- Scrivi commento -- Leggi commenti ce ne sono (0)
Visite totali: (318) - Visite oggi : (1)
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori Sostienici!
ISSN 2420-997X

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito

www.ildialogo.org LA STRAGE DEGLI ARMENI: GIORNI DI SANGUE SUL MUSSA DAGH,di Daniela Zini

LA STRAGE DEGLI ARMENI: GIORNI DI SANGUE SUL MUSSA DAGH

PARTE TERZA


di Daniela Zini

“La mia coscienza non mi permette di rimanere insensibile di fronte alla negazione della Grande Catastrofe subita dagli armeni dell'Impero ottomano. Rifiuto questa ingiustizia e per parte mia condivido i sentimenti e il dolore dei miei fratelli e sorelle armeni. A loro chiedo scusa.”
 
Nel dicembre del 2008 un gruppo di intellettuali turchi lanciava una petizione on-line per chiedere il riconoscimento ufficiale del genocidio degli armeni all'inizio del secolo scorso in Turchia.
Rievochiamo una delle pagine più tragiche e meno conosciute della storia del nostro secolo: la repressione delle minoranze etniche armene da parte dei turchi. La lotta, che registrò crudelissimi episodi, ebbe il suo terrificante culmine nel 1915, quando il resto del mondo era occupato a seguire i drammatici eventi della prima guerra mondiale. Tra il dicembre del 1914 e il febbraio del 1915, il Comitato Centrale del partito Unione e Progresso, guidato da due medici - i dottori Nazim e Shakir - pianificò la totale soppressione degli armeni come popolo.Venne, così, creata la famigerata Organizzazione Speciale, una struttura paramilitare dipendente dal ministero della guerra, ufficialmente incaricata di operazioni spionistiche oltre confine, ma segretamente incaricata di sterminare gli armeni.
Il 10 ottobre scorso, dopo quasi un secolo di gelo, Turchia e Armenia hanno firmato, a Zurigo, uno storico accordo di normalizzazione dei rapporti tra i due paesi. L’accordo dispone che venga riaperta la frontiera turco-armena, che vengano ristabilite relazioni diplomatiche tra i due  Stati e che la questione del genocidio armeno venga affidata a una commissione di storici per la sua indagine oggettiva.
 
Nel 1908, la rivoluzione.
Parte da truppe distaccate sulla frontiera greco-turca e guidate da Enver Bey (1881-1922); infiamma Monastir, conquista l’intero terzo corpo d’armata. Gli uomini della setta Vatan hanno lavorato bene: Mustafa Kemal può esserne fiero. Il 23 luglio il Comitato di Unione e Progresso manda un ultimatum al sultano: lo firmano anche esponenti armeni. Abdul Hamid finge di stare al gioco e piega il capo. Accetta la rivoluzione e si adegua. I giovani turchi non assumono direttamente il governo. Scremano la corte del sovrano dalla canaglia che la soffoca e la sostituiscono con uomini politici che escono dalle loro fila. Riducono le spese eccessive che Abdul Hamid fa pesare sulla bilancia dello stato. Gli lasciano l’harem, ma chiudono il suo teatro privato. Riducono il numero dei suoi aiutanti da campo da duecentonovanta a trenta e stringono a settantacinque i trecento componenti dell’orchestra privata del sultano. Licenziano le spie, frantumano assurdi privilegi.
È l’inizio della democrazia.
Il 17 aprile 1908, riapre il Parlamento: Abdul Hamid siede al suo posto, un segretario legge un discorso che suscita speranze liberali e condanna le “sconsiderate lotte interne tra cittadini di diversa religione”. Ma il sovrano non ha perso i fili della vecchia organizzazione: le spie licenziate tessono la rivolta che scoppia nella primavera. Sacerdoti, soldati, sottufficiali tentano di annientare il regime dei giovani turchi. Bande di fanatici guidati da studenti di teologia musulmana marciano sulla capitale. Per sette giorni Costantinopoli è nel caos. Poi, gli ufficiali riprendono in mano la situazione e per il sultano è la sconfitta. Mustafa Kemal dichiara decaduto il vecchio sovrano e insedia al suo posto il fratello, una figura scialba e timorosa: Maometto V.
Hamid si è rifugiato a Yldiz. Il rappresentante dei Giovani Turchi si trova di fronte a un vecchio in lacrime, impaurito, con la barba lunga e un cappotto da soldato sulle spalle. Sviene dalla gioia quando gli assicurano che avrà salva la vita. Può andare in esilio: lo stato pagherà il suo mantenimento e quello del suo seguito che i cronisti del tempo considerano umiliante: tre mogli, quattro concubine, quattro eunuchi e quattordici persone di servizio.
Ora, dunque, gli armeni possono respirare: cittadini come gli altri, tranquilli come mai erano stati. Ma l’illusione dura poco, anche se, formalmente, il nuovo governo alimenta simili speranze. Gli armeni si vedono subito imporre l’obbligo del servizio militare: sotto il vecchio, esoso sovrano potevano riscattare l’impegno pagando una forte tassa. Poi, gli ebrei e armeni sono allontanati da quei pubblici incarichi che avevano assunto nei primi giorni della rivoluzione, nell’esercito gli ufficiali armeni restano a casa, mentre i soldati non ricevono fucili ma soltanto arnesi da lavoro con i quali sgobbare nelle inquiete terre di confine. Riprendono i sospetti di chi comanda.   
Corrono anni in cui gli imperi si disgregano: in Europa Vienna agonizza, nel Medio Oriente l’etichetta dell’impero ottomano sbiadisce di fronte ai nuovi fermenti. I paesi arabi tendono a sbriciolarsi seguendo la mappa delle tribù, l’Albania, mezzo cristiana, aspira all’indipendenza e a Costantinopoli arrivano notizie da ogni angolo del grande dominio. Di nuovo si tenta di accusare della disgregazione gli armeni. I quali armeni, a dire il vero, avendo capito di essere ormai fuori gioco, soffiano nel fuoco di questa dissoluzione con ingenue trame indipendentistiche che hanno il loro momento più squillante nel passaggio delle linee (nei primi mesi della grande guerra) degli armeni dei villaggi di Van, Bitlis e Mush: raccolto l’invito che veniva dalle autorità russe del Caucaso, folti gruppi di uomini e ragazzi si presentano agli ufficiali dello zar.   
L’esodo è notevole tanto che si possono formare tre battaglioni di fanteria che al comando dei generali Andranik e Ishkan combattono contro i turchi durante tutta la campagna. Al latente e inguaribile sentimento di diffida si aggiunge questo episodio che ravviva le persecuzioni. L’ordine di Costantinopoli è preciso: genocidio. Si rispetta una macabra messinscena. Si parla di deportazione in zone desertiche dove gli “elementi infidi non siano più in grado di nuocere”. Ma le istruzioni sono rigide. Di suo pugno Mehmet Talat Bey (1874-1921) firma il documento che autorizza le deportazioni.
 
“Quale destinazione dobbiamo mettere?”,
 
si informa un segretario.
 
“La destinazione non esiste. Metti: nulla.”
 
Il “nulla” significa il massacro delle carovane armene nelle valli dell’interno.
Ancora i curdi all’opera. Verso i curdi marciano le file di proscritti cristiani. Con un editto li hanno raccolti nei vari villaggi un ufficiale e pochi soldati. Notabili, contadini, artigiani devono lasciare ogni cosa per avviarsi verso il nuovo destino. Si parla di campi di concentramento nelle zone desertiche, in regioni lontane cui bisogna arrivare a piedi, senza cibo, senza acqua, camminando senza sosta. I vecchi e i più deboli restano lungo la strada; gli altri sono massacrati nel punto che gli ufficiali hanno freddamente stabilito. Le donne giovani vengono risparmiate e rinchiuse in un villaggio che diventa una specie di harem per i soldati della regione. Quando si ammalano, quando protestano vengono liquidate.
L’aneddotica del massacro offre pagine di una crudeltà allucinante. L’unico episodio felice, come annota Toynbee, è, forse, quello del Mussa Dagh. A Trebisonda, a Brussa, in Cesarea, i vescovi armeni sono assassinati; a Diarbekir il vescovo è bruciato vivo; il vescovo di Aleppo è sgozzato in prigione. Proprio ad Aleppo, nella prefettura, un diplomatico inglese raccoglie un proclama del ministro Mehmet Talat Bey. Porta la data del 15 settembre 1915. È  un richiamo a quei funzionari che si sono lasciati commuovere e hanno opposto una agnostica indifferenza all’ordine del genocidio.
Il manifesto di Aleppo finisce a Londra e i giornali lo pubblicano. Dice:
 
“Teniamo a ricordare che già in precedenza è stato comunicato che il governo ha deciso di sterminare totalmente gli armeni residenti in Turchia. Chi si opporrà a questo ordine non potrà più fare parte dell’amministrazione. Non bisogna avere riguardo per le donne e per i bambini; per quanto tragici siano i mezzi con i quali si deve mettere fine alla loro vita, bisogna ricordare che tutto questo è fatto per il bene della nazione e del popolo turco.”
 
Giacomo Gorini, console generale italiano a Trebisonda, nel 1915, al suo ritorno in Italia, fornisce ai superiori questa descrizione.
 
“Di 14 mila armeni, tra gregoriani, cattolici e protestanti che abitavano a Trebisonda e che mai provocarono disordini, né dettero luogo a provvedimenti collettivi di polizia, quando partii ne restavano appena cento. Dal 24 giugno fino al 23 luglio, giorno della mia partenza, non ho quasi mai dormito, non sono più riuscito a mangiare, ero in preda ai nervi e alla nausea, tanto era lo strazio di dovere assistere a una esecuzione di massa di creature inermi. Il passaggio degli armeni prigionieri sotto le finestre del consolato, le loro invocazioni al soccorso senza che io o altri potessimo fare nulla essendo la città in stato di assedio, guardata da 15 mila soldati e dalle bande di vlontari curdi e degli addetti del comitato Unione e Progresso, mi ha sconvolto. Poi, le grida, gli spari, gli scempi…”
 
E il console russo di Khoi, incaricato, dopo il passaggio dei turchi e dei curdi, di seppellire gli armeni, scrive:
 
“Non dimenticherò, mai questi orrori. Sono dieci notti che mi sveglio in preda a incubi angosciosi. Dalle fosse espressamente scavate ho fatto estrarre 850 cadaveri decapitati. I pozzi della città sono pieni di sangue. I carnefici avevano attaccato le vittime a corde e le facevano scendere nei pozzi fino a che il corpo fosse immerso e lasciando solo la testa all’aria aperta. Poi, con un colpo di spada, decapitavano il poveretto. Il corpo era lasciato cadavere nell’acqua, la testa, infilata in un palo, veniva esposta nella piazza della città o portata in trionfo sulle punte delle baionette. Ma, quando avevano fretta inchiodavano gli armeni a un muro e li massacravano a colpi di sciabola…”
 
Prima della grande guerra gli armeni dell’impero ottomano erano 1 milione e 800 mila. Se ne contavano poco meno di un terzo, nel 1918, allorché le grandi potenze presero atto ufficialmente del massacro e ne chiesero conto ai turchi. Si stabilì per certo che 600 mila persone erano state trucidate, altre 600 mila erano fuggite altrove: i superstiti avevano conosciuto orrori e paure terribili. Lo sgretolarsi dell’impero li trova sparsi lungo le coste del Mediterraneo, nelle nazioni nate dal disfacimento del vecchio regno di Abdul Hamid. Come ha scritto uno di loro, Elia Kazan, “erano fantasmi che non riuscivano più a credere alla speranza”.
 
 
Daniela دانیلا Zini زینی
Copyright © 2010 ADZ
TUTTI I DIRITTI RISERVATI
ALL RIGHTS RESERVED
TOUS LES DROITS RESERVES
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.


Luned́ 18 Gennaio,2010 Ore: 12:36
 
 
Ti piace l'articolo? Allora Sostienici!
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori

Print Friendly and PDFPrintPrint Friendly and PDFPDF -- Segnala amico -- Salva sul tuo PC
Scrivi commento -- Leggi commenti (0) -- Condividi sul tuo sito
Segnala su: Digg - Facebook - StumbleUpon - del.icio.us - Reddit - Google
Tweet
Indice completo articoli sezione:
Storia

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito


Ove non diversamente specificato, i materiali contenuti in questo sito sono liberamente riproducibili per uso personale, con l’obbligo di citare la fonte (www.ildialogo.org), non stravolgerne il significato e non utilizzarli a scopo di lucro.
Gli abusi saranno perseguiti a norma di legge.
Per tutte le NOTE LEGALI clicca qui
Questo sito fa uso dei cookie soltanto
per facilitare la navigazione.
Vedi
Info