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ISSN 2420-997X

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www.ildialogo.org FORUGH FARROKHZAD<br>UNA, NESSUNA, CENTOMILA,di Daniela Zini

FORUGH FARROKHZAD
UNA, NESSUNA, CENTOMILA

di Daniela Zini

Nell'anniversario della morte della poetessa iraniana


Dopo
La morte mi coglierà
Un giorno di primavera risplendente di luce,
Un giorno d’inverno polveroso e distante,
Un giorno d’autunno vuoto di grida e di clamori.
La morte mi coglierà un giorno,
Uno di questi giorni dolciamari,
Un giorno vano come gli altri,
Ombra di oggi e di ieri.
Corridoi bui i miei occhi,
Gelidi marmi le mie gote.
Su di me calerà repentino sonno,
Sarò incapace di grida di dolore.
Liberate dall’incantesimo della poesia,
Le mie mani scivoleranno, lentamente, sui miei quaderni.
Ricorderò che, un tempo, nelle mie mani
Arse la fiamma della poesia.
Incessantemente la terra mi chiamerà a sé,
Giungeranno per seppellirmi nella mia fossa.
Oh! Forse, a mezzanotte, i miei amanti
Deporranno rose sulla mia infelice tomba.
Dopo di me, repente si leverà
Lo scuro sipario sulla mia vita.
Occhi indiscreti frugheranno
Tra le mie carte e i miei quaderni.
Dopo di me uno(a) straniero(a), con il mio ricordo,
Verrà nella mia piccola stanza.
Sullo specchio si troveranno ancora
Un capello, l’impronta di una mano, un pettine.
Sarò affrancata da me, sarò superata da me.
Tutto ciò che era stato, sarà disfatto.
Come la vela di una barca all’orizzonte,
Il mio spirito si allontanerà, si celerà.
Impazienti, i giorni, le settimane e i mesi
Si susseguiranno gli uni agli altri.
Invano, i tuoi occhi fisseranno gli occhi delle strade,
Nell’attesa di una lettera.
Ormai la terra, la madre terra,
Serrerà il mio corpo senza vita!
Privato di te, separato dai battiti del tuo cuore,
Il mio cuore marcirà là sotto la terra.
Dopo, pioggia e vento scoloreranno, a poco a poco,
Il mio nome dalla lapide.
La mia tomba resterà ignota,
Dalla fama e dallo sprezzo riscattata.
Forugh Farrokhzad, Ribellione
Tehran 5 gennaio 1935 - Tehran 14 febbraio 1967
traduzione dal persiano di Daniela Zini
Fu intorno ai dodici anni che ebbe fine il sistema di selezionare i libri da leggere ed ebbi libero accesso alla biblioteca.
Secondo mio padre, dovevo decidere da sola quello che dovevo leggere: la letteratura era la mia grande passione e la letteratura doveva essere accettata con tutti i suoi rischi.
Dovevo apprendere a leggere con discernimento, a dare giudizi non influenzati, a non entusiasmarmi perché erano libri di successo, né a giudicare negativamente per l'avversa recensione di qualche critico.
Dovevo apprendere a esprimermi con il minore numero di parole possibile.
Questi sono stati i precetti di mio padre e questa fu l'impostazione culturale che lui mi suggerì.
Perché Forugh Farrokhzad?
Le amicizie di spirito si fanno per catene o per incontri, come le amicizie di cuore.
Un caro Amico ci fa conoscere i suoi amici e questi ci piacciono per i tratti che sono anche i suoi.
È attraverso un caro Amico che mi sono avvicinata a Forugh Farrokhzad.
L’incontro con questa forma di scrittura impegnata e lucida è stata decisiva nella ricerca della mia condizione di donna.
Ho iniziato a scrivere.
Ho sviluppato la mia scrittura sotto una nuova luce.
Come il cielo cambia di colore, i miei scritti sono divenuti una forma di lotta.
La mia penna contro ogni arma, il mio amore contro ogni violenza, la mia verità contro ogni menzogna.
E mi sono esiliata nella scrittura, nella bellezza della mia lingua di adozione e, inevitabilmente, in tutto ciò che questa possiede di mistero, di vigore, di dolcezza.
Forugh è stata una preziosa chiave nella mia presa di coscienza di giovane donna.
La sua voce, in un tempo in cui la donna taceva, è stata per me un cartello indicatore.
Questo risponde, spero, alla domanda :
“Perché Forugh Farrokhzad?”
Resta la difficoltà di rinnovare il racconto di una vita che passa per ben conosciuta.
Perché raccontarla una volta di più?
Contro ogni apparenza, nella sua vita  vi è un silenzio che io vorrei cancellare e che tutti hanno cercato di violare.
Amici e biografi hanno raccontato la sua morte, cercando una precisione che era una forma di indecenza, come a volere misurare la fatalità che colpiva quella donna, straordinaria creatura, e a tentare di cogliere in quella vita quanto Forugh aveva voluto tenere per sé. Taluni hanno ringraziato quella morte improvvisa che ha impedito all’immagine libera e singolare di alterarsi.
Nei lunghi anni in cui i suoi libri – e perfino pronunciare il suo nome – erano proibiti nel suo paese, le sue poesie sono state apprese a memoria e trasmesse in segreto con venerazione.
Il genio, per tutti compagno esigente e pericoloso, è, per una donna, un ospite ancora più temibile.
Nel 1996, l’Iran ha voluto riabilitare la memoria di Forugh, come se fosse necessario questo viatico per concederle il diritto di cittadinanza nel mondo di oggi.
Donna che ha sofferto, mezzo secolo prima di noi, la solitudine in mezzo alla folla, il tedio grigio della città, il gusto carnale del peccato, l’estasi dell’amore spirituale e l’inquietudine interiore, Forugh è anche il poeta che ha saputo trasformare la sua sofferenza in una poesia nuova, diretta, finemente cesellata ma priva di orpelli retorici. L’attenzione che gli studiosi dedicano ai valori musicali e ritmici del suo linguaggio, alla sua potenzialità espressiva, all’accumularsi dei significati nelle parole e nelle immagini, torna a conferma – se mai ve ne fosse bisogno – dell’intimo e indistruttibile legame tra il poeta e il suo strumento e dell’impossibilità di riprodurre questo legame ineffabile.
Nel mondo di oggi, quella di Forugh è, più che mai, una presenza viva.
Questa androgina del deserto, questa amazzone dal cuore d’oro incarna perfettamente l’idea di oriente che l’occidente coltiva: esotismo, amore, morte.
Ha eguagliato i classici nel creare caratteri e simboli di valore universale e li ha superati nel porre questioni che l’antichità ignorava o sfiorava appena, con una sensibilità moderna e in termini di altissima poesia. Non vi è problema della nostra epoca – morale, estetico, politico – che non si trovi prefigurato in lei, il problema della libertà e della responsabilità, il dubbio e la costituzionale incomunicabilità dell’uomo moderno, l’appassionata difesa della persona umana, mortificata dai razzismi, la condanna e la maledizione della violenza. Forugh ha saputo dare voce alle aspirazioni più profonde dell’umanità. Ha saputo scrutare la realtà nel profondo, pur mantenendosi disponibile a tutti i richiami, a tutte le suggestioni della fantasia e spingere lo sguardo al di là dei limiti del visibile e del tangibile. Si trovano in lei modi di dire l’indicibile, immagini capaci di gettare fasci di luce su questo mondo oscuro che si agita alle radici stesse della coscienza, quasi sospeso tra il conoscibile e l’inconoscibile. Forugh è una specie di scienziato-alchimista, mago-prestigiatore, dio-burattinaio, che scruta uomini e donne e la loro eterna commedia, pesandone al milligrammo le debolezze e le menzogne, i falsi eroismi e le vane illusioni, per comporne, scomporne e ricomporne, in tutte le possibili combinazioni, una quantità di giochi scenici. Manovrando i fili li fa scontrarsi, accusarsi, spogliarsi, sviscerarsi, e, da ultimo, inabissarsi senza pietà. Ecco i due punti estremi della parabola lirica di Forugh: un fiducioso slancio iniziale verso l’eterno e il ripiegarsi su di sé a scrutare la tenebra misteriosa che è al termine della vita terrestre. Quello slancio iniziale, che è in ogni poeta, ma che, in Forugh, assume un carattere particolare: si confonde, alla sua radice, con il senso di una missione da compiere.
“Per me la poesia è una cosa seria.” 
E, nell’accanimento con cui si dà a quella che le appare la sua missione vi è anche il bisogno di dimostrare a se stessa che ha altri doveri e la forza di compierli. 
Un saggio sulla poesia di Forugh dovrebbe tenere conto dei poeti classici persiani, di cui la sua opera è, del resto, l’ultimo anello. La poesia persiana, per quanto intellettualizzata possa esserne l’espressione, è sempre diretta: grido, sospiro, effusione sensuale, affermazione spontanea che nasce sulle labbra dell’Amante in presenza dell’Amato. Mescola raramente il patetico da un lato, l’elaborazione realista dall’altro, al suo lirismo o alla sua oscenità quasi puri. Il sentimento di una costrizione morale, il rigore o l’ipocrisia dei costumi non hanno influito sui poeti antichi come su questa donna del nostro tempo. Il gioco delle reticenze e degli schemi letterari, la mescolanza curiosa di rigore e di eccessi, perfino nello stile, e, soprattutto, la segreta amarezza che permea certi componimenti ne sono un’ulteriore testimonianza. La posizione del poeta resta quella tipica delle grandi epoche, quella di un artigiano squisito. La sua funzione si limita a dare alla più scottante e alla più caotica delle materie la più precisa e la più levigata delle forme. 
Ogni nozione di peccato è decisamente estranea all’opera di Forugh; in compenso, e solo sul piano sociale, è chiaro che il rischio dello scandalo e della riprovazione ha contato per lei, che ne fu, in un certo senso, ossessionata. La vergogna e la paura inseparabili da ogni esperienza clandestina conferiscono alla poesia la bellezza di un’acquaforte incisa con il più corrosivo degli acidi. I suoi versi migliori non ci danno delle esperienze o delle idee della loro autrice che il punto di partenza o quello di arrivo; tralasciano tutto quello che, anche nei più raffinati, si rivolge visibilmente al lettore, tutto quello che rientra nell’ordine dell’eloquenza o della spiegazione. Così avvezzi a vedere della saggezza un residuo delle passioni spente, da non riconoscere in essa la forma più forte e più condensata dell’ardore, la particella d’oro nata dal fuoco e non la cenere. D’altra parte, il bisogno di mettere l’esperienza personale a servizio di una riforma razionale o di un progresso sociale – o di ciò che si spera tale – è incompatibile con questa rassegnazione sobria che prende il mondo com’è e i costumi come sono. È senza grande preoccupazione di essere disapprovata o seguita che Forugh raggiunge decisamente l’edonismo antico. Questa visione pregnante e, nel contempo, leggera del piacere, senza abiezione, senza retorica, senza neppure la traccia del delirio di interpretazione cui l’epoca post-freudiana ci ha assuefatti, finisce per condurla a una sorta di asserzione pura e semplice di ogni libertà sessuale, qualunque ne sia la forma.
Poesia erotica, poesia gnomica sul tema dell’erotismo più che poesia d’amore.
Al primo colpo d’occhio, ci si può addirittura chiedere se l’amore per un essere in particolare figuri in questa opera.
Eppure, a ben guardare, non manca quasi nulla: incontro e separazione, desiderio inappagato o soddisfatto, tenerezza o sazietà, non è ciò che resta di ogni vita amorosa passata al crogiuolo del ricordo? 
È uno spettacolo del più grande interesse guardare maturare questa saggezza, vedere come i sentimenti di inquietudine, di solitudine, di separazione, ancora molto sensibili nelle prime poesie, cedano il passo a una tranquillità abbastanza profonda da sembrare facile. È sempre importante sapere se, in ultima analisi, l’opera di un poeta si esprima per la rivolta o per l’accettazione, ed è proprio per una sorprendente assenza di recriminazioni che si caratterizza questa che stiamo esaminando. Si può dire, senza apparire paradossali, che la rivolta qui si colloca all’interno dell’accettazione, fa inevitabilmente parte della condizione umana che il poeta riconosce come propria.  
Esperienza significativa per Forugh fu la poesia di Nima Yushij:
“Nima mi ha aperto gli occhi e mi ha detto: “Guarda!”, ma, sono stata io, da sola, ad apprendere a guardare.”
Forugh appartiene a quel ristretto gruppo di artisti cui si riconosce un valore universale, a quella rosa di poeti solari che appartengono a ogni epoca, ma solo nel senso che ogni epoca si trova a dovere misurarsi con loro, a fare i conti con la loro ingombrante presenza, e il modo di approccio è sempre diverso e peculiare. L’immortalità del poeta, quel “monumento più duraturo del bronzo”, vagheggiato da Orazio, consiste assai più nell’essere oggetto di dissenso che oggetto di culto. La valutazione che fluttua, la disputa che si ravviva, la problematica che si arricchisce a ogni passare di generazione, sono le misure autentiche della vitalità di un poeta.
Passata in mezzo a noi come una meteora, Forugh lascia, nello spazio di pochi anni, un’opera meravigliosa. La sua visione del mondo è tanto originale, il suo stile così raffinato e personale, che anche il più breve dei suoi scritti può rivestire un notevole interesse.
La sua vocazione, presente fin dall’infanzia, urta, per molti anni, contro un ostacolo insormontabile: l’obbedienza alle rigide regole della composizione. L’ostacolo è superato nel momento in cui, accettando se stessa qual è, spezza le catene tradizionali della poesia e lascia sgorgare, senza costrizioni, l’ispirazione che la anima.
“Quando avevo tredici o quattordici anni, scrivevo molte poesie, mai pubblicate. La poesia prorompeva in me spontaneamente. Ogni giorno componevo due o tre poesie, stando seduta, in cucina, dietro la macchina per cucire.”
Nel suo impulso verso l’espressione tragica di un individualismo aspro, integrale, talora addirittura estremistico, l’opera poetica di Forugh sembra avanzare sotto il segno della frase di Pindaro, ripresa a suo tempo da Nietzsche:
“Divieni ciò che sei.”
e assume il suo carattere più autentico quale tentativo di edificare un orgoglioso monumento alla pienezza dell’uomo in quanto persona.
È un’esplorazione che Forugh tenta del suo mondo.
Descrive un viaggio iniziatico.
Chi dispone le sue poesie cronologicamente possiede un diario assai preciso dei moti della sua anima.
“Considero la poesia una vera e propria esigenza, un’esigenza più importante del mangiare, del dormire, dello stesso respirare: è una necessità per me. Fa parte ormai di me.”
La sua poesia è la vita fatta opera, l’essere e il tempo umani tramutati in linguaggio.
“Che nella mia poesia si possa distinguere un tratto femminile, è inevitabile. Sono una donna. Ma, se si considera il valore artistico, non si dovrebbe tenere conto del sesso dell’artista. Non è giusto attenersi a questo aspetto. È naturale che una donna, per ragioni connesse alla sua specificità fisica e psicologica, colga aspetti della realtà, che a un uomo, probabilmente, sfuggono, e abbia una visione femminile delle cose diversa da quella maschile.”
Questa osmosi, che rende l’opera e la vita indissociabili come vasi comunicanti, spiega la scelta del termine Asir (Prigioniera) per il titolo della sua prima raccolta poetica.          
“La poesia mi era aliena. Ora è penetrata in me, si è impossessata di me e, per questa ragione, non me ne posso separare. Ne sono perfino gelosa. Un tempo non prendevo sul serio le mie poesie; ora, se qualcuno ne irride, mi risento: le amo troppo. Ho lottato molto per giungere a domare questa cosa che mi appariva estranea e selvaggia e sentirla parte di me. Mi sono a tal punto fusa con essa e, a tal punto, essa scorre in me, che non è più possibile separarci.”
Come Marina Svetaeva, Forugh crede che si possa essere poeta senza avere mai scritto un solo verso. Per queste due donne la poesia è una vocazione, un modo di vivere, un modo di percepire il mondo, come una stessa unità di essere. Le accomuna l’esigenza, assoluta come una chiamata religiosa o una vocazione mistica, di vivere la propria identità femminile al di fuori e contro gli schemi prefissati, di reinventarsi un’esistenza libera nell’unico spazio incontaminato dalla realtà e a essa strenuamente antagonista: la poesia.
Il fascino vagabondo della poesia è di piegarsi alla vita e, in ciò, non è molto dissimile dal diario intimo. Questo perché un’opera poetica dà sempre qualche appiglio all’illusione retrospettiva. Tutta la questione è di sapere se la forma che soddisfa, infine, lo spirito e il cuore, l’occhio e l’orecchio, è un’illusione o, al contrario, una costruzione che si rivela la sua struttura, al termine di un lungo e tortuoso percorso. Parlare di ispirazione a proposito della poesia, è riconoscere che questa è intessuta di una successione di momenti casuali o, se si preferisce, di grazia. E , tuttavia, questa successione apparentemente sconnessa, poiché tale è il prezzo della libertà, dell’improvvisazione, obbedisce in maniera segreta a un’esigenza di unità, è mossa da un disegno.
La sua opera poetica comprende cinque raccolte. A dispetto della divisione tematica e della frammentazione in poesie distinte, vi si può leggere una storia, una storia interiore, la storia di un’anima. Questo paziente assemblaggio di parole che fa una poesia, questa costellazione cangiante e mutevole di poesie che fa un libro – parole e poesie rivelate nella loro fragilità, trascinate via dalla corrente dell’esistenza, con tutto ciò che in essa vi è di raro e di banale, di casuale e di eterno – possiedono chiaramente il senso di una resistenza.
I sistemi sociali occidentali nei quali viviamo cercano sempre più un essere umano privo di pensiero libero, privo di volontà assertiva, ridotto a elemento di statistica, a indice di ascolto verso priorità economiche di consumo.
La poesia è una forma non violenta, ma estremamente efficace, di protesta contro ogni forma di regime.
La poesia di carattere si confonde, quasi sempre, con la poesia politica.
Come molti suoi conterranei, Forugh sembra essere stata amaramente sensibile allo spettacolo di perfidia, di disordine, di eroismo inutile o di vile inerzia che ha caratterizzato, sovente, la storia dell’Iran – non più, tuttavia, di ogni altra storia, antica o moderna. La sua assenza di moralismo, il rifiuto del sensazionale e dell’enfasi restituiscono a questi temi danneggiati da tanti declamatori una lampante attualità.
Si fa fatica a credere che le poesie di avvilimento e di disfatta non siano state ispirate da avvenimenti della nostra epoca, invece di essere state scritte mezzo secolo fa.
Questo aspetto militante è marcatamente evidente nei paesi occupati o soggetti a censura, ove la poesia si ammanta della funzione di lotta ideologica.
Al senso sovversivo delle parole assemblate si accompagna sovente un rinnovamento delle forme più o meno radicale : è un’altra lotta, questa interna alla poesia, un lavoro di distruzione-ricostruzione.
Forugh ha sempre attribuito un’importanza capitale alla composizione della sua opera, all’architettura del suo libro. Per lei, infatti, non si trattava soltanto di riunire in un unico volume delle poesie sparse, ma di integrarle in una forma dotata di forte coesione, di necessità organica. Va da sé che il titolo che corona questa somma e le dà, per sempre, un senso, questo titolo firma un progetto che, a lungo, prima di dichiararsi e di tentare di compiersi, è stato il filo conduttore latente di un’ispirazione pigramente e sapientemente orientata. Forse, questa preoccupazione è una delle cause dell’estrema lentezza nell’elaborazione e nella pubblicazione delle sue produzioni letterarie.
“Quando penso al Tavallodi Digar (Rinascita), mi rammarico. È il frutto di quattro anni di lavoro. Troppo poco!”
Prematuramente nasce in lei una profonda visione fatalista dell’esistenza umana, che le fa sostenere che tutto è scritto, tutto è maktub, che, forse, può essere la causa della sua inerzia nei confronti della successiva, precoce decadenza fisica.
Soggetta a eccessi di ogni tipo, brucia i suoi anni intensamente.
Abbandonata a un vento sradicante, a un’irresponsabile belva dolceamara che squassa, in un’epoca in cui la vita delle donne segue percorsi obbligati, Forugh si fa un modello di Elena, la colpevole, la sconsiderata, indifferente com’è all’amore rispettabile, sia esso quello razionale dei filosofi, che avvia a suprema essenza, sia esso quello ragionevole, che fonde e sostiene la famiglia e la comunità.
Dà scandalo.
La sua salute peggiora quasi subito.
Forugh perde la fede e si dedica con diligenza a cercarne un’altra, finché, dopo numerosi tentativi, trova un asilo spirituale a lei congeniale nella poesia.  
“Il rapporto a due non può mai essere perfetto o completo. Ma la poesia è per me un’amica con la quale poter parlare in libertà e in intimità. È un’amica che mi completa.”
Nel decennio che segue la sua abiura, Forugh scopre oltre alla propria vocazione di poeta e di pittore anche quella di regista. Aveva, insomma, un temperamento artistico. 
“Per me il cinema è un mezzo di espressione. Se ho scritto poesie tutta la vita, non per questo la poesia è l’unico mezzo di espressione.”
A ventisette anni realizza Khanè siyà ast.
Il soggetto fa paura: il lebbrosario di Baba Baghi, a Tabriz, dove i malati,  votati all’oblio, vivono nascosti al resto del mondo.
La cinepresa entra e libera volti, corpi, ossa, mani deformi senza clamori, con la compassione della sensibilità e quella distanza necessaria a un’immagine poetico-politica.
Forugh scrive i dialoghi, adattando passi della Torah e del Corano.
Questo cortometraggio, ordinato dalla Society for Assistance to Lepers,  una società caritatevole per la lotta contro la lebbra, è l’unico film di Forugh, che rivela una stupefacente padronanza della fusione del documentario e del linguaggio poetico e ne fa un’opera semplice ma eterna, un faro del cinema d’arte iraniano.
Ebrahim Golestan, suo compagno nella vita e nel lavoro, è il produttore del film.
“Il primo giorno che ho visto i lebbrosi, sono stata malissimo. Era uno spettacolo terribile: in un lebbrosario vivono creature con connotati e sentimenti umani, ma senza tratti umani.”
“Le donne lebbrose sono molto strane, pur avendo perduto ogni traccia della loro bellezza si truccano quotidianamente. Le loro dita consunte dalla lebbra sono piene di anelli. Mi hanno chiesto collane e bracciali. Nelle loro camere vi sono specchi e talismani.”
Il film si apre con l’immagine di una donna dal volto semicoperto che si guarda allo specchio.
 “Il mio film  si apre con l’immagine di una donna che si guarda allo specchio. Questa donna simboleggia, in realtà, l’essere umano che osserva la sua vita allo specchio, qualsiasi sia questo specchio.”
Una voce fuori campo commenta:
“Il mondo non difetta certo di brutture, se l’uomo distogliesse da loro lo sguardo ve ne sarebbero certo di più.”
È così che si entra nel quotidiano della khane-ye siyà, dove i lebbrosi attendono che la morte o, forse, per miracolo, le cure pongano fine al loro dolore. La critica iraniana accusa Forugh di strumentalizzare i malati, di usarli per scrivere una metafora dell'Iran sotto lo shah, un luogo di isolamento e di repressione. Ma, di sicuro, Forugh sarebbe stata in prima linea anche contro ogni oscurantismo religioso-politico a venire.
Nel corso del frenetico processo di modernizzazione del paese messo in atto da Mohammad Reza Pahlavi non era consentito rappresentare le miserie e i disagi che ancora persistevano: l’Iran doveva apparire agli occhi delle potenze occidentali un paese in pieno e rapido sviluppo. Il bersaglio primario della censura era, dunque, rappresentato da qualsiasi opera che, stigmatizzando i gravi costi sopportati dal popolo per quella modernizzazione forzata, potesse descrivere criticamente le condizioni sociali del paese o metterne in risalto la povertà e l’arretratezza o, comunque, una qualsiasi carenza della politica di governo.
Questa donna bizzarra è una figura scomoda, troppo particolare, troppo eccentrica.
“A proposito del percorso che ho scelto nella poesia e dell’idea che ne ho, penso che una poesia è una fiamma di sentimento e che è la sola cosa che possa trasportarmi in un mondo di sogno e di bellezza. Una poesia è bella quando il poeta vi proietta tutte le vibrazioni e il fervore della propria anima. Io credo che si debbano esprimere i propri sentimenti senza alcuna restrizione. In linea di principio, non si può fissare un limite all’arte, altrimenti perde la sua anima. È seguendo questo principio che scrivo poesie. Faccio molta fatica, come donna, a conservare la speranza in questa società corrotta. Ho dedicato la mia vita all’arte e posso dire di averla, perfino, sacrificata all’arte. Voglio vivere per la mia arte. So che il cammino che seguo nella società attuale ha fatto molto clamore e mi ha creato molti nemici.”
Il punto è che l’ufficialità la osteggia per le scelte radicali di arte e di vita, per le immagini che scavano nelle pieghe invisibili dell'Iran: è la prima donna in Iran a scrivere di amore,  di desiderio e di sensualità, e questo è intollerabile, come intollerabile è il fatto che nell'arte entri il vissuto senza compiacimenti, ma come gesto di libertà. Perché quel vissuto mescola erotismo e religione, denuncia privilegi e povertà, trasforma la poesia in uno spazio politico, senza perdere il piacere della scrittura.
“Ma, io credo che si debbano, una buona volta, infrangere le barriere. Qualcuno doveva impegnarsi in questo cammino e poiché io ho il coraggio e la volontà necessari, ho preso l’iniziativa. La sola forza, che mi dà sempre la speranza, è l’incoraggiamento dei veri intellettuali e artisti di questo paese. Io detesto la gente che fa tutto quello che vuole e, poi, parla continuamente di fustigare i costumi della società.”
Odiata o amata, senza mezze misure, da chi ebbe modo di conoscerla, dopo la sua morte, Forugh è divenuta, in Iran, una leggenda. Al di là delle mitizzazioni del personaggio, nel leggere le numerose pagine a lei dedicate, non si riesce, comunque, a rimanere indenni dal fascino che soffonde da questa donna, che riposa da quarantatre anni nel cimitero di Zahir-od-Dowlè, a Tehran.
Le molte false glorie, che il nostro tempo ha visto tramontare, in campo letterario come in altri campi, acuiscono la nostalgia dell’incontro con una gloria autentica. Ma non solo per questo Forugh è sentita così attuale e congeniale dalle nuove generazioni. Si tratta di un’affinità più profonda.
Una rivoluzione divide gli abitanti di un paese in tre gruppi: quelli che non possono essere che rivoluzionari, quelli che non possono essere che ostili alla rivoluzione e quelli che sono dilaniati perché, pur appartenendo alla classe minacciata, la avversano.
È a questo terzo gruppo che appartiene Forugh Farrokhzad.
Daniela Zini
Copyright © 2010 ADZ


Domenica 14 Febbraio,2010 Ore: 15:36
 
 
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