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www.ildialogo.org Una scuola per l’integrazione,di Brunetto Salvarani*

Una scuola per l’integrazione

di Brunetto Salvarani*

È diventato un ritornello: abitiamo una società globale sempre più complessa, intrecciata, plurale, meticcia. A fronte di tale scenario, il piano di riforma Gelmini e le scelte di fondo che l’animano sembrano essere improntati all’idea che esistano soluzioni semplici a problemi complessi. Che la soluzione stia nell’uno (un maestro, un voto, un libro) piuttosto che nel molteplice. È quanto accade – a esempio – con il ripristino del voto di condotta che è tornato a far media, iniziativa su cui si può discutere a lungo e che certo non scandalizza: è tuttavia perlomeno ingenuo pensare che il disagio vissuto da adolescenti e giovani possa essere arginato con il voto di condotta e l’eventuale bocciatura dei più facinorosi! Per definizione proprio costoro ben poco si curano del voto di condotta e della bocciatura. E così, la scuola rischia di essere definita più per la sua capacità di escludere che per quella di includere. Includere tutti, non uno di meno. Stranieri e italiani.
Stiamo assistendo, in sostanza, all’avanzare di un pensiero che reputa di poter fornire una mitica tranquillità chiudendo gli occhi di fronte alle sfide imposte dalla necessità di apprendere a gestire la società globale del rischio. Semplificando la realtà piuttosto che assumerla come luogo in cui si giocano i nostri destini apprendendo dal cambiamento. Certo, la congiuntura sociale e culturale in cui siamo immersi può generare incertezza, sconcerto e paura. Al riguardo Alessandro Baricco, ne I barbari, ha colto con precisione la sfida che la scuola e la società si trovano a dover affrontare: «Non c’è mutazione che non sia governabile.
Abbandonare il paradigma dello scontro di civiltà e accettare l’idea di una mutazione in atto non significa che si debba prendere quel che accade così com’è, senza lasciarci l’orma del nostro passo. Quel che diventeremo continua a esser figlio di ciò che vorremo diventare. (…) Detto in termini elementari, credo che si tratti di essere capaci di decidere cosa, del mondo vecchio, vogliamo portare fino al mondo nuovo. Cosa vogliamo che si mantenga intatto pur nell’incertezza di un viaggio oscuro.
I legami che non vogliamo spezzare, le radici che non vogliamo perdere, le parole che vorremmo ancora sempre pronunciate, e le idee che non vogliamo smettere di pensare. È un lavoro raffinato. Una cura. Nella grande corrente, mettere in salvo ciò che ci è caro. È un gesto difficile perché non significa, mai, metterlo in salvo dalla mutazione, ma, sempre, nella mutazione.
Perché ciò che si salverà non sarà mai quel che abbiamo tenuto al riparo dai tempi, ma ciò che abbiamo lasciato mutare, perché ridiventasse se stesso in un tempo nuovo».
Paulo Freire e i suoi discepoli ci hanno insegnato che ogni discorso e ogni pratica educativi devono sempre prendere avvio da un’analisi della congiuntura, del contesto, della situazione in cui si collocano. Non c’è un luogo mitico cui tornare, o una semplicità agreste pronta ad accoglierci! Non c’è riparo. C’è solo la possibilità di assumere il rischio di porsi consapevolmente in gioco nella corrente. E questo è il compito primario della scuola, chiamata a essere intellettuale sociale e dunque a leggere le domande di formazione della società e dei territori in cui si colloca, elaborando risposte competenti e processi formativi adeguati. Se le città in cui viviamo sono sempre più multiculturali, la scuola ha l’obbligo di formare cittadini capaci di vivere con pienezza dentro i nuovi contesti glo-cali caratterizzati dal pluralismo. La soluzione a tale inedita sfida non può certo venire da una ripresa del multiculturalismo identitario che postula la creazione di spazi sociali divisi (a ciò s’ispirava la mozione Cota sulle classi-ponte), e nemmeno dall’imposizione di un modello assimilativo in cui una mitica e fantomatica identità italiana (al singolare) è proposta come termine cui adeguarsi. Rispetto alle città interculturali, che saranno altre dalle nostre attuali città, ognuno di noi (autoctoni e immigrati) è straniero, straniero a noi stessi (J. Kristeva). Vale a dire, ognuno di noi è chiamato a farsi pellegrino e a mettersi in viaggio verso un nuovo spazio comune dove ciascuno e tutti, a partire dalle proprie differenze, possano sentirsi a casa e nessuno sia ospite/straniero/estraneo. Solo così saranno ricostruiti i legami sociali e la solidarietà che tengono assieme la vita delle/nelle città. Per farlo, occorre attrezzarsi al dialogo, all’incontro, alla mediazione e alla continua ri-negoziazione di vissuti e significati. Non si tratta di fondere i propri orizzonti in un sincretismo omogeneizzante o nell’universo simbolico del più forte, quanto di costruire assieme un nuovo linguaggio plurale e dialogico. Era questa l’idea di fondo del documento dell’Osservatorio del ministero dell’Istruzione sulla Via italiana per la scuola interculturale e l’integrazione degli alunni stranieri (ottobre 2007), ove si tenevano assieme saggiamente le logiche di una necessaria integrazione alle azioni, altrettanto necessarie, connesse a un percorso di interazione che porti a «convergere verso valori comuni». Un documento, purtroppo, ancora in vigore ma lasciato cadere nel cambio di ministro. Ha scritto Michel de Certeau, ne L’invenzione del quotidiano, che «pianificare la città significa a un tempo pensare la pluralità stessa del reale e rendere effettivo questo pensiero del plurale».
Il che vale non solo per le città ma anche per la costruzione dell’identità di ognuno di noi, abitato da identità plurime che si costruiscono nella relazione e non nella separazione.
L’educazione interculturale in Italia, storicamente, anche grazie alle riflessioni e agli interventi del ministero dell’Istruzione, è sempre stata vista non come la pedagogia speciale per stranieri ma come il nuovo nome dell’educazione nel mondo glo-cale.
Una scuola che non assuma la logica interculturale come fondamento della propria identità e quindi del proprio «Piano di offerta formativa» è una scuola che vive su un altro pianeta. Una scuola che non forma persone capaci di vivere con pienezza il proprio tempo. Che non risponde all’articolo 3 della Costituzione ma solo a se stessa. E in questo caso, davvero, sarebbe una scuola da chiudere (come spiega bene Aluisi Tosolini nel suo prezioso Oltre la riforma Gelmini, EMI 2008).
Un’altra scuola, del resto, non solo è auspicabile ma è anche possibile. E non come sogno utopico, ma riconoscimento e valorizzazione delle moltissime pratiche che già oggi stanno trasformando il mondo della formazione. Di queste pratiche nulla si dice oggi, preferendo discussioni ideologiche e vecchie. Proprio da esse, invece, sarebbe necessario ripartire per aprire un confronto approfondito sul presente e sul futuro della nostra scuola, non meno che degli oltre 600.000 studenti stranieri che annualmente l’affollano, e della società intera. Ed è a queste pratiche, che si devono a migliaia d’insegnanti e ricercatori che da anni le sperimentano nel quotidiano del processo di insegnamento/ apprendimento, che bisognerebbe avere il coraggio di ricominciare, per frenare il disagio e il disorientamento così diffusi nelle aule italiane. Di cui lo straordinario professor Troller, ideato in queste settimane da Antonio Albanese, non è una parodia, ma una rappresentazione tanto fedele quanto riuscita.
Brunetto Salvarani
* Teologo e giornalista, attualmente dirige «Cem Mondialità»

Il presente articolo è tratto da Riforma - SETTIMANALE DELLE CHIESE EVANGELICHE BATTISTE, METODISTE, VALDESI n. 6 del 12 febbraio 2010. Ringraziamo la redazione di Riforma (per contatti: www.riforma.it) per averci messo a disposizione questo testo



Martedì 09 Febbraio,2010 Ore: 16:47
 
 
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