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www.ildialogo.org Chiese strumento di pace?,di Enrico Peyretti

CONVEGNO ECUMENICO A MILANO - 2 giugno 2010
Chiese strumento di pace?

di Enrico Peyretti

Per la continuazione della riflessione sul piano biblico-teologico, anche in vista di Kingston 2011, vedo alcuni punti:
 
1. L’idea di sacrificio, incorporata nel cristianesimo storico, estremamente ambigua, implica violenza teologica. Nelle nostre lingue significa due cose opposte: a) nella storia delle religioni, distruzione di altri (frutti, animali, umani) per la propria salvezza; b) nella vita di tutti, impegno e offerta di sé a rischio della vita, per la salvezza di altri (p. es. quello che affoga per salvare un bambino). La morte di Cristo può essere detta sacrificio solo nel secondo senso – di amore coraggioso “fino in fondo” (Gv 13,1), per fedeltà all’annuncio del regno, nonostante il male che lo violenta – ma è stata a lungo (o è ancora) intesa come voluta dal Padre per ottenere adeguata espiazione dei peccati dell’umanità col sacrificio dell’innocente. Una simile teoria implica l’idea di un Dio violento, cioè un kakangelion, annuncio di Male. Se le chiese vogliono portare pace devono ripensare a fondo l’idea di sacrificio, oppure abolirla, perché con Cristo ogni sacrificio è finito e l’offerta di sé non è distruttiva, ma creativa di nuova vita.
 
2. Sul problema annoso se l’umanità sia violenta per natura o successivamente corrotta, oggi ci possono aiutare le neuroscienze e la paleoantropologia. Sembra accertato che gli esseri umani abbiano vissuto circa 90.000 anni praticamente senza violenza e guerra (esistono ancora piccole società “primitive” strutturalmente nonviolente), per poi cominciare a opprimersi e uccidersi circa 8.000 anni fa, probabilmente con la rivoluzione agricola, attraverso una sequenza di cause ed effetti (accumulazione di cibo, divisione del lavoro, società numerose e gerarchiche, insediamenti recintati, distinzione dentro-fuori) che avrebbero portato alla violenza strutturale e alla guerra organizzata. Questa ricostruzione si riferisce sempre ad eventi socio-culturali, non a inesistenti istruzioni innate e ataviche. Attribuire la violenza ai geni e alla natura è utilissimo a giustificarla o presentarla come praticamente insuperabile. Ciò non toglie nulla alla drammatica profonda introiezione della violenza nelle culture e nelle psicologie storiche, quindi nelle persone.
 
3. Il precetto ebraico-cristiano è “non uccidere” (a lungo limitato alla società di appartenenza). Il precetto buddista è “non lasciare uccidere”. Gandhi arriva a dire che, quando davvero non c’è alcun altro mezzo possibile per impedire una uccisione, diventa “un dovere” uccidere chi sta per compierla (Young India, 4 novembre 1926). Si sa quanto una tale circostanza assolutamente estrema e tragica è stata allargata per comodità politiche e di potere. Tolstoj vede l’essenza dell’evangelo di Cristo nel “non resistere al male con la violenza”. All’obiezione classica circa il violento che sta per uccidere un bambino, egli risponde che nessuno sa se nel futuro sarà meglio che viva il bambino o il violento che potrà convertirsi. E dunque vieta sempre l’uccidere.
Nel caso ipotizzato da Gandhi solo ed esclusivamente la responsabilità della coscienza personale può decidere di dover uccidere (Bonhoeffer e la collaborazione al complotto contro la vita di Hitler). Ora, poiché ogni esercito richiede una “esecuzione automatica dell’ordine perché combattere significa uccidere” (parole del generale Carlo Jean ad una platea di studenti medi, a Torino, il 29 marzo 1996, da me annotate nell’ascolto), tale sostituzione della coscienza personale disumanizza totalmente il militare, ridotto a meccanismo, e rende ogni esercito strutturalmente immorale. Non fu così l’esercito partigiano della Resistenza italiana, composto tutto e solo di volontari, senza obbligo di partecipare personalmente ad azioni armate.
 
4. Molto bene “violenza no”, ma come gestire i conflitti? Non è bene né giusto subire violenza. È bene saper soffrire e morire piuttosto che far soffrire e morire, ma il patire (non subire) deve condurre a verità e giustizia per tutti. I conflitti nei rapporti tra persone o tra gruppi non sono in sé un male, possono essere fattori di sviluppo della vita. Male è risolverli con la violenza, cioè la distruzione fisica o morale dell’avversario. Reggere e gestire un conflitto senza violenza richiede di ricordare, inventare, costruire, sperimentare mezzi costruttivi in luogo dei mezzi distruttivi. Nella storia ci sono molte più lotte nonviolente (esperienze reali, non utopie) per la liberazione e la giustizia dei popoli di quante la storiografia accademica abbia saputo o voluto vedere. Si cerchi in internet la bibliografia “difesa senza guerra”, in continuo aggiornamento.
Secondo queste pratiche e relative riflessioni teoriche, i mezzi nonviolenti principali sono la non-collaborazione alle violenze strutturali e culturali, quindi la disobbedienza civile e leale ai poteri e agli ordini ingiusti. Ogni potere consiste ultimamente nell’essere obbedito. Il più terribile potere tirannico e militare è pur esso nelle mani di chi lo obbedisce. Per non dare luogo soltanto a testimonianze eroiche (che possono però avviare processi educativi, culturali e sociali), le lotte nonviolente richiedono una resistenza popolare abbastanza unitaria, e sono impossibili dove le società sono sbriciolate dall’individualismo, che è la base ideale per ogni tirannia. Perciò il primo passo di una lotta nonviolenta per la giustizia è una azione forte di cultura e coscienza della solidarietà: verità e smascheramento delle falsità necessarie al potere ingiusto.
Le chiese hanno in ciò una grande possibilità educativa, se sono interessate e attente più alla verità delle cose che all’appoggio dei poteri. Nella formazione delle coscienze possono costruire il coraggio morale e la libertà interiore per la disobbedienza civile all’ingiustizia.
 
 5. Alcune elementari e semplici distinzioni concettuali e terminologiche possono contribuire bene all’azione culturale e morale che riduca e smonti la violenza.
Distinguere forza da violenza è essenziale. La nonviolenza è una forza. La forza (fisica e morale) è un carattere della vita. È resistente e costruttiva. La violenza è distruttiva, è forza materiale o ideologica impiegata contro la vita.
Così pure è essenziale distinguere polizia e guerra, quindi esercito o qualunque formazione duramente armata. La polizia, quando è corretta e agisce nella legalità, contiene e riduce la violenza, nei casi gravi con armi leggere. L’esercito e la guerra accrescono la violenza, perché, con armi pesanti e distruttive, molto al di là delle esigenze difensive, seguono la logica del dover superare l’avversario in violenza: la guerra la vince chi è più violento e distruttivo dell’altro, senza alcuna connessione (se non puramente casuale) con le ragioni e i diritti per cui combatte. Norberto Bobbio ha scritto più volte: “La guerra è l’antitesi del diritto”. Ma nessuna guerra fa a meno di attribuirsi il diritto. La prima vittima della guerra è la verità.
 
6. Paolo Ricca ha parlato dell’amore per i nemici, a imitazione di Dio, come caratteristica essenziale dell’annuncio cristiano e della vita cristiana. La nonviolenza positiva e attiva, come modalità di comportamento nei conflitti umani, anche in chi non si riferisce a Cristo, oppure si riferisce ad altre tradizioni spirituali e religiose, è una attuazione laica, storica, concreta, dell’essenziale evangelico. La nonviolenza è amore effettivo per i nemici, non visti come tali, incompatibili, ma come avversari sotto determinati aspetti, che il conflitto nonviolento vuole ricondurre a comportamenti giusti e non offensivi.
Enrico Peyretti, Torino

Articolo tratto da:

FORUM (209 - 8 giugno 2010) Koinonia

http://www.koinonia-online.it

Convento S.Domenico - Piazza S.Domenico, 1 - Pistoia - Tel. 0573/22046



Marted́ 08 Giugno,2010 Ore: 15:49
 
 
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