nuovi (e vecchi...) media poteva essere un appuntamento che poteva dimostrare "di avere a cuore sempre e comunque la persona, la sua capacità di vivere una vita consapevole, e quindi libera"! Ma così non è stato ...  Come se fino ad oggi non fosse successo niente!!! Né la nascita di Gesù Cristo ("I.ch.th.ù.s") ... né Auschwitz !!!

 

 

 

 Federico La Sala (24.04.2010)

 

*

 

VATICANO: CEDIMENTO STRUTTURALE DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. Benedetto XVI, il papa teologo, ha gettato via la "pietra" su cui posava l’intera Costruzione.



Sabato 24 Aprile,2010 Ore: 15:38
 
 
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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 24/4/2010 17.00
Titolo:Per un buon uso delle parole
Per un buon uso delle parole

di Annamaria Rivera (Missione Oggi, n. 4, aprile 2010)

Se, parafrasando Leopardi, si mutassero i detti e si cominciasse a chiamare le cose coi nomi loro, forse si potrebbe contrastare con più efficacia il razzismo dilagante. V’è però che il cattivo linguaggio oppure "solo" tendenzioso è parte del problema. I lessici deformanti, le retoriche e le rappresentazioni negative degli altri o la propensione a mascherare "il male" dietro gli eufemismi sono, infatti, al tempo stesso una delle cause e uno degli effetti di quel sistema complesso e multidimensionale che chiamiamo razzismo: un sistema, spesso subdolo, di disuguaglianze giuridiche, economiche e sociali, di solito caratterizzato da forti scarti di potere fra i gruppi sociali coinvolti.

Dunque, per contrastare il razzismo è utile, benché non sufficiente, decostruire e smascherare le parole e le retoriche di cui esso si serve o che inventa, avalla o afferma come se fossero verità indiscutibili.

PER UN’ECOLOGIA DELLE PAROLE

Come scriveva Etienne Balibar nel lontano 19882, la distruzione del sistema-razzismo presuppone tanto la rivolta delle sue vittime quanto la trasformazione dei razzisti stessi, "e di conseguenza la decomposizione interna della comunità istituita dal razzismo". Anche se da sola è insufficiente, l’opera di "ecologia delle parole" rappresenta uno dei mezzi, se non per decomporla, almeno per intaccare la compattezza della comunità razzista, e per provare così a metterla in crisi.

Per non rimanere nell’astrazione, conviene fare riferimento alla situazione specifica del nostro paese, caratterizzata, a mio parere, da un razzismo istituzionale tanto estremo e incalzante da alimentare, per il tramite decisivo dei mezzi di comunicazione di massa, forme diffuse di xenofobia popolare. Corollario e nel contempo agente di questo processo è il progressivo scadimento del linguaggio pubblico, che ormai sembra sottratto a ogni freno inibitorio.

Ciò che fino a un ventennio addietro era considerato pubblicamente indicibile oggi è del tutto ammesso. Per meglio dire, la caduta dell’interdetto fa sì che neppure ci si interroghi sulla sua dicibilità: pochi si scandalizzano se qualcuno, per fare un esempio fra i tanti, osa affermare in pubblico che i topi "sono più facili da debellare degli zingari, perché sono più piccoli".

QUANDO SI DICE "BUONISMO" "CPT" E "SICUREZZA"

Ma non v’è solo il consueto fraseggio leghista denigratorio e grossolano, né solo il lessico usuale del disprezzo (assunto perfino dal linguaggio normativo e burocratico) che, come fosse del tutto ovvio, nomina i/le migranti con appellativi stigmatizzanti, inferiorizzanti e de-umanizzanti: "clandestini", "extracomunitari", "badanti", "vu cumprà" o addirittura "vu lavà". V’è anche un gergo del senso comune razzista in apparenza innocente, che usa vocaboli connotati ideologicamente come fossero neutri. Si pensi al neologismo buonismo (e buonista), con il quale si è soliti bollare le politiche inclusive ed egualitarie e i discorsi solidali e umanitari nei confronti dei migranti e delle minoranze.

È un termine che appartiene alla stessa famiglia semantica di pietista, a suo tempo usato come un’accusa contro quegli italiani che, dopo l’approvazione delle leggi antiebraiche, cercarono di difendere, proteggere, aiutare i loro concittadini ebrei.

Quando poi si tratta di mascherare la gravità di misure contro i migranti, si abbonda in eufemismi ingannevoli: per tutti si può citare l’ormai sorpassato ossimoro verecondo "Centri di permanenza temporanea", al quale coloro che non conoscono pudore né interdetti, o che amano sfidarli, hanno di recente preferito il ben più esplicito "Centri di identificazione e di espulsione" (che fra breve potrebbero decidere di sostituire col più sbrigativo lager). E si consideri il ricorso sempre più frequente, quasi ossessivo, a "sicurezza", anch’esso usato a minimizzare la portata di norme emergenziali, anticostituzionali o apertamente razziste come il recente "pacchetto-sicurezza".

"POGROM" E "RAZZISMO": ESAGERAZIONI VERBALI?

Per contro, nominare il male, questo sì è considerato scandaloso: coloro che non temono gli interdetti e che abitualmente ripropongono dicerie, pregiudizi, lessici denigratori richiamano al rigore e alla correttezza verbale chi osa nominare col loro nome le cose del razzismo.

Per esempio, v’è, anche fra i colti, chi obietta che razzismo e pogrom non sono altro che esagerazioni verbali di tipo isterico: che pogrom è quello che non ha come esito il massacro e che razzismo è quello che non contempla esplicite gerarchie razziali, apartheid e soluzione finale? E poi si sa, affermano di solito costoro, a evocare certi fantasmi si rischia di dar loro corpo. "Calunniare come oscurantista chi si ribella contro l’oscurità"’ è una delle strategie retoriche per occultare il male, con ciò perpetuandolo.

Si dirà che queste considerazioni sono secondarie rispetto alla realtà corposa della discriminazione e del razzismo. Eppure è su una montagna fatta anche di cattive parole e di pessime retoriche che si è sedimentato - e riprodotto e legittimato - il razzismo quale oggi si manifesta in Italia.

Non comprenderemmo pogrom come quelli di Ponticelli (con la cacciata dell’intera popolazione rom della zona a sassaiole e insulti) e di Rosarno (con messa in fuga o la deportazione, decisa dalle istituzioni, di tutti i braccianti africani) se non dessimo importanza anche alle parole che li hanno resi possibili: le dicerie - la leggenda della zingara rapitrice che ha scatenato la furia popolare a Ponticelli - e gli insulti razzisti - "questi sono bestie", si è sentito dire a Rosarno da comuni cittadini - non sono secondari poiché fanno parte del meccanismo che dà avvio al pogrom.

Per inceppare e disarticolare la meccanica razzista è d’obbligo cominciare a chiamare le cose coi loro nomi. Per fermarla è necessario che i discriminati, inferiorizzati, perfino deumanizzati si facciano artefici collettivi della propria liberazione e quindi della dissoluzione della comunità razzista.

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