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www.ildialogo.org Paolo Naso: "Quando le comunità di fede fanno integrazione",  a cura di Gaëlle Courtens

INTERVISTA
Paolo Naso: "Quando le comunità di fede fanno integrazione"

  a cura di Gaëlle Courtens

Roma (NEV), 19 giugno 2013 - Lo scorso 17 giugno è stato presentato all'Università "La Sapienza" di Roma il vademecum "Religioni, dialogo, integrazione" a cura del Dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione - Direzione centrale degli affari dei culti del Ministero dell'Interno.

Il rapporto, redatto a conclusione del progetto "Promozione del dialogo interreligioso", realizzato da Com Nuovi Tempi e IDOS, e finanziato con il Fondo europeo per l'integrazione, prende le mosse dalla convinzione che l'appartenenza religiosa, espressione fondamentale dell'identità personale, è destinata a giocare un ruolo essenziale nel processo di integrazione. Sei le città campione del progetto: coinvolte le prefetture di Torino, Bergamo, Reggio Emilia, Perugia, Caserta, Catania insieme alle comunità di fede sul territorio, rappresentanti delle istituzioni e della società civile (vedi notizia in questo numero). Ne abbiamo parlato con Paolo Naso, docente di Scienza politica alla Sapienza - Università di Roma e coordinatore del programma "Essere chiesa insieme" della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI), che ha diretto il progetto.

Paolo Naso, in che modo l'appartenenza religiosa può aiutare i processi di integrazione?

Le comunità di fede svolgono un fondamentale ruolo sociale. Soprattutto quando sono composte in prevalenza o esclusivamente da immigrati costituiscono un luogo fondamentale di socializzazione primaria: molto spesso è proprio in chiesa, in moschea, nel tempio sikh che si ricostruiscono legami spezzati dal trauma dell’emigrazione, che si risolvono dubbi e interrogativi sulle procedure burocratiche o che si discute di temi quali la scolarizzazione dei figli, l’apprendimento della lingua italiana o l’accesso ai servizi. D’altra parte, gli immigrati che frequentano comunità di fede composte anche da italiani – significativa a riguardo proprio l’esperienza di "Essere chiesa insieme" - in quest’ambito vivono una esperienza di integrazione particolarmente intensa e coinvolgente, direi privilegiata visto che l’Italia tarda a realizzare politiche di integrazioni pure urgenti e fortemente raccomandate dalle istituzioni europee.

Perché è importante lavorare con le istituzioni su un tema come quello del pluralismo religioso e il dialogo tra fedi?

Perché il dialogo ha anche una dimensione sociale e civica. Spesso si pensa al dialogo interreligioso come incontro ai vertici delle comunità nel quale alcune autorità si confrontano teologicamente su ciò che unisce e ciò che divide: quello che si suole definire il “dialogo delle verità”. Ma esiste anche un altro piano di confronto, quello tra uomini e donne di fedi diverse che certo non passano il loro tempo a discutere di dogmi ma che sono interessati a vivere insieme – loro e i loro figli – conoscendo e riconoscendo le identità degli altri, anche quelle religiose. Le istituzioni non hanno titolo per intervenire nel merito di questo dialogo “della vita” ma hanno la responsabilità di aprire spazi perché possa crescere e svilupparsi a beneficio dell’integrazione, della coesione civica e, vorrei dire, di una società democraticamente pluralista. Il fatto che la Direzione centrale per gli affari dei culti del Ministero dell’Interno abbia realizzato un progetto in questa direzione è un segnale importante che attesta una nuova sensibilità istituzionale da cogliere e valorizzare.

Sono numerose le buone pratiche di pluralismo e di dialogo già esistenti sul territorio. Ma dove si annidano le criticità, e in che cosa consistono?

E’ vero, sono numerose e spesso interessanti le esperienze di dialogo a volte promosse dalle comunità di fede, altre da associazioni, altre ancora da enti locali: quello che manca, però, è un “quadro” che le metta a sistema e faciliti la diffusione più omogenea a livello nazionale.

Le criticità più ricorrenti riguardano i luoghi di culto. La questione è divenuta molto seria in Lombardia dove, utilizzando alcune norme in materia di gestione del territorio, negli ultimi mesi sono stati chiusi vari luoghi di culto, alcuni dei quali utilizzati da chiese evangeliche africane. Permangono anche difficoltà nell’accesso dei ministri di culto negli istituti di pena; resta irrisolto il tema delle “religioni a scuola” dove ogni giorno di più si avverte la carenza di percorsi formativi interculturali e quindi necessariamente attenti anche alle “altre” fedi. Ma al fondo, la madre di tutte le criticità è la mancanza di una legge organica sulla libertà religiosa. La legge in vigore, del 1929, è palesemente inadeguata a governare fenomeni così complessi come quelli connessi al nuovo pluralismo religioso in Italia, ed allora - semplicemente - occorre una nuova legge. Nel frattempo, però, bisogna utilizzare bene le maglie più larghe delle norme in vigore.

Nel Vademecum lei distingue tra pluralismo religioso nuovo e vecchio: si spieghi meglio, che cosa intende?

Intendo dire che è un errore associare il pluralismo religioso all’immigrazione: l’Italia ha una storia millenaria di presenze religiose “altre” che non possono essere neglette solo perché a lungo perseguitate e marginalizzate. Penso ai millenari insediamenti ebraici, ai musulmani presenti in vaste regioni del Sud per secoli, ai valdesi, ai luterani, agli ortodossi. L’Italia ha insomma un’antica storia di pluralismo religioso che merita di essere valorizzata proprio quando si riconosce la rilevanza di un “nuovo” pluralismo connesso con i flussi migratori.



Sabato 22 Giugno,2013 Ore: 22:21
 
 
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