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www.ildialogo.org Il sottile piacere del mobbing…,di Giuseppe P. Fazio

Il sottile piacere del mobbing…

di Giuseppe P. Fazio

Coniato agli inizi degli anni settanta dall’etologo Konrad Lorenz per descrivere un particolare comportamento di alcune specie animali abituate a circondare in gruppo un proprio simile per assalirlo e per allontanarlo dal branco, il termine mobbing è, nell’accezione più comune, un insieme di comportamenti violenti, perlopiù psicologici, perpetrati da parte di superiori e/o colleghi nei confronti di un lavoratore.

Se prolungato nel tempo, solitamente, può essere lesivo della dignità personale e professionale nonché della salute psicofisica di chi subisce tale trattamento. I singoli atteggiamenti molesti non sempre raggiungono la soglia del reato ma, nell’insieme, producono danni, anche gravi e con serie conseguenze sull’esistenza della vittima.

Ma quali le motivazioni di tale comportamento? Negli animali è giustificabile da propensioni istintuali, cosa diversa è l’essere umano che dovrebbe essere mosso dalla ragione, dall’etica e dalla morale. Purtroppo però non sempre certe parole hanno un senso, a volte (sempre più spesso) i termini perdono significato assumendo la forma di vuoti involucri da riempire come più ci piace.

Le ragioni di certi comportamenti non sono sempre ben visibili, ogni atteggiamento nasconde dentro di se il vero volto della realtà che ci circonda: volto che ad uno sguardo fugace, mal si presta ad interpretazioni valide. L’atavica paura dell’altro, l’assurdo timore della competizione, la diffidenza e la poca autostima completano il quadro, rendendo più semplice l’interpretazione.

In una società dove la dimensione di un uomo è misurata in base alla lunghezza del suo conto in banca, in un mondo dove la realizzazione personale si misura in indici di gradimento è facile comprendere le ragioni di simili aberrazioni. Ma la colpa, perché di colpa si tratta, è tutta nostra! O meglio, lo sbaglio e di chi non rompe il circuito vizioso dell’indifferenza e di chi non comprende che chi lavora (non sempre è così purtroppo) lo fa perché ha bisogno di farlo e non perché è filantropicamente interessato al bene superiore. L’errore risiede in chi, convinto che il mondo ruoti intorno a se stesso, si pone nei confronti dell’altro come suo superiore. Ma per fortuna, la vita, per chi ha la ventura di comprendere, è ben altro!

Ma il problema permane: chi è vittima vive in una condizione a dir poco angosciante la cui soluzione, molto spesso, risiede nel gettare la spugna. Il fenomeno, non di facile individuazione, si nutre di complicità ed indifferenza e chi è solo nell’ambiente di lavoro è paragonabile ad un brutto anatroccolo destinato all’abbandono. La risoluzione, come spesso accade per tante altre cose, dimora o nel buon senso delle persone o nella speranza di una presa di coscienza da parte di chi, ora carnefice, un giorno potrebbe essere vittima a sua volta.



06 ottobre 2009
 
 
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