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ISSN 2420-997X

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www.ildialogo.org IN RICORDO E GRATITUDINE PER MONS. ALBERTO ABLONDI,di KOINONIA, NUMERO 4/1976

IN RICORDO E GRATITUDINE PER MONS. ALBERTO ABLONDI

di KOINONIA, NUMERO 4/1976

Pistoia, 23 agosto 2010
Cari amici,

si celebrano oggi a Livorno le esequie di mons. Alberto Ablondi ed in qualche modo vogliamo renderci partecipi di questo evento; ma soprattutto vogliamo condividere il passaggio da questo mondo al Padre di questo nuovo “Padre della chiesa”.
Avevo espresso nel Forum 220 di ieri il desiderio di ricordarlo e dirgli grazie per la sua vicinanza, mediata in passato anche da mons. Vincenzo Savio e da altri amici di Livorno. Non posso dimenticare quando mesi fa ha voluto concelebrare con me in carrozzina, non facendoci però mancare la sua viva e incisiva parola. Ma il modo più significativo per farne e conservarne memoria è riportare per intero il numero 4 di Koinonia del 1976. Per un motivo molto semplice e tutt’ora valido.
Proprio in quell’anno, in cui Koinonia nasceva, ebbe luogo a Querceto il primo incontro di studio di due giorni dedicato interamente alle Lettere Pastorali di Mons. Ablondi, da cui traevamo ispirazione fin dal nascere della nostra esperienza. E da allora la sua presenza tra noi è stata sempre importante, come punto di riferimento e come nostro “Pastore” insieme ad altri che il Signore ha messo sul nostro cammino a confermarci nella fede e nel servizio al Vangelo. Essi sono scritti nei nostri cuori e ci garantiscono di essere chiesa totale!
Tutto questo ci dà l’audacia di dire che forse siamo “già” invisibilmente quella chiesa che abbiamo sempre cercato di essere, quale è delineata anche fin da quegli anni: le parole scritte allora potrebbero essere riscritte anche oggi, ma solo perché c’è perennemente un “non-ancora” sempre da perseguire. Questo però non ci deve privare della gioia dello Spirito nel sentire la presenza di Gesù il Cristo in quei due o tre che riescono ad essere uniti nel suo Nome. Ed anche confortati dalla testimonianza dei nostri Padri nella fede.
Siamo pronti a ricevere altre testimonianze su mons. Ablondi, ma noi stessi non mancheremo di attingere al suo insegnamento e al suo spirito.
Che ci benedica!
Alberto
 
PROGETTO CONCILIARE DELLA CHIESA
 
Introduzione
Il tema generale di questo nostro incontro di studio è: il progetto conciliare della Chiesa.
In un momento così particolare per l'esistenza cristiana e per la vita della Chiesa, si cerca semplicemente di far rientrare in gioco e di rimettere in corsa il Concilio.
Non sono fissati traguardi precisi; dove si arriva si arriva. Anzi, forse questo lavoro ci servirà da test per stabilire "dove" siamo e su quale terreno muoversi. In questa introduzione mi limiterò a dire: quale deve essere lo spirito dell'incontro; perché vuol essere un incontro di studio; quali le ragioni del tema scelto; come trattarlo.
 
Lo spirito o il sentimento dell'incontro
È quello che abbiamo cercato di far nascere in questi anni tra noi e cioè lo scambio aperto e la comunicazione orizzontale tra persone che vogliono essere vasi comunicanti e non compartimenti stagno. Di conseguenza è uno spirito di umiltà e di servizio nella ricerca: che si tratti di dare o di ricevere qualcosa. Materia comune di scambio, naturalmente, è la vita, in forza dell'appartenenza degli uni agli altri nella carità di Cristo, è anche la comune eredità di fede. In altre parole, è lo spirito di dialogo, che non deve mai esaurirsi e non deve passare di moda un dialogo aperto, fatto in profondità all'interno, ma con lo sguardo rivolto agli altri e al mondo nella sua complessità umana. Qualunque proposta si voglia presentare agli altri, ad andare avanti non possono essere né le nostre idee, né le nostre intenzioni, né i nostri programmi, ma unicamente il nostro stesso modo di vivere e come riusciamo a costruirci.
 
Perché incontro di studio
La parola studio non deve spaventare. L'incontro è di studio, perché deve servire a dare un contenuto più preciso o più esplicito al dialogo e allo scambio interpersonale; un dialogo senza veri contenuti oggettivi è sterile e vuoto. I1 rapporto che viviamo tra noi deve raggiungere un valore universale ed esemplare e consentire una crescita anche in senso verticale. Stare assieme, mettersi allo stesso livello è importante. ma non è sufficiente e non è tutto. C'è il pericolo di scadere in facile cameratismo e di ridurre tutto ad un vogliamoci bene fino a quando tutto va bene. Creare delle condizioni favorevoli all'incontro non sempre è realizzare l'incontro. Il dialogo è partecipazione, e il valore della partecipazione non può essere ristretto al puro spontaneismo, è ricerca e creatività.
Per questo è necessario maturare, crescere e costruirsi in modo solido, dando corpo allo spirito. Un lavoro di riflessione è richiesto a ciascuno per costruire la propria esistenza secondo ragione e secondo il Vangelo; tanto più questa riflessione diventa necessaria ed indispensabile, quando si tratta di costruirci assieme come "corpo" di discepoli di Gesù Cristo. Non deve succedere, come si esprime S. Paolo, che "tutti cercano i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo" (Fil 2,21). Al di sopra dei nostri vantaggi e delle nostre stesse persone c'è Gesù Cristo, da far valere ad ogni costo.
Nel tentativo di essere chiesa in modo critico e totale non possiamo contentarci di realizzare e accomodare noi stessi o di rimanere rinchiusi in un rapporto soggettivo, affettivo, emotivo, sentimentale; è necessario raggiungere un rapporto secondo verità, creare una concordanza di vedute su valori essenziali del Vangelo, come qualcosa che vale senz'altro più di noi e della nostra vita.
Ora, questo effetto di intesa più profonda noi non vogliamo ottenerlo mediante un semplice indottrinamento o con delle parole d'ordine, né mediante l'infatuazione carismatica. In questo caso sono sempre gli altri a decidere per noi o qualcuno a pensare per tutti. Vogliamo invece che tutti arrivino alla partecipazione attiva, perché è indispensabile il contributo di ciascuno per la costruzione di un'anima comune, che sia l'anima di un corpo completo, con tutte le sue membra. In questo senso, il nostro voler essere assieme in nome di Gesù Cristo deve tornare ad essere una scuola di vita, un apprendistato continuo, una educazione permanente alla fede: un continuo farsi discepoli di Gesù e del suo Spirito. Solo per questa via sarà possibile arrivare ad una nuova forma e ad uno stile di vita cristiana, a un modo di essere uomini secondo il Vangelo all'interno del clima attuale del mondo: a sperimentare e dimostrare cosa significa essere credenti oggi. Solo così faremmo davvero un salto di qualità e ci ritroveremmo al di fuori della nevrosi narcisistica di cui soffriamo tutti come chiesa-istituzione storicamente esistente.
 
Perché il tema progetto conciliare della chiesa
Il dialogo, quindi, non è un insieme di soliloqui o di monologhi, ma uno strumento di costruzione concreta di rapporti tra persone; non è neanche soltanto un fattore di crescita interna, ma un ponte di collegamento con la situazione generale in cui siamo immersi ed in cui inserirsi. Se dobbiamo costruirci come chiesa - come discepoli di Gesù - all'interno di questo mondo, è necessario arrivare ad essere un fatto visibile, pubblico, sociale, come trasparenza del Vangelo.
Siamo in una situazione di cristianità sottosviluppata ed infantile, nonostante i vari rinnovati trionfalismi. E per la verità, prima di preoccuparsi tanto di una promozione umana da "esercito di salvezza", ci sarebbe tanto da fare per far crescere umanamente - nel senso della dignità, della partecipazione, della libertà di spirito e della responsabilità - una grande massa di "fedeli" che sono sotto la protezione della Chiesa. Ecco perché è bene riprendere in mano il progetto del Concilio, per contribuire alla realizzazione di una chiesa per gli "assenti", per i lontani, per i Gentili... Nessuno può ritenersi escluso da questo compito. E proprio quelli apparentemente più al di fuori sono il banco di prova per una chiesa fatta da uomini e per gli uomini in ordine a Gesù Cristo. Secondo la legge evangelica, infatti, sono sempre gli ultimi a diventare primi.
 
Strumenti e metodo di lavoro
C'è da dire, infine, come mai per materiale di lavoro abbiamo scelto le lettere pastorali di mons. Alberto Ablondi, vescovo di Livorno. Semplicemente perché rappresentano - caso più unico che raro - una traduzione pastorale ed organica dello spirito del Concilio, in termini abbastanza accessibili, vicini alle situazioni ed alla vita. Sono vere e proprie lettere, e come tali vanno lette, senza la pretesa di comprensione piena, ma solo intenti ad una nostra rispondenza e risposta pratica. Il lavoro di lettura e di studio non deve servire tanto a mettere assieme delle idee nuove ed originali, quanto ad avere dei chiari ed autorevoli punti di partenza, per arrivare ad applicazioni e conclusioni, che riguardano più da vicino il nostro modo di essere e di vivere da "credenti" nel nostro mondo.
In effetti, il tono delle lettere di mons. Ablondi è di "spiritualità": investe ed interessa la vita interiore, lo spirito e gli atteggiamenti interiori, ma non sfugge ai problemi di carattere strutturale ed istituzionale, che sono ugualmente importanti sul piano storico. È comunque un lievito di buona qualità, che va messo nella pasta, perché la faccia fermentare nel senso di Cristo.
Sta a noi, oggi, inventare la chiesa per il domani. La chiesa di oggi potrebbe ancora andar bene per ora; ma un po' di acume storico ci fa dire che senz'altro non andrà bene per il domani.
"Quante cose da fare. E sempre con urgenza. Ruota il mondo. Il tempo incalza. Diecimila anni sono troppo lunghi. Impegniamoci nell'arco di un giorno". Sono significative parole di Mao, che traducono, in chiave rivoluzionaria, altre molto simili di S. Paolo: "Ora è il tempo giusto, ora il giorno per la salvezza".
Il modesto lavoro di questi due giorni - quali che siano i risultati - è già una risposta concreta, un importante primo passo
Bruno Simoni
 
        
IL PROBLEMA DEGLI ASSENTI
 
La relazione che presentiamo è una sintesi tra gli interventi emersi nella discussione e il contenuto della lettera pastorale di mons. Ablondi: "Gli assenti" (1972).
 
Il compito missionario ed evangelizzante del cristiano e della chiesa porta a considerare i destinatari del nostro annuncio nella loro qualità di "presenti" e ascoltatori. Ma proprio questa presenza pone il problema inquietante degli "assenti"; di coloro cioè che per vari motivi non sono raggiunti o non sono nelle condizioni di ascoltare la Parola di Dio.
Difficile stabilire una demarcazione tra assenti e presenti, perché gli assenti non sono una categoria, ma piuttosto un modo di essere. Può infatti essere assente anche chi è nella chiesa, ma solo fisicamente o passivamente, chi ci sta sempre vicino, ma nella sua trascuratezza o superficialità equivoca il vero significato della chiesa; perfino in ognuno di noi possono esistere momenti di assenza.
Ma vi sono anche gli assenti di fatto, coloro cioè che non sono mai stati presenti e quelli che, una volta presenti, si sono allontanati per reazione ad un certo tipo di presenza imposta e condizionata nelle scelte, o perché esclusi, scomunicati, trascurati nei loro diritti.
Questo ci pone il problema non tanto dell'assenza degli altri, quanto del nostro modo di essere presenti agli altri, della nostra non-presenza. Tante assenze ci chiamano in causa per le nostre colpe, la nostra responsabilità, la nostra poca testimonianza: siamo stati noi come chiesa che abbiamo preteso un'adesione a certe forme che non sono essenziali, o che sono addirittura in contrasto con lo spirito del Vangelo.
Non necessariamente quindi gli assenti sono gli altri, coloro che sono fuori della chiesa o che si sono allontanati oppure i "peccatori". Peccatori spesso sono coloro che si rendono responsabili dell'assenza di qualcuno.
La nostra preoccupazione costante, perciò, non dovrebbe essere tanto quella di riconquistare gli assenti, di convertirli e di ricondurli all'interno di una struttura fissa, rigida e immobile, ma piuttosto quella di un nostro avvicinamento ad essi. Ciò richiede una maggiore aderenza e fedeltà alla Parola di Dio che è rivolta a tutti, senza esclusione: all'uomo di ieri, come a quello di oggi e di domani; uomo concreto, col suo bagaglio di speranze, urgenze e problemi.
Si constata invece, troppo spesso, un'assenza dei cristiani dai loro impegni di testimonianza e di evangelizzazione: sono i cristiani per delega, spettatori, disoccupati, che aspettano tutto dalla gerarchia o che non sanno trovarsi uno spazio di azione. Ma soprattutto c'è un'assenza dal presente dell'uomo e della chiesa: molti cristiani, anche se esteriormente attivi nella chiesa, svuotano la parola di Dio mentre la pronunciano; per la loro assenza dalla realtà concreta non vedono, non conoscono o non accettano il vero destinatario di questa parola: l'uomo d'oggi; per un falso passato o per un sognato futuro non sanno collegare la loro fede alle situazioni del presente.
Viene quindi spontanea una domanda: quale tipo di presenza ci è richiesta? Innanzitutto la nostra deve essere una presenza di chiesa, di comunità credente che si realizza vivendo insieme la Parola, il sacramento, la koinonia. La nostra presenza deve essere comunicazione di uno spirito e non richiesta di adesione a determinate forme, perché molto spesso gli assenti non sono tali nei confronti del Vangelo, ma solo riguardo a tante inutili sovrastrutture.
A questo punto sorge un altro interrogativo: nei confronti di queste persone, che sono ritenute assenti, ma che in realtà sono vicine al messaggio evangelico e ne vivono lo spirito, che atteggiamento dobbiamo tenere? In che senso sono da evangelizzare? Non ci è sembrato, per ora, di poter dare una risposta adeguata a questo interrogativo e lo proponiamo alla riflessione.
Avvertiamo comunque l'urgenza di un annuncio genuino, autentico, prima di tutto a noi stessi e poi agli altri: ascoltare la Parola di Dio e viverla nel presente con tutte le difficoltà che questo comporta, senza la pretesa del risultato immediato e pronti ad accettare anche le inevitabili sconfitte e perdite. Per questo è necessario il coraggio di testimoniare con coerenza la propria fede in ogni situazione e dovunque, sostenuti dalla forza dello Spirito che è di tutta la comunità.
"Chi è solo, chi comunque si isola, chi vuole fare da solo, chi non cerca gli altri, chi non vive la pienezza della fraternità in tutte le forme umane o rivelate che gli si presentano, chi si crede autosufficiente diventa così ingombrante da allontanare gli altri da sé e dalla comunità; il cristiano che non vive i vari incontri della vita, che non vive la sua comunità, chi vi rinuncia per le incomprensioni, per le delusioni, per gli insuccessi personali o collettivi, tutti, sono 'assenti' che creano 'assenze' nel mondo, e fanno magari un 'mondo' di cose e di impegni ma non un mondo di uomini e di Dio".
Aldo Tarquini
 
        
IL RUOLO DEI LAICI NELLA CHIESA
 
Le due lettere di mons. Ablondi - "Laico, oggi, nella Chiesa" e "Laico nella Chiesa per il mondo" - non è stato possibile esaminarle a fondo, per ristrettezza di tempo, per la vastità degli argomenti, ma soprattutto per le molteplici connessioni della vita del laicato sia all'interno che all'esterno della Chiesa.
Noi abbiamo cominciato a lavorare facendo una breve panoramica di quelli che erano gli enunciati dei due documenti di mons. Ablondi, tenendo presente che queste lettere non sarebbero state tanto commentate e discusse, ma più che altro servivano come una specie di falsariga, su cui costruire la nostra problematica e vedere di affrontare poi certe prospettive di soluzione. Tutto il lavoro sembra possa essere suddiviso in tre aspetti: il rapporto del laicato all'interno della Chiesa, il rapporto del laicato che dalla Chiesa si rivolge verso il mondo esterno, il problema della preghiera, veramente importante, che è un po' il rovescio del discorso.
Per prima cosa ci siamo chiesti qual è il nostro ruolo all'interno della Chiesa, anche in relazione al problema degli "assenti", ed anche in rapporto al problema della famiglia, in una prospettiva unica per tutti.
I1 primo intervento ha affrontato il tema dal punto di vista della complementarietà e comprimarietà, intendendo la presenza presbiterale e laicale ambedue come ruoli di servizio, distinti ma con pari dignità. Questo significa che noi, ad un dato momento, ci siamo accorti che all'interno della chiesa vivono due realtà complementari, tanto che il laico è chiamato da Ablondi un "fratello diverso".
Su un piano di fatto, però, noi non ci troviamo alla pari nei confronti della istituzione; le istituzioni pretendono sempre di avere una certa preminenza sul ruolo del laicato, per cui il laicato, grosso modo, viene ad identificarsi in dei "portatori d'acqua" a programmi, linee ed enunciazioni fatte da quanti sono un gradino di sopra. E questo è il primo punto, per il quale il ruolo di un laico che intende impegnarsi e partecipare alla vita della Chiesa si sente un po' con le scarpe strette.
Sulla individuazione concettuale ci troviamo tutti d'accordo, ma quando la situazione si cala nella realtà in cui le due componenti dovrebbero accettare di riconoscersi reciprocamente, allora sorgono le difficoltà. Da una parte il laicato, almeno in certi settori, rivela un bisogno di sudditanza, altri vorrebbero un atteggiamento di tipo sindacale. A questo ci porta un certo retaggio, per cui noi riteniamo di dover dipendere in tutte le cose dall'imbeccata che ci viene dalla Gerarchia. Mentre un'altra parte del laicato forse cerca di rivendicare uno spazio all'interno della realtà ecclesiale con atteggiamenti di carattere sindacale. Questi sono due aspetti non del tutto positivi del rapporto che il laicato ha nei confronti della istituzione.
D'altra parte, la Gerarchia ecclesiastica, finché il laico opera isolatamente, tutto va bene, ma appena si organizza, essa interviene anche pesantemente col suo atteggiamento giuridicistico e di qui nascono i contrasti. Forse la Gerarchia è preoccupata del fatto che il Vangelo dice: "Quando due o tre sono riuniti nel mio nome..." c'è il Signore a partecipare al loro incontro; forse vuole monopolizzare la partecipazione del Signore dappertutto, intervenendo e creando da parte degli altri una certa frizione.
Una delle motivazioni di queste tensioni dipende anche dalla paura di cambiare, che impedisce ad ambedue le parti di crescere, ed allo stesso tempo sottrae tempo prezioso, che viene speso in polemiche sterili. C'è da parte del laicato la paura di cambiare il metodo con cui è abituato a rapportarsi alle istituzioni. C'è anche da parte della Gerarchia una certa paura di cambiare il metodo di rapporto da secoli istituito con i laici.
D'altra parte, sembra necessario, ed anzi doveroso, avere degli spazi in cui poter operare, senza che ci siano ingerenze indebite. Noi sappiamo se non altro che storicamente ci sono state diverse attività che nella chiesa primitiva erano riservate ai laici e che poi sono state usurpate, per così dire, dal clero. Si portava l'esempio della amministrazione dei beni.
Una volta individuati questi problemi e difficoltà, ci pare che un primo tentativo di soluzione potrebbe essere quello di cominciare a collegarsi con laici singoli o riuniti in piccoli gruppi, che abbiano difficoltà a prendere coscienza di sé, perché potrebbe essere importante lo stimolare una crescita culturale del laicato, soprattutto di quello che si trova al di fuori delle associazioni. Questo non vuol dire ricercare un collegamento corporativistico o di tipo strettamente sindacale; ma è necessario che ci siano scambi di esperienze culturali e di vita, che possano servire alla crescita reciproca; oltre ai possibili gruppi, c'è la categoria di quelli che abbiamo definito "laici allo sbando": quelli che partecipano alla vita della Chiesa, vanno alla messa ecc... più che altro perché hanno avuto un Dio in eredità. Cioè, per loro non c'è stata una conquista, né un processo di coscientizzazione, ma la tradizione passiva li ha portati a partecipare alle varie funzioni religiose senza una coscienza reale del proprio ruolo di laicato all'interno della Chiesa; nei confronti di queste persone c'è tutto un lavoro di promozione da fare.
Tutti coloro che partecipano alla "cena" - questa è una domanda che ci siamo posti - sono consapevoli di quello che fanno? Bisogna operare per dar loro la possibilità di ricevere e dare di più. Necessita una crescita culturale del laicato, ma può darsi che essa non debba passare per le strutture. Si faceva osservare che c'è ancora gente che continua ad andare alla cena e non si accorge di non mangiare, ma si contenta pacificamente che il piatto sia vuoto. Invece, noi diciamo che è importante consentir loro di ricevere e dare di più: tutti devono effettivamente sentire che la comunità dà loro qualche cosa e devono sentirsi impegnati a dare qualche cosa alla comunità. A tal fine noi ponevamo un piano tattico-strategico: quello dello scambio culturale con gruppi diversi in tempi brevi; per i tempi lunghi un'opera di coscientizzazione del "laicato allo sbando".
Il problema del laicato, comunque, non va esaurito nel problema del suo rapporto con le strutture; si tratta invece di vedere come si può essere Chiesa, senza porre condizioni - in quanto siamo Chiesa - e senza porre il problema del dare e dell'avere.
A questo proposito c'è stato modo di confrontare utilmente le diverse situazioni ecclesiali di due associazioni laicali, l'Agesci e il Centro sportivo italiano. Ci siamo trovati d'accordo che per quanto riguarda le associazioni è importante ed indispensabile che ci sia un riconoscimento, ma questo deve avvenire sulla base di un dialogo, che va instaurato e continuato non tanto ai fini di una autenticazione giuridica, ma della vera comunione ecclesiale.
Occorre evitare il pericolo di esaurirsi nelle analisi della situazione della Chiesa, rilevandone gli aspetti negativi e frenanti, per uscire finalmente da questo vicolo cieco e per cominciare a costruirci come Chiesa, nell'ascolto sereno dello Spirito. Questa in sostanza la nostra conclusione.
Se il tempo lo avesse consentito, sarebbe stato opportuno ed utile soffermarsi sul tema della preghiera, trattato nella terza parte di "Laico nella Chiesa per il mondo". Del resto, questo incontro è soltanto il primo; in incontri successivi potremmo consentirci un adeguato approfondimento anche di questo aspetto, che mons. Ablondi tratta in maniera veramente entusiasmante.
Carlo Grassi
 
LA FAMIGLIA NEL CONTESTO ECCLESIALE
 
Premetto che non ho letto le altre lettere pastorali di mons. Ablondi. Ma ho l'impressione che quella sul matrimonio, "Sposarsi in chiesa", sia dal punto di vista teologico la più importante e la più profonda. Cioè, mentre le altre si muovono su un piano di indicazioni pastorali, quella sul matrimonio è di una profondità teologica veramente notevole. Infatti ci ha colpito - ha colpito tutto il gruppo - una proposta radicalmente nuova che viene da mons. Ablondi sulla valutazione dei due momenti significativi e importanti della vita umana, che sono il fidanzamento ed il matrimonio.
Insieme abbiamo notato che lo stato matrimoniale veniva considerato tradizionalmente dalla comunità cristiana come una situazione quasi secondaria, inferiore rispetto alla condizione privilegiata del celibe. Cioè, l'uomo che si dedica a Dio è celibe. Il matrimonio si cercava di giustificarlo in qualche modo, viveva di luce riflessa, e la comunità cristiana, nella sua parte essenziale, era formata da celibi (ricordare la distinzione tra Chiesa docente e Chiesa discente). Siccome la funzione docente era affidata alla Gerarchia, gli altri che vivevano condizioni di vita diverse, quale quella matrimoniale, dovevano semplicemente ascoltare e imparare qualche cosa.
In questa lettera di mons. Ablondi la prospettiva è radicalmente cambiata; lo stato matrimoniale, insieme a quello del fidanzamento, diventano esemplari per la vita della comunità religiosa e cristiana, e non esemplari semplicemente così, come forma naturale di incontro, ma esemplari dal punto di vista teologico. In questa prospettiva, il fidanzamento sarebbe quel momento in cui l'incontro tra due persone tende all'isolamento e alla contemplazione. Ed è un momento di riflessione e di preparazione, che può essere una spia, un esempio, un simbolo - ma concretamente vissuti - dell'amore di Dio per l'uomo. Si riporta un passo della Scrittura che dice "Ecco, lo attirerò a me, lo condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore" (Osea 2,14).
Cioè, nel rapporto tra l'uomo e Dio avverrebbe questo: in un primo momento, l'uomo sarebbe isolato dall'azione di Dio che opera questo cambiamento, proprio perché possa capire meglio se stesso e il suo rapporto con Dio. Allora questa situazione viene esemplificata nel momento del fidanzamento, se questo momento viene inteso effettivamente come momento di contemplazione, come momento di donazione, al di là di quelle che sono le forme di amore dettate da un legalismo esteriore.
La fase del fidanzamento rivela anche che non dobbiamo amare gli altri come un dovere; l'amore è una scelta spontanea, non imposta da nessuno. Così come nel fidanzamento l'incontro è assolutamente spontaneo e non legato ad una imposizione, allo stesso modo, nel rapporto tra l'uomo e Dio, accade questo: Dio chiama l'uomo e l'uomo risponde, ma non per un dovere, ma semplicemente perché questa è una scelta insita nel proprio essere. È qui il mistero dell'amore: l'atto di amore è assolutamente gratuito.
La comunità cristiana, quindi, dovrebbe prendere esempio da questa situazione puramente naturale, vederne tutti gli aspetti evangelici, per svilupparli teologicamente.
Il fidanzamento è una fase preparatoria, il matrimonio è la fase in cui si vive pienamente un certo rapporto. Ora, la definizione tradizionale del matrimonio tendeva a sottolineare l'aspetto della procreazione come finalità fondamentale. Questo momento non viene affatto sottovalutato da Ablondi, però viene posta in primo piano un'altra funzione, che è quella della evangelizzazione.
Come nel fidanzamento si può scoprire una funzione evangelizzante nei confronti della comunità, così anche nel matrimonio viene fuori questa funzione: cioè, il matrimonio non è finalizzato alla procreazione, ma alla evangelizzazione. Di chi e in che senso?
Prima di tutto degli sposi vicendevolmente, e poi della coppia nei confronti della comunità. Ma d'altra parte, questa funzione di evangelizzazione si può capire soltanto in una prospettiva teologica: cioè il matrimonio rivela anche, come il fidanzamento, il rapporto che si stabilisce tra l'uomo e Dio.
Concretamente, qui vorrei mettere in risalto quelle che ci sono sembrate le cose più importanti a proposito della funzione di evangelizzazione che ha il matrimonio. Prima di tutto il matrimonio permette di capire l'amore trinitario. E questo è molto importante. In altre parole, se noi ci rifacciamo a quello che accade nel matrimonio, riusciamo a capire anche cosa significa la Trinità. "Infatti, dice mons. Ablondi, mi è più facile, anzi diventa gioioso, accettare che il mio Dio non sia un celibe, ma persone, cioè Padre, Figlio e Spirito Santo, che vivono uguali e distinte nel rapporto trinitario".
Questo è molto interessante: Dio non è visto come una persona che sia celibe, ma che si apre, e c'è una pluralità di persone all'interno, e quindi in rapporto comunitario. Quindi, l'unità che si stabilisce nel matrimonio e nella coppia - che è formata però da persone diverse - rispecchia, in un certo senso, l'unità di Dio, che comprende contemporaneamente la sua Trinità.
Seconda funzione di evangelizzazione del matrimonio: il matrimonio assicura l'amore di Dio mai deluso. E questa è una cosa molto interessante, che può avere dei riflessi pratici straordinari. Ablondi fa una affermazione che fa riflettere: "L'amore indissolubile del matrimonio cristiano impegna il coniuge ad amare ancora, ad amare sempre, anche il coniuge infedele. A molti può sembrare incomprensibile. Ma quando questo amore fedele ed incrollabile, che si offre anche a chi non lo merita o a chi lo rifiuta, viene posto in relazione all'amore di Dio che non si lascia deludere dagli uomini; quando viene messo in relazione con l'amore di Cristo, che è follia per i pagani e stoltezza per gli Ebrei, allora questo amore che ama il coniuge infedele diventa cristianamente comprensibile, anzi necessario".
Mi sembra che qui si veda il significato della indissolubilità del matrimonio, che non è un atto semplicemente contrattualistico (il divorzio implica una visione contrattualistica tra due persone che hanno scelto di mettere assieme i loro beni, non la propria vita ). L'indissolubilità è legata a questa fusione che va al di là della visione contrattualistica del matrimonio. Per cui è comprensibile che si ami, nonostante l'infedeltà dell'altro.
Dal punto di vista umano ciò sarebbe incomprensibile. È comprensibile se si fa questo paragone: Dio, in fondo, ama anche se l'uomo non corrisponde al suo amore; Dio non è mai deluso dall'uomo, continua ad amarlo fino in fondo. Nonostante tutto, Dio ama sempre (si pensi al prodigo), così l'uomo, nonostante tutto, dovrebbe mantenere questo rapporto scelto inizialmente come rapporto sempre valido.
Di qui si possono trarre - abbiamo appunto discusso di questo nel nostro gruppo - indicazioni molto importanti, anche dal punto di vista pratico.
Una seconda cosa molto importante, su cui ci siamo soffermati, è rappresentata dal fatto che il matrimonio rivela un rapporto che non è astratto, ma è estremamente concreto. Cioè non si ama una persona astratta, ma si ama. una persona particolare, con le sue caratteristiche individuali, anche con i suoi difetti. Questo indica diverse cose; prima di tutto ci fa capire come Dio può amarci singolarmente, personalmente, nonostante i nostri difetti. In secondo luogo si mette in risalto un'altra cosa, cioè l'incarnazione.
Perché il matrimonio è la spia per comprendere il significato della incarnazione e addirittura della incarnazione di Cristo? Perché nel matrimonio spirito e corpo si richiamano esaltandosi a vicenda. Non si vive in una dimensione - diciamo così - puramente spirituale (poi bisognerebbe vedere cosa significa spirituale), ma c'è questo fenomeno della incarnazione, che può essere rivelativo del significato della Incarnazione di Cristo nella Chiesa, nei sacramenti, nella storia e negli avvenimenti, per rendere intimo l'incontro degli uomini col Padre e dei fratelli fra loro. Cioè il matrimonio rivela una situazione che è estremamente esperienziale; non è puramente teorica. E allora ci fa anche capire come il rapporto che Dio stabilisce con gli uomini non è soltanto teorico, di pura conoscenza.
Altra cosa interessante, dal punto di vista pratico: mons. Ablondi sottolinea che il matrimonio annuncia l'amore di Dio per ogni uomo e per tutti gli uomini. A questo punto la coppia, se effettivamente vive il matrimonio in questa prospettiva, non può chiudersi in un rapporto che sia di due persone o di poche persone all'interno della famiglia: ma è necessario che ci sia una apertura proprio a livello sociale. Qui si affrontano diversi problemi che per solito rimanevano trascurati nella Chiesa e cioè questa apertura sociale comporta anche l'interessamento della famiglia nei confronti della società che la circonda.
Altro aspetto importante: la famiglia diventa chiesa domestica, è il primo nucleo della Chiesa, e in quanto tale ha una funzione di evangelizzazione fondamentale che esercita soprattutto attraverso l'educazione dei figli. Qui, anche dal punto di vista pratico, si danno delle indicazioni: la famiglia non deve demandare alla comunità, o alla parrocchia in particolare l'educazione religiosa dei figli, ma deve assumerla in proprio, come propria responsabilità.
Ora, da queste indicazioni, sono venute fuori alcune riflessioni e anche alcune perplessità di realizzazione dal punto di vista pratico. La prima riguarda il rapporto tra la famiglia e la comunità: torniamo a quel discorso che è stato appena interrotto. Si è detto cioè che queste sono cose molto belle dal punto di vista teorico, ma come realizzarle praticamente? Per esempio, una famiglia che non ha preso coscienza di questa sua funzione di evangelizzazione al suo interno, come fa ad educare i figli in questa direzione? Oppure ci sono dei problemi pratici, per esempio nel caso in cui uno dei coniugi manca o in cui i coniugi sono distratti da altre cose. Si sottolineava la necessità di un rapporto tra la comunità e la famiglia. È chiaro allora che il discorso si è spostato sul significato della comunità. Quale comunità? Mons. Ablondi si rifà alla comunità parrocchiale, essenzialmente, perché di fronte agli occhi ha questa situazione particolare. Noi però abbiamo tirato fuori delle cose un po' più ampie, cioè abbiamo pensato che non sempre le parrocchie riescono a risvegliare la funzione di evangelizzazione all'interno della famiglia e a fare propria questa funzione che la famiglia ha di evangelizzazione. Abbiamo notato che esiste una crisi delle parrocchie e si è parlato anche di esperienze individuali, che ciascuno di noi ha avuto a livello parrocchiale. Per cui ci siamo rifatti ad una intervista che ho trovato sul "Messaggero" di alcuni giorni fa, rilasciata dal P. Chenu. Egli sostanzialmente è favorevole ad una interpretazione della comunità religiosa non coincidente più con la parrocchia, ma con la comunità di base. Posso leggere brevemente quello che dice. I,'intervistatore domanda: "Quali elementi la confortano in questa visione dinamica, nonostante tutto, della Chiesa?". Risponde il P. Chenu: "Il primo è quello delle comunità di base. Si tratta di un fenomeno estremamente vario, a volte ambiguo, ma sensazionale. Le comunità di base sono uno spazio di libertà, nel quale si attua la ricerca della fede. Il loro è un movimento non clericale, che la chiesa deve incoraggiare". Ancora l'intervistatore chiede:"Cosa le fa pensare che il movimento avrà grande sviluppo nel futuro?". La risposta è indicativa, perché ci consente di superare la visione troppo europeistica che abbiamo della Chiesa. Risponde Chenu: "Lei sa quante comunità di base ci sono adesso in Brasile? Migliaia e migliaia; dove ci sono solo due o tre preti in regioni molto vaste, i laici diventano gli animatori dello comunità cristiane". Questo sottolinea il valore umano che potrebbe avere la comunità di base proprio per una ristrutturazione della Chiesa.
Come si può notare, il nostro discorso, partendo dalla famiglia, è arrivato ad investire il campo ed il ruolo dei laici, e la possibilità di intervenire in un certo modo, di trarre dal loro seno, in modo così spontaneo, chi deve guidarli dal punto di vista religioso. Questo ci ha portati ad esaminare i rapporti tra Gerarchia e Chiesa: siamo tornati di nuovo a questo punto, che, nelle altre relazioni era fondamentale. Abbiamo notato che, se la Chiesa, intesa in senso più ampio di comunità, riuscisse effettivamente a cogliere questo significato che mons. Ablondi considera fondamentale nel matrimonio cristiano, allora anche tutto il problema dei rapporti con la Gerarchia verrebbe rinnovato dal suo interno. Abbiamo rilevato ancora che la Chiesa cosiddetta docente si è cristallizzata in questa sua funzione non solo di insegnamento, ma anche di potere. Abbiamo detto come per ragioni storiche questo possa essere accaduto; abbiamo parlato della ambiguità che nasce sempre, quando i responsabili di una comunità religiosa credono di allearsi al potere politico per favorire la comunità stessa, Pensiamo al Concordato in Italia, e ai tentativi di mons. Casaroli nei paesi orientali di stabilire un "compromesso" col potere politico.
Si è discusso a lungo su questo punto. Nonostante la comprensione del fenomeno in senso storico, si è tentato però di introdurre una critica, cioè questo atteggiamento della Chiesa è un atteggiamento che non ci è sembrato di poter condividere. Venendo meno questa alleanza col potere, forse verrebbe trasformato l'atteggiamento che la Chiesa ha assunto tradizionalmente nei confronti dei problemi non solo politici, ma sociali. E allora ci sarebbe un modo nuovo di vedere i rapporti sociali ed economici all'interno delle vario comunità.
Perché manca questa sensibilità? Perché evidentemente ci si è alleati con una certa forma di potere.
Torniamo per un momento alla famiglia: come si può tornare alla famiglia, nel tentativo di risolvere questo problema molto ampio, che investe il rapporto col potere e con la società?
La famiglia potrebbe avere in se stessa una funzione estremamente educativa: questo è il punto fondamentale, In altri termini, se parliamo di un circolo chiuso da cui bisogna uscire e che bisogna rompere da qualche parte, da dove ricominciare per un'opera di rinnovamento?
Noi pensiamo, dopo aver letto questa lettera, che il circolo si potrebbe rompere con la funzione educativa che la famiglia si dovrebbe assumere in modo nuovo. È chiaro che la famiglia deve essere a sua volta educata. È necessario che si faccia appello ai giovani ed alle persone che sono impegnate, proprio perché vivano il rapporto all'interno della famiglia in modo radicalmente diverso, e possano quindi comunicare attraverso l'atto educativo questo nuovo rapporto che poi può trasformare in un certo senso anche la società. Si sottolineava questa funzione fondamentale della famiglia per risolvere i vari problemi: anche il problema degli "assenti", poniamo. Si faceva una osservazione molto semplice: questa lettera è intitolata "Sposarsi in Chiesa", cioè è un fatto concreto di costume. In che senso potrebbe essere utile per gli assenti? Noi dicevamo questo: la comunità religiosa dovrebbe essere molto gelosa del matrimonio in Chiesa. Non dovrebbe concederlo come fatto puramente sociale a tutti, anche a quelli che non ne sono convinti e lo fanno per abitudine. Gli "assenti", allora, potrebbero effettivamente capire: se gli assenti sono i vicini che passivamente stanno all'interno della Chiesa, per lo meno rifletteranno su questo atto. Se gli assenti sono quelli che stanno al di fuori, si renderanno conto che chi sta nella Chiesa fa le cose seriamente. E questa potrebbe già essere una funzione educativa nei loro confronti.
Un'ultima osservazione critica: mancherebbe in questa lettera un'appendice sui rapporti uomo-donna (il problema della donna viene trattato brevemente in "Laici, oggi, nella Chiesa"). Siccome il discorso si muove su un piano di riflessione sociale, dovrebbe suggerire qualche riflessione sui ruoli sociali che all'interno del matrimonio vengono dati all'uomo e alla donna.
Se il cristianesimo deve avere una forza rivoluzionaria, deve criticamente porsi anche questo problema. Guido diceva che il problema si risolve in maniera molto semplice, se c'è il legame affettivo tra uomo e donna; i ruoli diventano invece rigidi al momento in cui l'amore non viene vissuto in maniera profonda. Si superano questi ruoli rigidi, se all'interno della famiglia c'è un dialogo e quindi i ruoli diventano interscambiabili. Il cristianesimo spesso si è adeguato a questa forma di vita divisa in ruoli come valida in assoluto senza vedere l'elemento più profondo e rinnovatore della fede anche in merito a questo problema.
Si è infine appena accennato che se la finalità del matrimonio non è più la procreazione, ma piuttosto l'evangelizzazione, c'è da porsi anche il problema del controllo delle nascite e quindi anche l'espansione della famiglia deve essere posta sotto una luce diversa.
 
Angela Ales Bello
 
SINTESI DELLA DISCUSSIONE
 
Circa l'avvicinamento della Chiesa agli assenti, è da evitare di intenderlo come semplice accondiscendenza e benevolenza paternalistica; la stessa comunità, nel suo modo di essere, deve costituirsi e strutturarsi in nodo aperto.
Non dobbiamo avere il ruolo di distributori di verità, ma vivere in atteggiamento di ricerca collettiva con tutti gli uomini. La Chiesa non tende ad una ideologia, che la farebbe scadere in gruppo discriminatorio, ma ogni valore umano deve saperlo vivere e insegnare a viverlo nella prospettiva di rapporto con Dio.
La pretesa di chiudere la verità della salvezza in un sistema esclusivistico porta ad un assurdo di ordino teologico e pastorale. È auspicabile, invece, una apertura, che non escluda nessuna forma storica di realizzazione evangelica.
Dobbiamo tener conto che il fenomeno dell'assenza è abbastanza generalizzato e trova una sua spiegazione sia nella indifferenza a qualunque partecipazione e sia anche nel disinteresse a far partecipare da parte di chi detiene un qualsiasi potere. Una certa misura di "assenza" va considerata, però, inevitabile, perché partecipare è proprio di minoranze. Alla partecipazione bisogna educarci ed educare.
Interessarsi agli "assenti" significa rinnovarsi nel rispetto del loro "essere diversi". Il rinnovamento deve prospettare un modello di comunità non idealizzata ed istituzionalizzata; questo è possibile solo in tipi nuovi di comunità che non siano necessariamente le parrocchie.
Nonostante che le parrocchie siano state affiancate da tipi diversi di comunità, queste però mancano di un qualunque riconoscimento, per cui sono costrette a gravitare nell'orbita delle stesse parrocchie o sono indotte a mettersi in posizione di dissenso. Questo fa sì che ogni esperienza comunitaria abbia meno valore agli occhi degli "assenti" e perda di efficacia nella testimonianza.
Spesso i Pastori, per il lento ricambio o per inconsapevole rifiuto, misconoscono la realtà di situazioni nuove, determinando nei fedeli un senso di smarrimento. Tuttavia, il riconoscimento da parte della autorità, per quanto importante, non deve essere determinante e pregiudiziale; una verifica va operata a livello di comunione ecclesiale più vasta ed obiettiva. Questa comunione si può ottenere non facendo valere se stessi come singoli o come gruppo, ma realizzando una fedeltà completa al Vangelo. Il riconoscimento non va minimizzato, ma va anche visto in prospettive lunghe di rinnovamento radicale. Ogni eventuale misconoscimento gratuito va però rispettosamente impugnato. La Gerarchia, se stimolata, può recepire le istanze della collettività, senza ricorrere ad inutili polemiche, ma in un dialogo aperto.
L'esigenza più diffusa e condivisa è quella di una comunità diversa, che sappia trovare il suo spazio entro i ristretti limiti che l'organizzazione ecclesiastica attuale offre. A tale scopo non sembra sufficiente partire dal singolo o da una forma generica di comunità, è opportuno puntare e modellarsi su una forma concreta di comunità, quale può essere la famiglia.
La famiglia, però, in tal caso, non va considerata così com'è, e cioè come fatto puramente sociologico, ma nel suo valore teologico di sacramento e cioè come situazione umana di vita, che rivela e traduce l'amore trinitario di Dio (che non è un "celibe"), a sua volta indicativo della vera vita comunitaria.
Su questo punto sono state espresse difficoltà e perplessità. Ma se non altro a titolo di ipotesi di lavoro c'è da guardare alla famiglia come ad un momento centrale e tipico del rinnovamento comunitario ed ecclesiale. La famiglia, in quanto segno d'amore, non è soltanto simbolo della comunità ecclesiale, ma al tempo stesso può divenire il punto di appoggio o di riferimento pratico, in ordine ad una azione di rinnovamento: essa offre il primo spazio libero e vitale per l'azione veramente sacerdotale e profetica dei laici, e diventa il luogo e lo strumento più naturale per raggiungere ed includere gli "assenti" in rapporto alla rivelazione concreta dell'amore di Dio. Qui si inserisce i1 discorso dell'educazione dei figli alla fede, che non può essere demandata a nessuno, anche se va ricercato un raccordo con la comunità più vasta "Chiesa" in questo senso: dalla famiglia-comunità alla comunità-famiglia.
Non si riesce a vedere in pratica come questo passaggio o questo scambio possa essere realizzato nella situazione attuale e della Chiesa e delle famiglie. Per questo si auspica un ulteriore sforzo di ricerca, per valorizzare in chiave evangelica - senza saltarlo - questo momento essenziale della condizione umana, che non solo è oggetto, ma fonte e soggetto di evangelizzazione vissuta.
 
 
Sguardo sintetico
VERSO UNA COMUNITÀ "DIVERSA"
 
Qualunque fosse il punto di partenza, è stato unanimemente riconosciuto che una risposta unitaria e convergente ai vari problemi esaminati è da trovare in una comunità evangelizzante "diversa": non fondata su rapporti puramente istituzionali o su una forma di appartenenza e ruoli di carattere giuridico, ma animata da sincero spirito di "comunione" (nel senso oggettivo della koinonia).
Una comunità ecclesiale intesa come modo e luogo di comunione eliminerebbe tutti quegli steccati che creano gli "assenti" e lascerebbe cadere tutte le barriere che restringono lo spazio per la presenza più ampia possibile di tutti gli uomini nel Popolo di Dio.
Una comunità "diversa" che guarda davvero agli "assenti" deve essere ricercata e costruita su basi laicali di unico Popolo di Dio, e non più sull'egemonia clericale (anche del clericalismo dei laici o come mentalità).
I laici, come vero Popolo di Dio, sono lo scambio ed il dialogo vivente tra la Chiesa e il mondo, quasi un "sacramento" di mediazione. Per cui, nella sua realtà interna la Chiesa-comunità non è più soltanto né il luogo della "liturgia" (o della celebrazione cultuale e rituale ) formalisticamente intesa, né il luogo della programmazione e dell'impegno pratico, religioso sociale o politico che sia: è piuttosto il momento dell'ascolto o del farsi concretamente discepoli attraverso l'annuncio della fede, perché questo annuncio si ripercuota nella vita e nella testimonianza del Popolo di Dio. La Gerarchia, in tutte le sue espressioni, è in funzione di questa formazione o animazione interna del Popolo di Dio, in quanto essa esiste "per rendere idonei i fratelli a compiere il ministero, al fine di edificare il Corpo di Cristo" (Ef 4,11).
Questa comunità "diversa", verso cui tendere, non potrà più strutturarsi secondo schemi "societari" (secondo la concezione della "societas perfecta") o forme organizzative, ma deve tornare a modellarsi, nella sua realtà interna come nella sua espressione esterna, su rapporti di comunione più naturali e più aderenti e rispondenti alla partecipazione diretta e personale: si viene così a parlare della dimensione familiare della chiesa e della dimensione ecclesiale della famiglia. Il matrimonio, in tutte le sue fasi, torna ad essere il simbolo vivente della Chiesa e la Chiesa intera, nel suo mistero, torna ad essere la realtà sacramentale della famiglia.
Dal recupero di tale modello di comunità e dalla riattivazione di queste prospettive di comunione scaturiscono precisi motivi di impegno ed indicazioni operative per una crescita comunitaria.
Prima di tutto è urgente un senso di responsabilità universale di ogni singolo e di tutta la comunità dei credenti nei confronti del mondo e degli "assenti". Questa responsabilità va assunta e vissuta in proprio e non necessariamente deve passare attraverso le maglie istituzionali o il filtro della Chiesa gerarchica così come storicamente esiste.
Nei confronti della Chiesa gerarchica, o meglio della Gerarchia della Chiesa, non c'è da porsi in atteggiamento di pura critica e contestazione, perdendo tempo ed energie preziose, ma c'è da fare opposizione ad ogni tentativo di "squalifica", da parte di chiunque voglia metterci, gratuitamente ed arbitrariamente, in posizione di "dissenso". La ricerca sincera di una autentica comunione ecclesiale ci deve rendere sensibili e critici davanti ad ogni gesto che sia solo affermazione di potere.
In pratica, possiamo anche disinteressarci di un riconoscimento e di una autenticazione esplicita, ma non possiamo dispensarci dal provocare ed esigere la vera comunione di fede a tutti i livelli. È da ritenere che in tal senso anche la stessa Gerarchia vada aiutata ed educata, secondo uno stile nuovo di comunione, che deve essere da tutti appreso.
Riguardo al ruolo del laicato, si richiede il coraggio di trasformare la mentalità di sudditanza o di rivendicazione corporativista nei confronti della Gerarchia, per arrivare ad una piena dignità di compartecipazione, di corresponsabilità e di collaborazione. A questo scopo è indispensabile un serio impegno di maturazione spirituale e di crescita culturale, senza di cui il laicato continuerebbe a contare poco o niente all'interno della Chiesa e non sarebbe in grado di assolvere il suo più importante compito nei confronti della società e degli "assenti".
Per ottenere questa maturazione è di estrema importanza l'iniziativa diretta dei laici a costituirsi in nuclei, come anche il collegamento tra vari gruppi, al fine di confrontare e integrare le varie esperienze. Ugualmente indispensabile è il recupero della dimensione-preghiera, che però richiederebbe un discorso a parte, da fare in altro momento.
Per quanto riguarda la famiglia, o il problema famiglia, è stata avanzata l'ipotesi di farne, oltre che il modello esemplare della comunità-chiesa, anche il fulcro dell'evangelizzazione. I1 discorso è risultato abbastanza nuovo per tutti, per questo ci siamo trovati impreparati a dare un senso più preciso a questa proposta e a creare un consenso pieno intorno ad essa.
Si è rilevato, comunque, che per l'evangelizzazione non può essere sottovalutato o saltato questo momento della vita dell'uomo, che ci investe sotto ogni aspetto e fa da cerniera tra la vita personale dei singoli e la società nel senso più vasto. Proprio la famiglia, per il suo carattere sacramentale privilegiato, è una base, un elemento ed un fattore attivo per l'evangelizzazione. Su questo punto, l'impegno, invece d'essere di ordine pratico, rimane di ricerca.
 
 
NOI E NON GLI ALTRI!
 
All'indomani del nostro incontro di studio, vorrei comunicare qualche mia impressione dal vivo.
Senz'altro è stato fatto un passo in avanti, nella prospettiva di una comunità, che voglia esistere e strutturarsi in diretta funzione degli "assenti".
Non sto a fare rilievi a livello di rapporti umani: tutti dobbiamo essere grati a tutti, per la partecipazione attiva e per il contributo ugualmente prezioso.
Voglio continuare ad intrattenermi ancora un po' con voi, per tentare di capire ancora meglio il significato ed il valore di questo incontro in quanto esperienza nuova per noi, vissuta in un determinato momento del nostro cammino.
Si può dire senz'altro, crederei, che si è trattato di un momento di crescita: come capacità di rapporto e di scambio ad un livello più profondo; come consapevolezza comune di un proprio preciso compito; come verifica di quanto possiamo mettere assieme di patrimonio comune; come necessità di fare una scelta responsabile nel quadro più vasto dei problemi della Chiesa oggi.
Da tutto l'insieme, mi è sembrato di poter ricavare questo: certe soluzioni ideali e generali - che ormai sono di dominio ed auspicio comune - hanno bisogno di una materia umana in cui concretizzarsi ed hanno anche bisogno di un soggetto attivo che se ne faccia interprete. Si tratta, in ultima analisi, della nascita e della esistenza di una comunità, che non coincida necessariamente con la parrocchia e che non sia costretta a gravitare intorno ad essa: una comunità veramente evangelizzante per natura e non "per scrupolo".
È chiaro che in ogni tentativo di realizzazione certe idealità perdono di purezza, ma acquistano in concretezza e in sostanza umana. Per cui la questione sta in questi termini: tutti abbiamo convenuto che la risposta a tanti problemi personali ed ecclesiali è data unicamente da una comunità nuova e diversa di credenti, che sia veramente tale ed un fatto veramente esperienziale, così come si fa e si vive l'esperienza della famiglia.
Ma pur volendo uscire da una situazione spesso ormai insostenibile e sclerotica, ci siamo ritrovati rinchiusi in un circolo vizioso e ci siamo trovati tutti d'accordo a non voler giocare, comunque, a scaricabarili, per non perdere tempo prezioso.
Il cerchio, però, sembra possa rompersi non più attraverso la ricerca della soluzione ottimale e generale, ma attraverso una nostra (di ciascuno prima che di tutti) decisione e disponibilità ad essere e farsi questa comunità "diversa". In un certo senso si tratta di rispondere di nuovo, con coscienza più chiara, alla comune vocazione evangelica; si tratta di "ribattezzarsi" di nuovo in senso pieno. Non sono infatti sufficienti le varie soluzioni teoriche e teologiche, che pur ci vogliono, ma che potrebbero restare sospese per aria. Né sembrano sufficienti i vari rattoppi pastorali o i diversi accomodamenti istituzionali.
Non si richiede tanto di farsi sostenitori di questa o quella posizione (teologica, contestativa, di dissenso ecc..) quanto d'essere dei portatori della vera novità, che assicuri continuità e vita alla tradizione.
C'è da metterci - e se è necessario bisogna portarci anche gli altri - su un piano di effettiva comunione ecclesiale. Una volta data questa risposta di fondo ad una chiamata che è rivolta a tutti, rimane da vedere come andare avanti e come qualificarsi e strutturarsi in senso autenticamente ecclesiale, non secondo una formula unica ed assoluta, ma all'interno di una pluralità e ricchezza di forme. Tutto questo, non per una differenziazione fine a se stessa, ma come servizio particolare da rendere ad altre comunità e quindi all'intero corpo ecclesiale. Da parte nostra preferiremmo un modo di essere comunità "da frontiera".
Per questo è importante che si ascolti e si viva la Parola di Dio non solo in modo rispondente ed adeguato a noi, come singoli o come gruppo, ma in tutto il suo contenuto e significato universale di salvezza: in quanto cioè è rivolta all'uomo e a tutti gli uomini anche del nostro tempo. Ciò richiede che ci si abitui a viverla nel suo valore essenziale e nelle forme più semplici e naturali, quasi in una dimensione di "famiglia di Dio". Ma richiede anche uno sforzo culturale di "rispetto del mondo" (così si esprime mons. Ablondi) e di assimilazione del messaggio evangelico di salvezza a partire dalle condizioni storico-culturali del nostro tempo.
Questo nostro incontro ha avuto luogo alla vigilia del Convegno "Evangelizzazione e promozione umana" promosso dalla CEI. In un suo recente messaggio, il card. Poma, presidente della stessa CEI, invita a partecipare "al travaglio della Chiesa, che desidera rendersi sempre più idonea ad annunciare il Vangelo all'umanità del XX secolo".
Da parte nostra cercheremo di guardare a questo Convegno da questo preciso punto di osservazione; e non è da escludere che in un secondo incontro di studio si possa prendere le mosse dai risultati e dalle indicazioni che ne verranno fuori.
Per concludere, pur guardando agli altri ed ai fatti con viva presenza, abituiamoci però a dire: noi e non gli altri!
Bruno Simoni
Querceto, 4 ottobre 1976

Articolo tratto da:

FORUM Koinonia 221 (23 agosto 2010)

http://www.koinonia-online.it

Convento S.Domenico - Piazza S.Domenico, 1 - Pistoia - Tel. 0573/22046



Marted́ 24 Agosto,2010 Ore: 14:47
 
 
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