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www.ildialogo.org USI E COSTUMI DEI PAESI DELLA CIVILTA’ CONTADINA: Il pranzo di Natale della “Castiellovetere “ di una volta.,di NINO LANZETTA

Irpinia
USI E COSTUMI DEI PAESI DELLA CIVILTA’ CONTADINA: Il pranzo di Natale della “Castiellovetere “ di una volta.

di NINO LANZETTA

Oggi i Natali si assomigliano tutti, dai paesi più sperduti dell’alta Irpinia ad ogni più deserta landa dove arriva la televisione. Il pranzo di Natale lo dettano gli chef che impazzano su tutte le reti e a tutte le ore. E anche i tradizionali cenoni di Natale o di Capodanno sono dettati dalle mode e dalla pubblicità più che dalle tradizioni ed i prodotti, che una volta erano quasi esclusivamente locali e tipici delle stagioni, ora arrivano dalle più lontane regioni del mondo, senza differenza tra inverno ed estate. Anche la cultura e le tradizioni si globalizzano. I menù sono più sofisticati, i vini abbinati alle pietanze ed i palati si sono abituati ai nuovi sapori e ai nuovi gusti, industrialmente modificati. Ormai le feste sono pubblicizzate dal consumismo impazzante più per una variazione di menù che per sentimenti che ispirano le tradizioni e il lato edonistico ha finito per prevalere su quello religioso.
Se fossde possibile, sarebbe bello tornare alle antiche usanze e rispolverare le usanze dei menù natalizi di una volta. Tornare all’austerità delle tradizioni contadine nella speranza (ahimè illusoria!) di ricreare la stessa atmosfera e forse respirare, anche se solo per un istante, il clima degli anni dell’infanzia e a far immaginare ai figli ed ai nipoti come vivevano i propri nonni.
Per prima cosa si metteva nel vecchio focolare un grosso ceppo (senza un bel fuoco schioppettante era come se non fosse Natale!) e preparava il cenone alla maniera degli avi.
Non erano serviti antipasti: si cominciava direttamente dai vermicelli al sugo di acciughe. Nei paesi dell’Alta Irpinia esistevano pescherie e le vongole erano una rarità che si potevano comprare solo nelle città, allora quasi irraggiungibili a dorso di muli o con i traini.
Poi era la volta del baccalà, quello “crispiello”, essiccato ai venti freddi dei paesi nordici, rigorosamente senza conservanti o sale. In linea di massima era servito in bianco, scaldato ed adagiato su uno strato di peperoni di Paternopoli conservati sotto aceto, o fritto nella farina o nella pastella. Seguiva il classico capitone, che alcune botteghe di alimentari portavano per l’occasione, arrostito alla brace e bagnato, con un ramo di rosmarino, continuamente con olio e aceto e per contorno la scarola imbottita con pane grattugiato, acciughe, uva passa, aglio e formaggio.
Il vino, tassativamente era il bianco del vitigno coda di volpe – in quei paesi dove non si coltivava il greco o il fiano, che oggi hanno fatto la fortuna dell’Irpinia. Il boccale col vino, prelevato poco prima dalla botte di castagno, era portato in tavola direttamente dal sottano (“vascio”) dove si manteneva sempre fresco o si teneva sul davanzale della finestra, si accompagnava brillantemente ai cibi serviti. Per frutta, noci, fichi secchi di sant’Anna, “piennici d’uva” conservati appesi alle travi della cucina e le ormai introvabili pere d’inverno, di un bel colore tendente al marrone acceso, così dette perché maturavano a dicembre, anche se si coglievano ad ottobre inoltrato. Infine mostaccioli e roccocò e per chiudere il classico bicchierino di Strega.
Poi tutti alla messa di mezzanotte che, nella Castiellovetere di una volta, si celebrava nella Chiesa madre che si trova nella parte più alta del paese che si chiama ripa per via di un grosso sperone di roccia che si affaccia a picco sulla sottostante valle del Calore. Non mancava il classico Presepe, sempre lo stesso, così come lo allestiva Feo, il vecchio sacrestano, con la creta ed il muschio per fare le montagne e le vere pietre e la sabbia per le strade. Una lampadina illuminava la grotta santa, e qualche mandarino pendeva dai rami di pino che simboleggiavano gli alberi. I pastori erano di legno ed avevano vestiti di panno antico e sdrucito.
La musica dei canti gregoriani proveniva da un vecchio organo a canne azionato a mano da ragazzi che facevano peso anche con il corpo su due leve alternandole con una certa fatica, ed emanava suoni melodiosi e suadenti.
La messa si celebrava in latino (rito che andrebbe rispolverato qualche volta anche oggi, almeno di Natale!), ed anche se non se ne capivano sempre le parole, creava una atmosfera di solidarietà e di fratellanza e al canto del “Tu scendi dalle stelle” avvertivi qualche brivido salire per la schiena e ci si sentiva tutti un po’ più buoni e in pace con se stessi e gli altri.
Il giorno di Natale era più formale, e la mattina passava veloce, indaffarati come si era a fare gli auguri ai parenti, anche allo scopo di lucrare qualche lira. Poi a mezzogiorno (allora si mangiava tutti a mezzogiorno e il suono della campana era il segnale del tutti a tavola) a consumare il classico cappone o il più usuale coniglio con gli zitoni o schiaffoni comprati alla bottega perché in quei giorni “comandati”, come si diceva allora, le donne non facevano la pasta in casa, come avveniva abitualmente. Poi struffoli e il classico aglianico. Non c’era il panettone e, e per fortuna, neanche l’ombra di un supermercato!
In pomeriggio tutti al bar o al “caffé,” come allora si chiamava, dove si consumavano interminabili partite a stoppa o a sette e mezzo.
Ma Natale veniva una sola volta all’anno e anche le feste erano troppo poche per soddisfare l’enorme fame che allora avevano i ragazzi. Forse perché si scorrazzava dalla mattina alla sera, forse perché l’esuberanza era notevole, di certo è che si aveva sempre fame e vedere bambini con enormi “cantoni” di pane non era raro.
La cucina era tradizionale e la maggior parte dei cibi, che si consumavano, si producevano sul posto. Si andava a comprare alla bottega pochissimo, sia perché di moneta ne girava poca, sia perché ognuno aveva del terreno e un orto dal quale ricavavano verdura, fagioli, grano e quant’altro serviva alla bisogna familiare. Problematica era la situazione delle famiglie con molti figli (e allora ce n’erano tante!). Molti allevavano conigli in casa e le galline stavano dappertutto. Per non farle entrare gli usci delle case erano sbarrati dai cosiddetti “portielli” che facevano sì che si potesse lasciare la porta aperta sia per permettere la fuoruscita del fumo, che era una costante fastidiosissima della gran parte delle case di allora, sia per non lasciare entrare i gatti, e anche per vedere chi passava e magari scambiare qualche chiacchiera o pettegolezzo.
Si viveva, specie d’estate, un po’ dentro e un po’ fuori. In tutte le case si allevavano conigli che si “ammasonavano” sotto il forno o in locali attigui all’abitazione. Molte famiglie “crescevano il maiale” che forniva lardo, prosciutto, salami, “sopersate” capicolli che, se non venduti per comprare alimenti più necessari, per molte famiglie costituivano il companatico per tutto l‘anno. “Menesta e pizza” era l’alimento principale di molte famiglie più povere. Mica c’erano i tanti formati di pasta come oggi: solo i classici ditali che si chiamavano “gnucchitti”, le linguine per tutti i giorni e gli zitoni per le feste. La pasta e fagioli si faceva con i “morzoni”, scarti di lavorazione di pasta che si conservavano in sacchi di iuta, come del resto la pasta corta. Quella lunga veniva grossolanamente avvolta in grossi fogli di carta color avio in quantitativi da cinque chili che veniva venduta sfusa e presa con le mani: allora non c’erano i guanti di plastica o lattice.
Altro elemento di fondo nell’alimentazione del tempo erano le patate e in genere i legumi. Di carne se ne consumava poca: non c’erano le pensioni dell’Inps e i salari erano del tutto sconosciuti perché, per tutti gli anni Quaranta e Cinquanta, non c’erano operai ma quelli che non avevano terreni- ed erano quindi i più poveri- facevano i braccianti agricoli ed erano pagati a giornata, cosa che avveniva con frequenza molto saltuaria; pochi altri, invece, facevano i coloni o mezzadri, e questi stavano già meglio. La carne era un lusso e riservata ai soli giorni di festa.
In quegli anni le due macellerie, quella di “Diadoro” in via S. Maria delle Grazie e quella di Giubba a pochi passi, vendevano solo carne di agnello e di capra; (il vitello non si macellava perché troppo grande e la carne sarebbe rimasta invenduta, come il maiale che ammazzavano tutti), non avevano bancone frigorifero né affettatrice, solo qualche coltellaccio e l’enorme tronco di legno sul quale selezionavano la carne, prelevandola da un uncino di ferro al quale era appesa avvolta in un panno zanzariera.
Solo molto tempo dopo ne vennero aperte altre, una in piazzetta Santa Croce ed una alla staccia, me le prime avevano già chiuso. La “chianca” di Giubba era poco più di un bugigattolo: non entravano più di due persone per volta. Ma non ce n’era bisogno perché i clienti si contavano sulle dita delle mani. Giubba prima di comprare la capretta e macellarla aveva, già provveduto a venderne (esempio di marketing che sembra invenzione moderna solo perché è divenuta tecnica di vendita codificata ed analizzata), sulla parola, una buona quantità: almeno il controvalore dell’acquisto. La macellazione, poi, era uno spettacolo al quale non bisognava mancare. Vi ho assistito numerose volte e ricordo benissimo la ritualità dell’operazione. Giubba, che era un omone robusto e forte, si toglieva la giacca rimanendo in “cammisola”; si rimboccava le maniche della camicia e cominciava ad affilare i coltelli che gli sarebbero serviti per l’operazione. Prendeva la malcapitata capretta, che si contorceva e sbraitava quasi fosse consapevole del sacrificio cui sarebbe stata sottoposta, e la metteva, coricata su un fianco, nello scannatoio che stava nel vicolo, dopo averne legato i piedi. Poi, tenendola ferma, affondava nella vena giugulare un appuntito punteruolo, badando a far cadere il sangue, che scorreva a rivolo, in un grande secchio di alluminio. Con questo sangue, bollendolo, si faceva la “sangia”. Mai a caso, a questo punto, finiva quasi sempre per comparire il muto di Pandòla, un omone grosso e robusto, che finiva per berne, così a caldo, una buona quantità. Slegato l’animale, ormai immobile e rivoltato pancia in su, Giubba afferrava un appuntito coltello e, fatto un buco a fianco del nervo di un piede posteriore, cominciava a soffiarvi dentro con tutto il fiato che aveva in corpo, tenendolo pressato con la mano per riprendere forza, fino a che il vello dell’animale si gonfiava tutto e veniva facilmente asportato intero per essere venduto ai solofrani per la concia.
Si apriva l’animale dal lato ella pancia e si estraevano le parti interiori: cuore, fegato, polmoni, intestini, tutto l’insieme che costituiva il fritto. Poi si spaccava l’animale in due parti dopo averne asportata la testa e i piedi e si attaccava al gancio in attesa del veterinario che, dopo averlo esaminato, ne autorizzava la vendita apponendo in molte parti della pelle un timbro con il tipico inchiostro rosso, che rimaneva indelebile anche dopo la cottura.
La carne di capra è squisita e fa un denso sugo rosso, che si sposa particolarmente con la pasta grossa, come schiaffoni o zitoni; il fritto poi è un’autentica specialità. Oggi è difficilissimo trovarne, ma vale la pena fare anche molti chilometri alla ricerca di una macelleria che ancora la vende. Credo sia una delle carni più sicure e certamente non fatta crescere artificialmente con estrogeni.
Nella miseria degli anni del dopoguerra si aspettavano le feste per mangiare bene ed in abbondanza ed i menù si accompagnavano ai riti religiosi e non li sostituivano come oggi. E, poi, la fame atavica specie per i ragazzi, li giustificava. “Panza mia fatti capanna” amavano ripetere fra loro quando si aspettava Natale, pensando ad un lauto pranzo-
NINO LANZETTA



Mercoledì 16 Dicembre,2015 Ore: 22:36
 
 
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