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www.ildialogo.org CONVOCAZIONE E INVOCAZIONE,di Alberto Simoni

Ancora “dopo Firenze”
CONVOCAZIONE E INVOCAZIONE

di Alberto Simoni

Annotazioni in margine ad un approfondimento di Paolo Giannoni


Su “Settimana” - settimanale di attualità pastorale – n. 23 del 14 giugno 2009 appare un articolo di Paolo Giannoni - “Un’insolita convocazione” – di resoconto dell’incontro del 16 maggio a Firenze, di cui egli è stato il promotore: la sua valutazione ha un “che” di ufficialità, e consente quindi un confronto più veritiero, sia pure con qualche annotazione rapida e marginale.
 
Scrive Giannoni: “È impossibile non accorgersi che, nel concreto, si sta verificando un certo scollamento fra la chiesa dei vertici e la chiesa di base, tra la chiesa dei documenti e la chiesa della partecipazione alla vita quotidiana e della prassi comunitaria. Anche le forme accentuate della polemica e dell’integralismo dimostrano che questo stato di cose è una ferita non affrontata, perché la permanente condizione di polemica, che esclude di considerare le ragioni degli altri, è un segno di debolezza. L’integrismo di una parte che invoca una chiesa di energia dirompente equivale a invocare una fascia d’oro posta su una ferita velenosa, perché malcelata ma esistente”.
 
Di una situazione reale grave si dà una diagnosi riduttiva a fondo personalistico: da una parte si parla di “ferita velenosa”, dall’altra dello scollamento interno alla chiesa stessa, senza dire che già tutto questo è solo il sintomo di un male più profondo, che investe il modo di collocarsi della chiesa nel mondo. Quindi problema obiettivo, storico, culturale e non solo comportamentale tra diverse sfere della chiesa: e mentre la permanente condizione di polemica è ascritta a cattiva disposizione d’animo di questo o di quell’altro, l’integralismo passa come espressione del sistema e sembra più accreditato!
 
Di fatto lo si riconosce: “Inoltre, la coscienza che oggi la relazione della fede con la storia non ha davanti un potere, bensì anche un disagio, ha portato alla lucidità che il percorso di una riflessione critica non può continuare nel metodo della contestazione, ma ha da farsi invocazione e convocazione per affrontare insieme il disagio, cogliendone anche le cause”. Ma si auspica il passaggio dal metodo della contestazione a quello della invocazione e convocazione, per cui diventa necessario proporre e fare una rete di raccordo, per superare quella forma di isolamento di esperienze teologiche ecclesiali, frutto di una volontà che ha escluso i non consenzienti.
 
Infatti, “si constata che in questi anni – soprattutto a causa di una volontà che ha escluso i non consenzienti – molte esperienze teologiche ed ecclesiali sono vissute in una forma di isolamento: ciò ha determinato un senso di solitudine che minava la volontà di speranza. Era dunque necessario proporre e fare una rete di raccordo”.
 
Il problema torna ad essere per tutti “la relazione della fede con la storia”, nella consapevolezza che “una riflessione critica non può continuare nel metodo della contestazione, ma ha da farsi invocazione e convocazione per affrontare insieme il disagio, cogliendone anche le cause”. Ecco appunto la “questione del metodo”, ed anche qui si parla della contestazione in chiave soggettiva, mentre il metodo giusto sarebbe quello della “convocazione e invocazione”. Ma in realtà da che parte sta la volontà di escludere i non consenzienti e perché la solitudine di chi è isolato deve diventare un motivo di condanna? Agli zoppi grucciate, si direbbe! Per cui sarebbe necessario dire con chi e tra chi fare rete di raccordo: se solo in senso orizzontale come convocazione o anche in senso verticale. Ma in questo caso, solo come invocazione? È importante capire questa metodologia, che peraltro sembra viziata da venature personalistiche, che occultano il punto critico di fondo.
 
Facendo riferimento alla sintesi dei contributi preparatori presentata da Enrico Peyretti e Ugo Rosenberg, si dice che “Da questi contributi è scaturito un prospetto vivo di una vitalità di varia colorazione, ma unita dalla volontà di annunciare il Regno e di essere chiesa, esprimendo una comunicazione franca e rispettosa, segnata dalla speranza. Un metodo che manifesta la ricchezza di una varietà nell’unità, diversa dal monocolore dell’unità equivocata come uniformità e conformazione”.
 
Per la verità si esalta la verità nell’unità - presumo tra i partecipanti - ma nulla si dice di chi equivoca la monocolore unità in uniformità e conformazione: sono per caso coloro a cui è rivolta l’invocazione? Basta allora ripresentare ad essi - attraverso un quadro teologico ineccepibile – quello che già sanno e dicono per primi, o il problema riguarderebbe invece “quello che fanno” o quello che rappresentano come struttura di pensiero e di prassi? 
 
L’interrogativo non è retorico, ma una risposta non penso la si possa avere, anche perché  “L’incontro non ha voluto avere una conclusione, ma è rimasto aperto, proprio perché il metodo sinodale non ammette una chiusura già preparata, ma neanche una decisione affrettatamente composta. Per la stessa ragione non sono state ammesse alla discussione alcune mozioni presentate, non solo per non ricadere in stili assembleari defatiganti (il lavoro di presentazione, di discussione e di limatura dei testi e approvazione avrebbe preso il tempo utile e prezioso utilizzato per accogliere i molti interventi presentati), ma anche perché la riunione ha voluto tenersi con l’ironia del proprio limite di essere una prima e aperta convocazione”.
 
Con tutto il rispetto per l’”ironia del proprio limite”, non si vede bene entro quali limiti possa estendersi la “rete di comunicazione” che si vuole creare, visto che si strizza volentieri l’occhio ad una fascia di chiesa organica presente all’incontro: pur denunciando ancora una volta che “Il metodo di esclusione ha trasformato l’unità della chiesa in un’uniformità”, si tiene a precisare che se “il 16 maggio abbiano avuto voce e presenza alcune delle sacche del dissenso”, “questa accoglienza non deroga alla ricerca di un rapporto con l’autorità della chiesa e con tante altre espressioni delle fede” Ancora una volta si lascia intendere che il problema è quello di “captatio benevolentiae” nei confronti della “chiesa organica” e di presa di distanza da residue sacche del dissenso, come se non ci fosse alcun problema reale, storico, obiettivo col quale misurarsi da una parte e dall’altra.
 
Ma si capisce meglio tutto quando si dice cosa sta a significare “l'insistenza sul dissenso”:
“a) l'esistenza di chi, rimanendo nel dissenso, non è cosciente di usare un metodo analogo a quello messo in atto dalla volontà di ricentraggio, che nasce da un'autorità autarchica. È proprio la coscienza della complementarietà che ha aperto la necessità di un metodo sinodale;
b) ciò è ben diverso dal metodo dei vari sinedri autoritari o progressisti, di gruppi-movimenti e di parzialità rese assolute, i quali reputano gli "altri" come gente che non conosce la legge a differenza dei capi e dei farisei che, conoscendola, hanno il diritto di essere riconosciuti come partecipi del vero e quindi avere autorità nel loro rifiuto (Gv 7,47-49)”.
 
Si cerca e si propone una terza via tra dissenso e autorità autarchica, che sarebbero speculari e non complementari, per cui “sembra ormai venuto il tempo che questi metodi cessino”. Si rimprovera al “dissenso” di essere speculare a quella “autorità autarchica” che ne sarebbe all’origine. Ma mentre nei confronti di questa si propone l’invocazione, se ne condivide anche la volontà di esclusione verso l’altro, usando misure diverse. Di qui la domanda: nella invocazione ci si pone come voce del dissenso o del disagio rivolta alla “chiesa organica” o ci si fa flebile eco di questa nei confronti di quanti ne hanno subito o ne subiscono esclusione o emarginazione? Fatte salve le intenzioni, non ci sarebbe modo di essere meno ambigui sul piano delle situazioni reali e vissute?
 
Il discorso di Giannoni prosegue, ma voglio limitarmi per ora a questa altra sua affermazione che si presterebbe ad un dibattito ampio, quando dice: “Il ristagno su pochi temi di contestazione, e prevalentemente sul piano pubblico-politico ed etico, è un segnale dell'impoverimento delle persone che vivono nella chiesa. E questo sembra anche essere il segno che la ricerca teologica è in stallo”.
 
No, un discorso serio sul dissenso non è “su pochi temi di contestazione, e prevalentemente sul piano pubblico-politico ed etico” (semmai simile insistenza è il limite palese di una Gerarchia che si muove in maniera massiccia in questo versante), ma è globale ed investe il modo d’essere e di porsi della chiesa in questo nostro mondo, ciò che è fonte di quel disagio che ha provocato la convocazione del 16 maggio. Questione reale, che la chiesa stessa dovrebbe porsi per prima, e che forse qualcuno si pone in sua vece, anche se tacciato di “dissenso”. Questione anche di metodo, che forse va posta in termini storici e non solo di diplomazia interna.
 
In questo senso Firenze ha avuto una sua continuità a Roma il 20 giugno, almeno per coloro che, pur non facendo parte della “chiesa organica”, erano ugualmente presenti il 16 maggio, mentre presenze di altro segno non si sono registrate a Roma: significa qualcosa tutto questo? Davvero cerchiamo una continuità di ricerca nella linea di problematiche comuni di chiesa – impresa non facile – o vogliamo lenire il disagio di quanti sono pienamente organici alla chiesa che lo produce?
 
A parte questo rilievo marginale, è il caso di dire che a Roma il discorso è stato proprio quello del metodo, nel presupposto che il Vaticano II non è solo un riferimento lontano e scontato (come sembra sia stato a Firenze) ma offre i lineamenti per un volto nuovo della Chiesa e tende a trasformarsi in rinnovata tradizione della fede.
 
Per avanzare e avvalorare questa ipotesi di lavoro, mi permetto di rilanciare il testo del mio intervento, che pone appunto la questione del metodo per una chiesa profetica. Sinceramente non mi dispiacerebbe che su queste ipotesi potessimo riflettere e lavorare assieme.
Alberto Simoni


Venerdě 03 Luglio,2009 Ore: 16:53
 
 
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