Buddismo
L’ironia del buddismo

di Gennaro Iorio

IL pensiero umano ha delle capacità per gran parte a noi ignote; una di queste si situa al confine, ed è l’ironia. Potrebbe sembrare un po’ azzardato accostare ironia e buddhismo, ma riteniamo che proprio l’ironia sia un elemento presente in questa religione-filosofia. Precisiamo cosa intendiamo per ironia. Non ci riferiamo ad una tecnica della retorica volta ad ottenere il consenso sul proprio interlocutore, oppure un modo sottile di deridere l’altro, ma intendiamo l’ironia come una manifestazione del pensiero, un manifestarsi che nello stesso tempo svela ed è velato. Un esempio tratto dal pensiero occidentale: Socrate affermava che sapeva di non sapere; dietro quest’affermazione, celebre, in realtà il pensatore afferma di possedere l’unica conoscenza che l’uomo possa avere, ovvero la non conoscenza. L’ironia, quindi, come gioco di maschere. Ma in che rapporto è con il buddhismo? Se analizziamo per un attimo solo l’etichetta che noi occidentali abbiamo dato a questo modo di affrontare la vita ovvero, buddhismo, c’imbattiamo nella prima difficoltà: che cos’è il buddhismo? Una religione, una filosofia? Una morale? Oppure, come noi poco elegantemente, abbiamo definito, un modo di affrontare la propria vita? Non è facile rispondere, perché il buddhismo nella sua profonda ironia non ci chiede una risposta. Come è difficile afferrare il messaggio socratico, che la non conoscenza è la vera conoscenza; così il non poter definire il buddhismo pone noi occidentali in una posizione scomoda. Infatti, alla fine lo definiamo, lo blocchiamo, dato che l’ironia nel suo senso profondo fa anche un po’ paura.

Crediamo giusta l’osservazione che il buddhismo prevede il proprio scacco, questa affermazione ha una portata ironica fortissima, c’invita a smascherare il buddhismo per poi vedere che non abbiamo fatto proprio nulla, nulla di utile se volevamo trovare una definizione.  Se l’ironia socratica aveva un fine, quella buddhista no. La verità, se mai ce n’è una, si rimaschera ed ecco che il buddhismo stesso si dà scacco. Proviamo ad entrare un po’ più nello specifico: quando Buddha doveva spiegare cos’era l’insegnamento e che utilizzo il buon discepolo ne doveva fare raccontò, nella forma di metafora, il celebre racconto della zattera. L’insegnamento è come una zattera utile a raggiungere la riva tranquilla, ma poi inutile se vogliamo continuare il cammino. Afferrare l’ironia della zattera significa capire che in un certo senso non c’è mai stata nessuna zattera, ma che era solo una parte di noi che adesso conosciamo e non distinguiamo più da noi stessi. Il pensiero buddhista si spinge ancora oltre, infatti, afferma che in realtà non esiste nessuna riva terribile e nessuna riva pacifica, ma esiste una sola realtà, siamo noi che la vediamo in modo diverso. Avendo citato un sutra, in modo molto generico, possiamo portare un’altra riflessione sul buddhismo e l’ironia presente in esso. Il linguaggio intenzionale, che ritroviamo non solo nei sutra buddhisti, ma anche nei Vangeli, nel Corano, cos’è se non un modo ironico di esporre un pensiero? Il linguaggio intenzionale ci spinge ad andare oltre le parole, oltre al significato letterario, come Alcibiade paragonava Socrate ai sileni brutti fuori, magnifici dentro; così il linguaggio intenzionale c’invita a cogliere l’ironia che sta mascherando un qualche cosa che chiede di essere smascherato. Nel Sutra del Loto si narra la parabola in cui Buddha, osservando la casa in fiamme e nello stesso tempo l’indifferenza di chi vi è dentro, per salvarli, li chiama ad uno ad uno. Ad ognuno promette un dono diverso, ma alla fine darà a tutti lo stesso. Se si legge superficialmente questo passaggio potremmo dire: Buddha anticipa Machiavelli, ogni mezzo è giustificato se il fine è di natura superiore. Però, per sfortuna o fortuna, le cose sono più difficili. Buddha vuol dire che si può seguire anche una via diversa, però il fine è sempre lo stesso ecco perché c’è prima la promessa e poi il riscontro diverso. Non cadiamo nell’inganno: non abbiamo colto ancora nulla se pensiamo che questa sia l’ultima spiegazione della parabola.

Un altro passaggio: abbandoniamo il linguaggio intenzionale, ed analizziamo un pensiero che un po’ sintetizza quello che stiamo esponendo, ovvero, l’affermazione che si trova nel buddhismo zen, “se incontri Buddha uccidilo”. Merton è acuto a soffermarsi su questo passaggio e nel sottolineare proprio l’impossibilità di ogni forma mentis del buddhismo, non oggettivare, come afferma, sempre Merton, “se Dio diventa un oggetto prima o poi muore”[1]. Così, se il buddhismo diventa una forma sterile prima o poi muore.

Se osserviamo come il buddhismo entri in una zona del mondo: Cina, Giappone, Occidente, possiamo vedere che prima si maschera della cultura che incontra, diventando un ibrido, poi si scopre piano, svelando la sua vera natura: nella sua profonda ironia ha gli aspetti del paese dove si era integrato, tuttavia non è più un ibrido, sarà il buddhismo cinese, il buddhismo giapponese, il buddhismo europeo.

Un’ultima osservazione, la rivolgiamo alla posizione che si assume quando si fa zazen, “l’offerta in sacrificio di ogni umanità”, come è stata definita da p. Mazzocchi, definizione che riteniamo pregnante e profonda. Gli occhi guardano, ma non hanno nulla da osservare, le orecchie ascoltano, ma non hanno nulla da sentire, il tatto è pronto a percepire ogni movimento, ma non ha nulla da percepire. In questo c’è tanto d’ironico, non nel senso di una ironia strettamente intesa come tecnica, ma l’ironia di perdere se stessi per guadagnare sé.     

Da:

“La Stella del Mattino” – laboratorio trimestrale per il dialogo religioso

www.lastelladelmattino.org/rivista



[1] Cfr. Thomas Merton, Lo zen e gli uccelli rapaci, Garzanti 1999.



Mercoledì, 06 febbraio 2008