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www.ildialogo.org Olav Fykse Tveit. Tra le religioni va promosso il concetto del "buon vicinato",a cura di Gaëlle Courtens

Olav Fykse Tveit. Tra le religioni va promosso il concetto del "buon vicinato"

a cura di Gaëlle Courtens

Roma (NEV), 26 gennaio 2011 - In occasione della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, il pastore luterano norvegese Olav Fykse Tveit, segretario generale del Consiglio ecumenico delle chiese (CEC), ha partecipato giovedì 20 gennaio a Roma ad un incontro presso il Centro Pro Unione. Lo abbiamo incontrato e, a un anno dall'inizio del suo mandato, gli abbiamo chiesto di fare un bilancio della sua esperienza alla guida dell'organismo ecumenico con sede a Ginevra (CH), che raccoglie 349 chiese ortodosse, anglicane e protestanti in 110 paesi del mondo.
Pastore Tveit, a poco più di un anno dal suo insediamento a segretario generale ci può dire quali sono oggi le maggiori sfide che deve affrontare il movimento ecumenico mondiale?
Come cristiani non siamo ancora giunti ad un consenso su molti temi. Uno stato delle cose che durerà ancora a lungo. Nel frattempo però dobbiamo imparare a non giudicarci l'un l'altro, evitando che alcune delle questioni morali ed etiche che più ci dividono dominino la riflessione. Ecco una tra le maggiori sfide che come CEC vogliamo affrontare, senza mai dimenticare che in ogni caso siamo chiamati ad essere uno. In questo senso il CEC svolge una importante funzione di leadership del movimento ecumenico. Ma le sfide sono tante, a cominciare da quelle tra le chiese del Sud e del Nord del mondo, o quelle di tipo finanziario.
Concretamente come crede si debba procedere per superare le divisioni?
Anche se come cristiani di diverse tradizioni dobbiamo ancora individuare come scendere a patti su molte questioni, penso per esempio all'ordinazione delle donne, la nostra chiamata all'unità è un dato di fatto, non può essere ignorata. L'idea è questa: in ogni cosa che facciamo dobbiamo chiederci come meglio esprimere la nostra chiamata all'unità. Mi spiego meglio: quando per esempio lavoriamo per la pace, dobbiamo porci la domanda di come essere "uno" quando ci occupiamo di pace. Ci dobbiamo chiedere incessantemente come contribuire all'unità attraverso il nostro lavoro. Questa è la nostra missione e ci deve guidare nella nostra azione.
Il bilancio di questo primo anno è in positivo?
In questo anno ho avuto l'occasione di viaggiare molto per visitare numerose chiese nel mondo. L'incredibile varietà delle comunità è davvero stimolante e incoraggiante: una diversità che va celebrata. Anche perché con ogni incontro ci si arricchisce, ci si conosce meglio, ed è l'unica via per celebrare l'unità nella diversità. In un anno ho potuto inoltre constatare che sono tante le porte aperte. L'interesse per il CEC c'è, e in particolare per il nostro specifico contributo che possiamo dare al movimento ecumenico: dai pentecostali agli evangelicali alla chiesa cattolica. E da parte nostra c’è la volontà di andare a vedere cosa c'è dietro queste porte.
Poi sul fronte del dialogo con il mondo islamico stiamo portando avanti l’idea di una task force che si mobiliti ogni qualvolta si verifichino situazioni di possibile conflitto tra cristiani e musulmani. Dopo una prima consultazione a novembre con esponenti della World Islamic Call Society, del Royal Aal al Bayt Institute di Giordania e del gruppo di intellettuali musulmani della lettera dei 138 “Una parola comune”, siamo ora in fase di definizione di questa unità di crisi cristiano islamica.
Per rispondere alla sua domanda, direi di sì, un primo bilancio indubbiamente positivo.
Il dialogo come unico viatico per una pacifica convivenza tra comunità di fede?
Forte della mia esperienza di collaborazione tra cristiani e musulmani in Norvegia dopo lo scandalo delle vignette danesi contro Maometto, ho voluto tentare la stessa strada anche al CEC. Nel mio paese, grazie ad un dialogo franco e costruttivo tra cristiani e musulmani, eravamo riusciti insieme a reagire alle inevitabili conseguenze che lo scandalo delle vignette offensive aveva portato anche in Norvegia. In quell’occasione ho capito l’importanza del dialogo costante e continuativo. Solo conoscendosi è possibile reagire compatti, uomini e donne di fede, alle crisi che via via si delineano e che hanno per scopo la divisione delle società. Con la task force cristiano islamica, ancora in via di definizione, vogliamo dotarci di uno spazio dove riflettere per evitare o anticipare queste crisi, per capire come reagire per fare in modo di scongiurare un eventuale conflitto tra cristiani e musulmani. Come leader religiosi siamo consapevoli della responsabilità che abbiamo nel rispondere in modo adeguato e possibilmente congiunto ad ogni violenza contro l’una o l’altra comunità di fede. Troppo spesso, e in modo semplicistico, questi conflitti sono tacciati come religiosi. Non possiamo permettere che si strumentalizzi la religione di nessuno. Non possiamo permettere che il musulmano venga equiparato all’estremista: un’equazione da respingere.
Durante la consultazione di novembre a Ginevra insieme ai nostri fratelli musulmani abbiamo già avuto l’occasione di prendere una posizione congiunta sia sulla situazione in Sudan che su quella in Iraq. Quello che più ci preme è far intendere che non vi è legittimazione alcuna per portare un conflitto alla escalation per mezzo della religione.
Con la strage dei copti di Alessandria d’Egitto, prontamente condannata dal CEC, è tornato alla ribalta il tema delle persecuzioni dei cristiani nel mondo. Dopo questo attentato com'è proseguito il dialogo con i leader religiosi del mondo islamico?
Se possibile si è ancora intensificato. Il 10 gennaio sono intervenuto a Tripoli in Libia alla World Islamic Call Society, dove ho tenuto una lezione sul “buon vicinato”. Accettare e rispettare il prossimo comincia con la domanda: "che tipo di vicino sono io?". Sono convinto della forza che può avere, se applicato, questo concetto nel trasformare positivamente le società. Lo si è visto in Egitto. Dopo il massacro dei copti mi sono recato al Cairo da papa Shenouda III, capo della chiesa ortodossa copta, per portare le condoglianze del CEC. Durante la mia visita mi ha colpito la solidarietà di tutti gli egiziani nei confronti della comunità cristiana e tra gli stessi capi religiosi. La volontà di avere un Egitto unito, contro ogni forza di divisione, era percepibile persino nelle strade. La migliore protezione che possono avere i cristiani in Egitto è quella dei loro fratelli musulmani. Ecco il senso del "buon vicinato".
Per quanto riguarda le chiese cristiane nei paesi a maggioranza musulmana, il compito del CEC è quello di sostenerle aiutandole a sviluppare un dialogo. Non c'è una risposta facile a questo problema e soprattutto non c'è una ricetta unica, ma dobbiamo trovare insieme ai nostri partner musulmani le modalità che possono variare da situazione a situazione.


Giovedì 27 Gennaio,2011 Ore: 15:12
 
 
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