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www.ildialogo.org UNA VIAGGIATRICE EUROPEA SULLE STRADE CHE VIDERO GENGIS KHAN E MARCO POLO: AFGHANISTAN 1969,di Daniela Zini

UNA VIAGGIATRICE EUROPEA SULLE STRADE CHE VIDERO GENGIS KHAN E MARCO POLO: AFGHANISTAN 1969

- PRIMA PARTE -


di Daniela Zini

Passaggio obbligato nel cuore dell’Asia, la terra che fu contesa dai grandi conquistatori del passato svolge oggi il ruolo delicato di Stato-cuscinetto tra l’Oriente e l’Occidente. Gli afghani attuali e il loro re si proclamano la nazione più neutrale del mondo, dopo aver fondato la propria indipendenza con millenni di guerre e di sangue.


Posto tra Cina e Iran, tra Russia e subcontinente indiano, l’Afghanistan assomma due peculiarità: è un passaggio nel cuore dell’Asia, così obbligato che tutti i grandi condottieri e viaggiatori dovettero transitarvi, da Alessandro Magno a Marco Polo; ed è pochissimo noto nel mondo occidentale.
Il fondamento dell’Afghanistan riguarda, anche direttamente, L’Europa. Ci riguarda, in primo luogo, il tessuto etnico. La grande maggioranza degli afghani si proclama indoeuropea. Certo, hanno subito numerose commistioni: basti dire l’ondata araba, che tra l’altro, determina l’avvento di quella grafia. Ma le due lingue afghane, il dari e il pashtu, sono lingue indoeuropee. Dipende dalle migrazioni di alcune migliaia di anni fa, quando, diffondendosi verso il meridione delle steppe dell’attuale Russia, gli ariani dovettero necessariamente invadere l’Afghanistan. La città di Balkh, nel nord del Paese, è considerata una delle culle della loro razza.
All’inizio dei tempi storici, l’Afghanistan faceva parte dell’Impero persiano; vi penetrò, nel IV secolo a.C. Alessandro. Subito, la scia del condottiero venne seguita da mercanti, tecnici, artisti occidentali; più tardi i regni ellenistici conglobarono anche l’Afghanistan; la Bactriana, imperniata su Balkh, sopravvisse a lungo come territorio pressoché greco.
Ma vi è di più. Buddha nasce nel VI secolo a.C. e la sua religione si diffonde, anche in parte, nell’Afghanistan, senza, tuttavia, che la sua immagine venga mai raffigurata; poi, arrivano, memori dei loro dei, gli artisti greci, ed ecco Buddha effigiato in statue e dipinti; al dio nepalese gli artisti occidentali danno, sia pure con gli occhi a mandorla, il volto di Apollo. 
D’istinto noi europei, permeati di umanesimo, badiamo più alle tracce del mondo classico che ad altri fattori. Ma, intanto, la storia dell’Afghanistan corre. Nasce un grande impero locale, detto Kushana, che, guidato dal sovrano Kanishka, più o meno ai tempi di Nerone si batte contro i cinesi. Arrivano, dal ricostituito impero persiano, i Sassanidi; piombano da nord feroci genti, cugine degli unni; dilagano, nel VII secolo, gli arabi, che con la religione musulmana diffondono nuove norme e forme di vita. Quantunque gli arabi come tali lascino, poi, il paese o vi si fondano, queste norme e forme, basate sull’Islam, danno all’Afghanistan il costume generale che esso conserva tuttora.  
Oggi, gran parte dell’Afghanistan è steppa o deserto; non così settecento anni fa. A quei tempi, mentre da noi nasce Dante, dalla Mongolia irrompe l’onda di Gengis Khan. E spazza tutto, da un capo all’altro del paese. Gengis Khan distrugge, sia per spirito primordiale di aggressività o per necessità, sia perché la sua gente, in gran parte di origine nomade, basa la conquista sull’impiego dei cavalli, quindi, sull’esistenza non delle città ma dei grandi spazi liberi. La distruzione radicale investe anche le opere di irrigazione. Quando Gengis Khan si ritira, l’Afghanistan decade presto a steppa, a deserto.
Noi stiamo parlando globalmente di Afghanistan, per un motivo di assunto. Ma, fin quasi ai tempi della rivoluzione francese, l’Afghanistan come tale non esisteva. Vi è, invece, un complesso di regioni, dinastie e domini. La dinastia afghana di Ghazna giunge a insediarsi sui troni della non lontana India. Sei secoli fa entra da dominatore, nella storia afghana, Tamerlano. Durante il nostro Rinascimento, il grande impero moghol dell’India ha come fondatore un afghano, Babur (il quale, morto in India, viene sepolto presso Kabul, dove il suo monumento funebre è stato mirabilmente restaurato da una missione italiana). Durante il periodo del rococò europeo, condottieri afghani cercano di espandersi, dalla città di Kandahar, verso la Persia. L’ultimo grande conquistatore asiatico, Mohammad Nader Shah, che mira, invece, come alcuni dei suoi predecessori, all’India, è, a sua volta, afghano.
L’unità che si va delineando possiede una formidabile posizione strategica e anche commerciale. Ma è, come un tempo, un’arma a doppio taglio. Perché, se il periodo delle grandi invasioni si va allontanando, avanza, invece quello del colonialismo. Espandersi verso l’India? E come, se i nemici da battere sarebbero non più i popoli locali, ma, ormai, i britannici? Anzi, l’incontro con gli inglesi fa perdere agli afghani un’ampia regione, oggi appartenente al Pakistan; è un particolare su cui tornerò più avanti.
Analogamente, l’avvento della Russia in Asia costa agli afghani la perdita di Samarkanda, Bukhara e altre città, vale a dire di tutte le terre a nord del fiume Amu Daria (l’Oxus dei tempi classici).
Da parte afghana, tra l’influenza russa e quella britannica si preferirebbe quest’ultima, perché più duttile, meno autoritaria. Ma si pretenderebbe un’illimitata autonomia interna. Inoltre il compromesso viene ostacolato dall’esistenza di indomabili tribù afghane nella zona del famoso passo del Khyber e oltre, ossia di là dalla frontiera con l’India.
Per ben due volte, i contrasti sfociano non già nell’accordo, ma nella guerra. Sono campagne crudeli, sanguinosissime. I monumenti di alcune città afghane si ornano tuttora dei cannoni conquistati al nemico. Nelle botteghe di Kabul e di Kandahar non è difficile trovare vecchie pistole britanniche, con inciso il nome dell’ufficiale che le portava e che, con ogni probabilità, nel corso della campagna vi lasciò la pelle.
A equilibrio faticosamente raggiunto, l’Afghanistan svolge le sue previste funzioni di cuscinetto. E assume progressivamente le caratteristiche, sia pure embrionali, di Stato. Ma uno Stato sui generis. Risente, infatti, di una nascita tormentata, favorita da forze esterne, inquinata dall’eterogeneità etnica. Inoltre il nuovo Stato ha confini naturali insufficienti; peggio, un’alta catena montuosa lo attraversa in senso longitudinale, determinando una frattura tra nord e sud. Difficile, quindi, raggiungere la meta di una vera unità.
Gli afghani conquistano l’indipendenza totale solo nel 1919, anno in cui ha luogo la terza guerra contro i britannici. In verità, si tratta piuttosto di una serie di scontri, provocati dal sovrano Amanullah con un preciso scopo. Ammanullah era un capo intelligente e ardito e aveva scelto il momento giusto. Non vince la guerricciola, ma ottiene facilmente un armistizio e, poi, un trattato di pace, con il quale gli inglesi gli riconoscono piena libertà anche in politica estera. È l’8 agosto 1919.  Da allora, l’Afghanistan non ha mai visto minacciata la sua sovranità.
Amanullah, come Kemal Ataturk in Turchia, sa vedere chiaro. Comprende, a esempio, che per rendere l’Afghanistan efficiente bisogna mutare rotta, che occorre dimenticare certi tradizionali sospetti, favorendo l’afflusso degli stranieri; che la condizione della donna, fino allora tenuta in qualità di sottospecie umana, va liberalizzata. Amanullah è forte. Ma, quando pretende di imporre l’abolizione del velo femminile e fa comparire in pubblico la regina e le donne di corte a viso scoperto, suscita la violenta reazione dei mollah. Forse, nonostante tutto l’avrebbe superata; ma fa, in tutt’altra direzione, un passo falso. In altri termini, vuole manovrare anche con l’Unione Sovietica. E, questo, gli inglesi non possono tollerarlo. Così, scaturita all’interno e favorita all’esterno, divampa la rivolta. Nel 1929, Amanullah perde definitivamente la partita. Ha un solo torto: quello di aver guardato troppo lontano, di avere precorso i tempi.
Dapprima, caduto Amanullah, sul trono afghano si insedia un ex-capo di briganti; poco più tardi, costui viene impiccato. Alla fine dello stesso anno, cinge la corona un ex-ministro della guerra, Mohammad Nader Khan.
Quattro anni dopo, re Nader cade sotto i colpi di un attentatore. Da allora, vale a dire dal 1933, è sovrano il figlio di Nader, Mohammad Zaher; ha solo cinquantotto anni, benché la durata del suo regno superi di molto quella di ogni altro monarca contemporaneo. ufficialmente, la monarchia afghana ha carattere costituzionale. Lo Stato si articola nei due rami del Parlamento. L’unica donna-deputato è comunista.
L’Afghanistan non ha alcuno sbocco al mare. La popolazione si aggira tra i 12 e i 15 milioni. Di certi villaggi, l’esistenza è stata accertata solo attraverso l’aerofotogramma. Molta parte delle donne vive tuttora segregata, quindi, non può essere censita. Non esiste ancora un vero stato civile. Il servizio militare viene imposto bloccando i singoli abitati, e rastrellando i giovani. La quasi totalità della popolazione è musulmana, in gran parte di confessione sunnita. Nell’ambito dell’’Islam, gli afghani sono considerati tra i più intransigenti.
Dicevo, prima, dell’eterogeneità etnica. Esistono, infatti, non meno di tre grandi etnie afghane. Quella dei pashtun è diffusa tra Kabul, quasi tutto il confine pakistano e una larga fascia dello stesso Pakistan occidentale. I pashtun si ritengono gli afghani numero uno. Al loro gruppo etnico appartiene la famiglia reale. Favorita da questa circostanza, la lingua pashtun sta avanzando a grandi passi, tanto da essere stata dichiarata idioma nazionale. Tuttavia il tema dei pashtun ha anche aspetti dolorosi, perché il confine coloniale, imposto dagli inglesi e confermato, poi, ai tempi nostri, amputando i margini orientali dell’Afghanistan spezzò in due il loro popolo. Nei riguardi dei pashtun di oltre frontiera l’Afghanistan ha assunto un atteggiamento irredentistico. Sulle carte afghane le regioni occidentali del Pakistan vengono definite “Pashtunistan”. Quindi, i rapporti tra Kabul e Rawalpindi non sono cordiali. Migliorarono, per motivi di solidarietà islamica, durante la guerra tra Pakistan e India, nel 1965; ma gli afghani non dimenticano i tempi in cui i domini dei pashtun raggiungevano la valle, oggi pakistana, dell’Indo.
La seconda grande etnia afghana, quella dei tagiki, vive soprattutto tra Kabul e i confini settentrionali e occidentali, oltre cui il medesimo gruppo etnico si estende, poi, in Iran e nella repubblica sovietica del Tagikistan. I tagiki si considerano ariani più puri dei pashtun; la loro lingua ha un alto valore sia letterario sia pratico; in un passato anche recente, i tagiki d’Afghanistan ebbero un peso specifico molto superiore a quello attuale. Verso i tagiki di casa propria – musulmani anch’essi –, l’URSS si è comportata con molta abilità. Mirava, con la sua politica, a ingraziarsi i tagiki afghani.
Pashtun e tagiki formano quasi i nove decimi della popolazione; terzo e ultimo, il gruppo degli hazarà comprende tra mezzo milione e un milione di anime. Gli hazarà sono certamente afghani sotto l’aspetto politico e, tra l’altro parlano persiano; invece, sotto il profilo etnico, hanno tutt’altra origine. Hazar vuol dire, in persiano “mille”; di mille uomini si componevano le guarnigioni mongole, insediate in Afghanistan da Gengis Khan; gli hazarà hanno stigmate nettamente mongole, dunque, discenderebbero dalla orde di Gengis Khan.
Gli hazarà abitano soprattutto nelle zone centro-settentrionali del paese, specie in montagna; sono poveri e accaniti lavoratori; si dedicano volentieri ai piccoli commerci, con pazienza, con tenacia; sono largamente impiegati nelle forze armate, sia per la loro solidità fisica, si perché la loro povertà esclude certi intrallazzi con cui ottenere l’esonero. Tra gli afghani, in generale, sembrano i meno progrediti; per questo motivo, vi è chi li considera cittadini di second’ordine, se non inferiori.
Dopo le etnie più numerose, molte altre ne vengono. A esempio gli uzbeki, mongolici come gli hazarà, che non rinunciano mai al caratteristico pizzetto; i turcomanni, diffusi verso la repubblica sovietica del Turkmenistan; gli ebrei, giunti dalla remota antichità e ammirevolmente sopravvissuti; qualche migliaio di nuristani, forse, di origine greca, cui ho già accennato; infine, i kuci.
In verità, i kuci costituiscono non un’etnia in sé, ma piuttosto un popolo, composto in maggioranza di pashtun, ben definito, alieno da mescolanza, rigidamente caratterizzato dal nomadismo. Il numero dei kuci è stato valutato sulla ragguardevole quantità di settecentomila; ebbene, a seconda delle stagioni l’Afghanistan viene regolarmente attraversato da molte centinaia di migliaia di nomadi, che viaggiano a cammello, in grandi carovane, conducendo gli armenti verso le zone di pascolo. A sera le carovane sostano, accendono i fuochi, montano le grandi tende. Visitando quegli alloggi, abbiamo la rivelazione di un’umanità che ha risolto i suoi problemi, decisi a non mutare il modo di vita. Al suolo, tutta la superficie libera è ricoperta di tappeti, spesso preziosi. Le donne non portano velo; ostentano, invece, monili d’argento e d’oro, complicati, grevi. E una tenda può contenere un vero arsenale, anche modernissimo, perché i kuci sono tradizionalmente avvezzi, in ogni circostanza, a fare da sé.  
 
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Lunedì 02 Novembre,2009 Ore: 16:44
 
 
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