Riceviamo e pubblichiamo
L’emergenza, stando alla definizione data dal vocabolario della lingua italiana, è «una circostanza o eventualità imprevista, specialmente pericolosa». L’emergenza, per estensione, si può considerare «una situazione pubblica pericolosa, che richiede provvedimenti eccezionali». Ed è probabilmente con riferimento a quest’ultima accezione che il legislatore nazionale, nel 1994, dichiarò lo stato di emergenza della gestione dei rifiuti nella Regione Campania, designando il prefetto di Napoli quale Commissario straordinario per togliere dalle mani della camorra la gestione delle discariche. Sono 13 anni, quindi, che nella nostra regione è dichiarato lo stato di emergenza. Capite bene, e c’e poco da starci a ragionare, che il termine “emergenza” non è più appropriato a definire l’assurda e paradossale situazione che ci vede tristemente coinvolti da più di un decennio. Partiamo dalle cose certe. La situazione è sicuramente pericolosa ed ha richiesto provvedimenti eccezionali. Sicuramente eccezionali sono stati gli investimenti (leggi sprechi) di denaro pubblico: si parla di una cifra complessiva compresa tra 1 e 2 miliardi di euro che sarebbero stati investiti per il sostegno alla raccolta differenziata, per i lavoratori socialmente utili, per l’avvio degli impianti, per le consulenze, i collaudi e le gare, etc. I risultati: sono sotto i nostri occhi. Se è vero che un albero si giudica dai frutti che dà, in questo caso la malapianta andrebbe estirpata alla radice. Abbiamo usato il condizionale perché le cose, si sa, bisogna sempre guardarle dalle diverse angolature. Se la questione dei rifiuti in Campania, infatti, la guardiamo con gli occhi di chi ha gestito il trasporto (fuori nazione e fuori regione) e lo stoccaggio, di chi ha ricoperto incarichi al commissariato, di chi ha redatto consulenze, e via dicendo (o soldi spendendo), si è trattato di un grande affare: il “malaffare” dei rifiuti in Campania. E in tutto questo lo Stato che fa? Ci verrebbe da rispondere con le parole del compianto Fabrizio De André: «si costerna, s’indigna, s’impegna poi getta la spugna con gran dignità…». Nonostante la non veneranda età di chi scrive, credo di aver visto abbastanza per poter affermare con buoni margini di certezza che la differenza la fanno sempre le persone e, anche in questa brutta vicenda, ci sono tante persone oneste che svolgendo il loro dovere ci hanno reso e ci stanno rendendo la situazione meno grave di quella che poteva essere. A loro va il nostro grazie. Agli altri, invece, e sono tanti, va la nostra più profonda indignazione. Una domanda ci assilla tutti quotidianamente: «di chi è la colpa?». Con troppa facilità si tende a far ricadere tutte le colpe esclusivamente sulle organizzazioni malavitose che sicuramente traggono linfa vitale da una tale situazione di malgoverno. Noi la colpa principale l’attribuiamo alla politica, a quella pletora di “intoccabili” per richiamare l’aggettivo usato da Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella nel loro best seller “La casta”. La Società, in senso ampio, è un’«unione tra esseri viventi che hanno interessi generali comuni». La Società, quella con la esse maiuscola, contiene al suo interno tante altre società, nel senso di associazioni/gruppi di persone aventi determinati fini comuni e/o che si trovano in situazioni comuni. Siamo arrivati al punto nodale. Una società molto ambita, per il grande potere e per i grandi privilegi e le immunità di cui gode, è, appunto, la “casta” della politica. Da sempre molti si chiedono: «fare politica è una professione?». E ancora: «qual è il compito del politico?». Partiamo dal rispondere per prima proprio a quest’ultima domanda. Il compito precipuo del politico è quello di gestire (prendersi cura) la cosa pubblica per conto ed in rappresentanza degli altri cittadini che hanno visto in lui delle non comuni qualità morali, organizzative, intellettuali che lo facevano ritenere un soggetto particolarmente indicato a “sacrificarsi” per il bene comune. Così dovrebbe essere e così dobbiamo pretendere che sia. Alla prima domanda, invece, proviamo a dare una duplice risposta. Supponiamo che fare politica sia una professione. In tal senso, chi la esercita dovrebbe avere un’abilitazione, dovrebbe aver studiato allo scopo, aver seguito dei corsi, aver svolto un tirocinio, superato un esame. Alcuni benpensanti sostengono che l’esame si supera con le elezioni e, quindi, sottoponendosi al giudizio del cittadino/elettore. Una volta era così. Con l’attuale legge elettorale, infatti, siamo stati defraudati anche di questo diritto/dovere: è direttamente la “casta” che decide al suo interno. Noi possiamo mettere solo una crocetta, venendo considerati, quindi, una sorta di analfabeti non in grado di “saper leggere” le qualità (sigh!) dei candidati. Se fare politica è una professione, bisogna dare conto al committente di come si svolge il proprio incarico. In tutte le professioni si viene pagati solo se si svolge correttamente il proprio lavoro, altrimenti si sta a casa. In politica questo non accade e allora dovremmo concludere che fare politica non può essere considerata un’attività professionale. E cos’è allora? Un esercizio di potere per difendere ed accrescere i propri interessi e quelli dei propri protetti/raccomandati/elettori. E gli altri che fanno? Chi sono gli altri gruppi che, insieme alla “casta” degli intoccabili, completano la Società? I cittadini. Gli amministrati. I succubi delle scelte della “casta”. Non siamo tutti uguali, ovviamente. Ci sono i cittadini che a stenti arrivano alla fine del mese, i cittadini che si possono permettere la vacanza al mare, i cittadini che possono prendere l’aereo, i cittadini che hanno un’imbarcazione e i cittadini che hanno un aereo privato. Il Lettore si starà interrogando su quale possa essere il nesso tra questi ragionamenti sul senso della politica e sui rifiuti riarsi per le strade della Campania. Le immagini nauseabonde che stanno facendo il giro del mondo in questi giorni (sono le stesse di dieci anni fa) sono la prova certa della “inadeguatezza” della nostra classe/casta politica. Inadeguatezza a gestire (prendersi cura, ripetere aiuta dicevano gli antichi) la cosa pubblica, inadeguatezza a rappresentare le istanze dei cittadini, inadeguatezza a rispettare l’ambiente e a preservare le risorse per il futuro, e via dicendo ad libitum. E i cittadini? Possiamo ritenerci solo delle vittime in questa faccenda? Sicuramente no. Abbiamo le nostre responsabilità. Siamo innanzitutto responsabili di aver lasciato che si formasse questa “casta” di intoccabili. Siamo responsabili di aver goduto dei privilegi che ci hanno concesso i nostri referenti politici e di aver alimentato un clientelismo amorale che ha paralizzato ogni tentativo velleitario di ripristinare il giusto senso delle cose. Siamo responsabili di non aver svolto fino in fondo il nostro compito, delegandolo ad altri o, peggio ancora, facendo finta che la gestione della cosa pubblica non ci riguardasse. Con riferimento al tema in discussione, iniziamo a produrre meno materiali di risulta (quelli che una società opulenta si ostina a chiamare “rifiuti”), consumando di meno e meglio. Separiamo in casa i nostri prodotti di risulta (materiali a fine di un loro ciclo di vita) in funzione della loro composizione e della loro struttura. Poniamoci sempre le tre domande: 1. È proprio vero che questo oggetto non mi serve più? 2. Posso usarlo per uno scopo diverso rispetto a quello per il quale l’ho acquistato? 3. Può essere utile a qualcun altro?
Così facendo ridurremo in maniera significativa la quantità di materiali da avviare al recupero (di materia e di energia) ed allo smaltimento. Successivamente affidiamo gli oggetti che abbiamo provveduto a separare con cura al gestore del servizio di raccolta, in modo tale da rispettare il decoro e l’igiene delle nostre strade. Informiamoci sull’esito del riciclo e denunciamo eventuali situazioni difformi. Svolgiamo il nostro ruolo di cittadini, insomma! Non basta dire che abbiamo perso la fiducia in chi ci rappresenta.
* Professore aggregato di Ingegneria sanitaria-ambientale, attualmente insegna Fenomeni di inquinamento e controllo della qualità ambientale presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università degli Studi di Salerno. Ama prendersi in giro definendosi un Ingegnere sociologico libero pensatore nonsò-cratico esperto di “munnezza”.
Lunedì, 04 giugno 2007
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