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www.ildialogo.org PRETI A RISCHIO DI ESTINZIONE. MA LA CHIESA CHE FA?,di Agenzia ADISTA

PRETI A RISCHIO DI ESTINZIONE. MA LA CHIESA CHE FA?

di Agenzia ADISTA

 

DOC-2186. ROMA-ADISTA. È un dibattito che non ha fine - che non può averla -  quello sul celibato sacerdotale. Se non si contano più le voci che nella Chiesa mondiale si sono alzate negli ultimi anni a favore del celibato facoltativo (v. Adista n. 54/08), sono state le parole pronunciate dal segretario di Stato vaticano, il card. Angelo Bertone, a proposito degli obiettivi dell’Anno sacerdotale promulgato da Benedetto XVI (dal 19 giugno 2009 al 19 giugno 2010), a dare nuovo impulso alla discussione: “Si auspica – ha affermato il cardinale in un’intervista rilasciata all’Osservatore Romano il 27 agosto scorso, parlando del “grande entusiasmo” suscitato dall’Anno sacerdotale “in tutte le Chiese locali” - che avvenga una ripresa di contatto, di aiuto fraterno e possibilmente di ricongiungimento con i sacerdoti che per vari motivi hanno abbandonato l'esercizio del ministero”. Parole che hanno indotto qualcuno anche a pensare che Roma si stia interrogando in qualche modo sull’ipotesi di riammettere i preti che hanno lasciato il ministero.
Certo, il clima attuale appare tutt’altro che propizio alle riforme. Anche il fatto che, indicendo l’Anno sacerdotale in occasione del 150.mo anniversario della nascita di San Giovanni Maria Vianney, Benedetto XVI abbia offerto come modello da seguire un prete perfettamente rappresentativo della spiritualità devozionale ottocentesca - i cui metodi pastorali egli stesso ammette che “potrebbero apparire poco adatti alle attuali condizioni sociali e culturali” – non autorizza a farsi grandi illusioni. Ma è altrettanto certo che, di fronte alla crescente drammaticità che sta assumendo la questione della mancanza di preti, sono in tanti a chiedersi fino a quando Roma potrà continuare a far finta di niente. Se lo chiede per esempio Juan Cejudo Caldelas, membro del Moceop (Movimento per il celibato opzionale; www.moceop.net) e delle “Comunità cristiane popolari” spagnole, in un articolo dal titolo Año sacerdotal. Pero…¿qué tipo de sacerdote?. E se lo chiede José Carlos Rodríguez, ex comboniano che ha vissuto 20 venti anni in Uganda, uno dei tanti preti sposati che “sarebbero felici di passare un’altra volta al ministero attivo”, in un articolo intitolato Un año sacerdotal también para nosotros, los "ex", pubblicato il 3 settembre sul suo blog En clave de África, ospitato dal portale Religión Digital. Di seguito i loro articoli, in una nostra traduzione dallo spagnolo. (claudia fanti)




MA CHE TIPO DI PRETE?

 di Juan Cejudo Caldelas
Richiama l’attenzione il fatto che il papa attuale abbia proclamato l’anno che va dal 19 giugno 2009 al 19 giugno 2010 come Anno sacerdotale, offrendo come esempio da imitare un sacerdote dichiarato santo: San Giovanni Maria Vianney, nato nel 1786, famoso in particolare per le ore da lui dedicate al sacramento della Confessione, oggi quasi in disuso tra la maggioranza dei fedeli.
Il problema della mancanza di sacerdoti e religiosi nella Chiesa è terribile.
In Europa l’età media dei sacerdoti è di 68 anni e in Spagna di 65. Lo stesso problema avviene tra i religiosi e le religiose che si vedono indotti a cercare “rinforzi” nei Paesi africani o asiatici per coprire i posti necessari.
Si può pensare a cosa accadrebbe se in una qualsiasi categoria professionale - maestri, poliziotti, personale sanitario, pompieri, ecc. - l’età media si aggirasse intorno ai 65-68 anni: sarebbe il fallimento e la fine della professione.
Ma nella Chiesa nessuno sembra fare autocritica rispetto a tale problema. Nessuno si interroga sul perché questo accada. Nessuno stabilisce i mezzi per poter correggere questa disastrosa tendenza.
Le conseguenze in moltissimi Paesi, soprattutto dell’A-merica Latina (ma anche dell’Europa), sono tremende. Moltissime comunità si vedono private dell’Eucarestia domenicale e devono sostituirla con atti liturgici guidati da laici. In molte regioni i cristiani possono partecipare all’Eucarestia solo 4 o 5 volte all’anno per mancanza di sacerdoti. Moltissime parrocchie e case religiose hanno dovuto chiudere.
Molti dati potrebbero essere presentati, come il rapporto dei domenicani olandesi o il libretto del vescovo tedesco, ma residente in Sudafrica, Federico Lobinger, intitolato “I preti di domani”, in cui egli scommette con decisione sull’ordina-zione di preti sposati appartenenti alle stesse comunità.
La Chiesa dovrebbe avere il valore e il coraggio sufficienti per comprendere che il modello di “sacerdote tradizionale” ripreso dall’epoca del Concilio di Trento è superato da un pezzo e che bisogna offrire modelli molto diversi di prete, ben più adatti alla vita e alla cultura di oggi, come indica molto bene Lobinger.
Si tratterebbe di preti con un proprio lavoro, una propria famiglia, che vivrebbero la propria fede nella comunità. E sarebbe la comunità intera ad assumere il protagonismo e non il prete. Sarebbe la Comunità intera ad organizzare e distribuire i diversi servizi che si richiederebbero, rispondendo alle qualità dei distinti membri.
Non c’è motivo perché debba esistere solo il prete di parrocchia, per quanto questo modello debba ancora continuare ad esistere per un certo tempo.
Sono necessari nuovi modi di essere prete, che dovrebbero coesistere con il modello tradizionale. I preti operai sono un buon esempio di come sia possibile essere preti in un modo diverso da quello tradizionale. Oggi le strutture parrocchiali sono diventate obsolete per moltissima gente. Nessuno nella Chiesa si domanda perché i giovani si annoiano nelle messe e si allontanano?
Sono necessari altri quadri di riferimento in cui poter esprimere la fede con la comunità.
“I nostri luoghi di incontro non sono i templi, sono le nostre case accoglienti e aperte a tutta la comunità, i campi aperti in cui si possa stare tutti in una maniera più familiare o ampli saloni per uso civile da utilizzare per le nostre celebrazioni religiose”. “Dobbiamo pertanto essere comunità cristiane fortemente impegnate con i problemi concreti del popolo, partecipando alle sue lotte, alle sue rivendicazioni, appoggiando le mobilitazioni popolari in strada e tutte le cause giuste dei settori più sfavoriti della società” (“Las Comunidades de los discípulos de Jesús de Nazareth que se reunen en las casas de la gente” di Juan Cejudo e Gabriel Sánchez; Redes Cristianas, 4/2/09).
Il nuovo modello di prete avrà molto a che vedere con la preoccupazione per le cause sociali e ambientali, con l’im-pegno a fianco degli esclusi e di quanti meno possiedono in questa società, con l’interesse per i problemi del Terzo Mondo, con l’attiva militanza nel mondo di Internet in cui tanto bene si può fare a tanta gente e in tante forme...
Non sembra che oggi possa rappresentare una soluzione prendere come esempio S. Giovanni Maria Vianney, amante del sacramento della confessione a cui ormai quasi nessuno ricorre.
L’esempio oggi sarebbe piuttosto quello di un vescovo come Casaldáliga che ha tanto da dire a quanti vogliono farsi prete e vivere una spiritualità liberatrice e un impegno permanente, fino alla morte, a lato degli esclusi di questo mondo. O quello di un gesuita come Vicente Ferrer, sposato e padre di figli, con il suo impegno di liberazione a fianco dei più poveri tra i poveri dell’India.





 di José Carlos Rodríguez
Mi scuso per la mia assenza da questo blog nell’ultimo mese. Un viaggio in Uganda di varie settimane mi ha tenuto lontano da computer e connessioni a Internet. Mia moglie (ugandese) e io, accompagnati da nostro figlio di un anno, abbiamo approfittato della nostra visita per sposarci in chiesa in una cerimonia che abbiamo voluto fosse più semplice possibile. (...).
Alla luce di questo importante avvenimento personale, vorrei fare un breve commento su alcune recenti dichiarazioni del cardinal Bertone, il quale ha affermato che l’anno sacerdotale si rivolge anche a coloro che hanno abbandonato il ministero.
Per quanto mi riguarda, è una consolazione sapere che alle più alte istanze della Chiesa non ci si dimentichi di noi. Siamo migliaia noi sacerdoti che, avendo un giorno preso la decisione di sposarci, e volendo regolarizzare la nostra situazione per partecipare alla vita sacramentale della Chiesa, non abbiamo avuto altro rimedio che smettere di esercitare il nostro sacerdozio. Io, personalmente, ho chiesto il passaggio allo stato laicale (lo scorso anno) per amore di una donna, non perché avessi qualcosa contro la Chiesa o contro il ministero sacerdotale, che ho esercitato per 22 felicissimi anni, la maggior parte dei quali nell’Africa più povera. Riconoscendo che esistono molti casi e molto diversi, non si può negare che molti di noi, se ci fosse stato permesso di continuare a servire la Chiesa come ministri ordinati, lo avremmo fatto con tutto il cuore.
La nostra recente visita in Uganda me lo ha confermato. In due occasioni la mia famiglia e io siamo stati per vari giorni in villaggi remoti del Nord del Paese in cui non c’era un prete e la gente passava diverse settimane senza Eucarestia. Inutile dire che, se mi fosse stato permesso, molto volentieri avrei celebrato la messa nei giorni in cui sono stato lì, come pure una volta tornato a Madrid, per aiutare il prete della nostra parrocchia oberato di lavoro per essere rimasto solo. E in entrambi i casi non avrei neanche pensato ad una remunerazione o qualcosa di simile.
In molte occasioni penso sia un controsenso che nella Chiesa ci si lamenti della mancanza di vocazioni e di scarsità del clero, quando tanti sacerdoti sposati, se fosse loro permesso, sarebbero contenti di continuare a servire il popolo di Dio con il loro ministero. Non c’è bisogno di soffermarci su quanto tante volte è stato detto: che per molti secoli nella Chiesa il celibato non è stato obbligatorio e che oggi la Chiesa cattolica di rito orientale riconosce il celibato come uno stato di vita facoltativo per il clero. E che sono molti i sacerdoti cattolici provenienti dalla Comunione Anglicana  che mantengono la loro vita familiare.
La visita in Uganda ha fatto affiorare in me sentimenti che inevitabilmente un sacerdote passato alla vita laicale prova in molti momenti della sua vita. Per quanto immagino che in ciò, come in tutto nella vita, le cose dipendano dall’atteggiamento che si adotti, e pur considerando che la maggior parte delle persone con cui si entra in contatto negli anni di sacerdozio continua ad avere nei tuoi confronti una relazione cordiale e di sincera amicizia (la mia congregazione, i missionari comboniani, si sono sempre comportanti meravigliosamente bene con noi), tuttavia neppure si può negare che in varie occasioni ci si trovi in situazioni poco gradevoli, e non per propria scelta. Mia moglie e io, per quanto avessimo tutti i documenti in regola, senza oltrepassare neppure di un millimetro i limiti canonici, non abbiamo potuto sposarci nella parrocchia di lei – come avremmo voluto – perché il vescovo locale ha insistito sul fatto che si sarebbe dovuta dare prima “una catechesi adeguata alle gente perché non si confondesse”. Inutile dire che per noi non c’era alcun inconveniente, ma alla fine questa soluzione assurda è diventata un ostacolo insuperabile che ci ha costretto a cambiare tutto all’ultimo momento scegliendo la cappella di una casa diocesana a Kampala in cui un altro comprensivo vescovo ci ha permesso di celebrare il nostro matrimonio a 500 chilometri dal paese di mia moglie. Questo ci ha obbligato ad organizzare il trasporto per mia suocera, vari dei miei cognati e cognate con la rispettiva prole.
Questo è solo un piccolo saggio di quanto molte volte deve sopportare l’uomo che ha abbandonato il ministero per potersi sposare. Ti “consigliano” di non vivere nel territorio della parrocchia in cui hai precedentemente esercitato il tuo sacerdozio e anche di non farti vedere lì per evitare presunti scandali. Inoltre, non è raro che la ricerca di lavoro in una istituzione della Chiesa (per molti di noi la prima scelta al momento di cercare lavoro) diventi una corsa ad ostacoli, né che in istituzioni educative ecclesiali ti sia vietato di esercitare la docenza, né che in molti ambienti di Chiesa ti guardino con un certo sospetto.
Per questo mi rallegro che, secondo quanto affermato dal cardinal Bertone, l’anno sacerdotale abbia un pensiero, per quanto modesto, per noi preti che abbiamo lasciato il ministero. Per essere realisti, non dico che debba essere un’occasione per riaprire il dibattito sul celibato facoltativo nella Chiesa (sebbene non sarebbe male che un giorno venisse fatto con serietà) ma è almeno auspicabile che si rivolga l’attenzione a quanti sono passati a questa “riserva” in mezzo a scelte che per molti non sono state per nulla facili. Molti di noi sarebbero felici di passare un’altra volta al ministero attivo, soprattutto per dare una mano in luoghi in cui i cristiani hanno più fame della parola di Dio e dei sacramenti.

 

Articolo tratto da
ADISTA
La redazione di ADISTA si trova in via Acciaioli n.7 - 00186 Roma Telefono +39 06 686.86.92 +39 06 688.019.24 Fax +39 06 686.58.98 E-mail Sito www.adista.it



Luned́ 14 Settembre,2009 Ore: 18:34
 
 
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