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ISSN 2420-997X

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www.ildialogo.org Un primo testo del gruppo di riflessione sulla Bibbia del Gruppo del Guado,

Cristianesimo ed omosessualità
Un primo testo del gruppo di riflessione sulla Bibbia del Gruppo del Guado

Machio e femmina li creò


Carissimi tutti,
vi scrivo per segnalarvi che il gruppo con cui abbiamo deciso di vivere un'esperienza di ascolto dei brani biblici che hanno ispirato la condanna dell'omosessualità da parte delle chiese ha prodotto un primo testo dedicato ai racconti della creazione dell'uomo. Come avevamo detto nel breve testo introduttivo che avevamo preparato, si tratta di brani che solo di recente sono stati messi in relazione con la condanna dell'omosessualità (grazie soprattutto alla riflessione di Bonhoeffer). Forse per questo motivo sembrano davvero molto significativi da un punto di vista teologico e, non a caso, il magistero cattolico recente, li ha utilizzati sempre più spesso per fondare una proposta antropologica in cui non c'è posto per le relazioni di coppia omosessuali.
Come avevamo spiegato nel breve testo introduttivo che avevamo mandato tre mesi fa noi abbiamo cercato di leggerli in un atteggiamento di ascolto, chiedendo al Signore di aiutarci a capire cosa hanno da dire quei brani a noi omosessuali.
Il risultato del primo incontro di approfondimento e di riflessione comune, potete trovarlo in questa pagina. (o di seguito ndr)

http://www.gianni.geraci.name/

Il prossimo incontro di riflessione sui testi biblici che hanno ispirato la condanna dell'omosessualità si terrà venerdì prossimo (8 gennaio) alle ore 21.00 presso la nostra sede di via Soperga 36 a Milano. Leggeremo in parallelo il capitolo in cui si racconta la distruzione di Sodoma (Genesi 19) e il capitolo in cui si racconta la distruzione di Gabaa (Giudici 19).
Un saluto cordiale a tutti.
Gianni Geraci
Portavoce Gruppo del Guado


 

Maschio e femmina li creò (Gen 1,27)
L’idea di mettere in relazione i racconti della creazione dell’uomo con la condanna dell’omosessualità è considerata recente, alcuni autori (come Christian Demur nel suo contributo al libro L’omosessualità. Un dialogo teologico pubblicato dalla Claudiana) attribuiscono espressamente a Dietrich Bonhoeffer, il teologo luterano morto martire nel campo di concentramento di Flossenbuerg, l’idea di leggere nell’espressione «maschio e femmina li creò» una condanna dell’omosessualità. Questa stessa idea, a partire dagli anni novanta, ha incontrato un successo crescente anche nel mondo cattolico, fino ad arrivare al documento Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni omosessuali emanato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede il 32 Luglio 2003 in cui i racconti della creazioni dell’uomo sono gli unici sui quali gli autori si soffermano per ribadire l’estraneità delle coppie omosessuali al disegno salvifico di Dio. Gesù stesso, nei racconti evangelici di Matteo (19,4) e di Marco (10,6), utilizza alcuni versetti dei racconti della creazione per sottolineare il primato del matrimonio su tutte le norme giuridiche che lo regolavano. A questo insegnamento di Gesù si rifanno alcune bellissime catechesi di Giovanni Paolo II sul matrimonio che, alla luce delle riflessioni già fatte dal Concilio Vaticano II nella Gaudium et spes affermano in modo inequivocabile la piena compatibilità tra il matrimonio cristiano e il cammino di perfezione che il Vangelo propone a ciascuno di noi. Si tratta di un elemento importante, perché nella teologia cattolica, per molto tempo, era passata l’idea di una sorta di primato della vita celibataria. Idea che si era strutturata in quella che viene indicata come la teologia dei consigli evangelici.
I brani citati dalla Congregazione per la dottrina della Fede per affermare il valore del matrimonio e per condannare le unioni omosessuali appartengono ai primi due capitoli della Genesi, in cui sono raccolti due racconti diversi della creazione dell’uomo: il più antico, che inizia con il versetto 4 del capitolo 2, fa parte di quello che i biblisti indicano come i testi che si rifanno alla tradizione jahvista (così denominata perché in questi testi il nome che viene utilizzato per indicare Dio è il tetragramma JHWH che noi traduciamo Jahwe o Geova); il racconto più recente copre invece l’intero capitolo primo e i primi versetti del secondo capitolo ed è stato redatto nel momento in cui i testi che compongono il pentateuco sono stati raccolti così come li leggiamo ora da parte di quella fonte sacerdotale a cui gli esegeti attribuiscono questa attività di raccolta e di composizione. Durante il primo incontro abbiamo deciso di leggere insieme queste due versioni e di chiederci quale senso possono avere per noi omosessuali.

 Sommario

1 In principio Dio creò il cielo e la terra. 2 La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque.
3 Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu. 4 Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre 5 e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: primo giorno.
6 Dio disse: «Sia il firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque». 7 Dio fece il firmamento e separò le acque, che sono sotto il firmamento, dalle acque, che son sopra il firmamento. E così avvenne. 8 Dio chiamò il firmamento cielo. E fu sera e fu mattina: secondo giorno.
9 Dio disse: «Le acque che sono sotto il cielo, si raccolgano in un solo luogo e appaia l'asciutto». E così avvenne. 10 Dio chiamò l'asciutto terra e la massa delle acque mare. E Dio vide che era cosa buona. 11 E Dio disse: «La terra produca germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto, che facciano sulla terra frutto con il seme, ciascuno secondo la sua specie». E così avvenne: 12 la terra produsse germogli, erbe che producono seme, ciascuna secondo la propria specie e alberi che fanno ciascuno frutto con il seme, secondo la propria specie. Dio vide che era cosa buona. 13 E fu sera e fu mattina: terzo giorno.
14 Dio disse: «Ci siano luci nel firmamento del cielo, per distinguere il giorno dalla notte; servano da segni per le stagioni, per i giorni e per gli anni 15 e servano da luci nel firmamento del cielo per illuminare la terra». E così avvenne: 16 Dio fece le due luci grandi, la luce maggiore per regolare il giorno e la luce minore per regolare la notte, e le stelle. 17 Dio le pose nel firmamento del cielo per illuminare la terra 18 e per regolare giorno e notte e per separare la luce dalle tenebre. E Dio vide che era cosa buona. 19 E fu sera e fu mattina: quarto giorno.
20 Dio disse: «Le acque brulichino di esseri viventi e uccelli volino sopra la terra, davanti al firmamento del cielo». 21 Dio creò i grandi mostri marini e tutti gli esseri viventi che guizzano e brulicano nelle acque, secondo la loro specie, e tutti gli uccelli alati secondo la loro specie. E Dio vide che era cosa buona. 22 Dio li benedisse: «Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le acque dei mari; gli uccelli si moltiplichino sulla terra». 23 E fu sera e fu mattina: quinto giorno.
24 Dio disse: «La terra produca esseri viventi secondo la loro specie: bestiame, rettili e bestie selvatiche secondo la loro specie». E così avvenne: 25 Dio fece le bestie selvatiche secondo la loro specie e il bestiame secondo la propria specie e tutti i rettili del suolo secondo la loro specie. E Dio vide che era cosa buona. 26 E Dio disse: «Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra».
27 Dio creò l'uomo a sua immagine;
a immagine di Dio lo creò;
maschio e femmina li creò.
28 Dio li benedisse e disse loro:
«Siate fecondi e moltiplicatevi,
riempite la terra;
soggiogatela e dominate
sui pesci del mare
e sugli uccelli del cielo
e su ogni essere vivente,
che striscia sulla terra».
29 Poi Dio disse: «Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo. 30 A tutte le bestie selvatiche, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde». E così avvenne. 31 Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona. E fu sera e fu mattina: sesto giorno.
1 Così furono portati a compimento il cielo e la terra e tutte le loro schiere. 2 Allora Dio, nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro. 3 Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli creando aveva fatto. 4 Queste le origini del cielo e della terra, quando vennero creati.
Quando il Signore Dio fece la terra e il cielo, 5 nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata - perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra e nessuno lavorava il suolo 6 e faceva salire dalla terra l'acqua dei canali per irrigare tutto il suolo -; 7 allora il Signore Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente.
8 Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l'uomo che aveva plasmato. 9 Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l'albero della vita in mezzo al giardino e l'albero della conoscenza del bene e del male. 10 Un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino, poi di lì si divideva e formava quattro corsi. 11 Il primo fiume si chiama Pison: esso scorre intorno a tutto il paese di Avìla, dove c'è l'oro 12 e l'oro di quella terra è fine; qui c'è anche la resina odorosa e la pietra d'ònice. 13 Il secondo fiume si chiama Ghicon: esso scorre intorno a tutto il paese d'Etiopia. 14 Il terzo fiume si chiama Tigri: esso scorre ad oriente di Assur. Il quarto fiume è l'Eufrate.
15 Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse.
16 Il Signore Dio diede questo comando all'uomo: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, 17 ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti».
18 Poi il Signore Dio disse: «Non è bene che l'uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile». 19 Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all'uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l'uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. 20 Così l'uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma l'uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile. 21 Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull'uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. 22 Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all'uomo, una donna e la condusse all'uomo. 23 Allora l'uomo disse:
«Questa volta essa
è carne dalla mia carne
e osso dalle mie ossa.
La si chiamerà donna
perché dall'uomo è stata tolta».
24 Per questo l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne.
Nel primo racconto la creazione è presentata come un progressivo passaggio da un’unità caotica primordiale a una molteplicità ordinata. Dio non è solo l’unico creatore della realtà (osservazione che emerge molto bene dall’espressione «In principio Dio creò il cielo e la terra»), ma è anche colui che ha iniziato un processo di differenziazione della realtà, un processo la cui bontà viene ribadita nel racconto per ben sei volte con l’espressione «Dio vide che era cosa buona». In qualche maniera si ha l’impressione che l’autore sacro cerchi di convincere il lettore della bontà di una realtà che forse, alla luce dell’esperienza quotidiana, così buono non sembrava affatto. Non a caso l’espressione che ribadisce la bontà del creato ricorre dopo che vengono citati degli elementi che possono avere conseguenze negative sulla condizione umana. Non c’è dopo la creazione della luce, del giorno e della notte. Non c’è nemmeno dopo la separazione delle acque con la creazione del firmamento. Inizia a comparire nel momento in cui si racconta la creazione del mare (e chi ha visto un mare in burrasca sa che non sempre è facile considerarlo «una cosa buona»). C’è una seconda affermazione della bontà della creazione dopo che si racconta come, in seguito alla parola di Dio, «la terra produsse germogli, erbe che producono seme, ciascuna secondo la propria specie e alberi che fanno ciascuno frutto con il seme, secondo la propria specie» (versetto 12). E anche qui, chi ha fatto l’esperienza di passare un pomeriggio a strappare le erbacce dall’orto, sa benissimo quanto sia facile avere qualche  dubbio sulla intrinseca bontà di tutte le varietà vegetali che si contendono il terreno (e i lettori a cui si rivolgeva l’autore biblico avevano molte più occasioni di noi per vivere questa esperienza). Si tratta, in sostanza, della stessa perplessità che proviamo quando ci accorgiamo che questo nostro mondo sarebbe più confortevole se le cose andassero diversamente: se non ci fossero delle giornate torride, ad esempio; se certi uccelli e certi pesci non venissero in contatto con noi; se certi animali non ci fossero affatto. E non a caso l’espressione «Dio vide che era cosa buona» compare dopo che si parla della creazione del sole e della luna, dopo che si descrive la creazione dei pesci del mare e degli uccelli del cielo e dopo la creazione degli animali che popolano la terra. Un’ultima volta, l’autore sacro, sente l’esigenza di ribadire con maggior decisione la bontà della creazione: quando nel versetto 31, dopo aver creato l’uomo «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona».
Un primo elemento di riflessione per noi omosessuali viene da questa fondamentale bontà della creazione che il primo racconto della creazione comunica in maniera così insistente.
Quante volte ci siamo sentiti sbagliati? Quante volte abbiamo pensato a noi stessi come a un errore o a un incidente della creazione? Il non essere in linea con i modelli previsti dalla cultura in cui si vive è un’esperienza che fa nascere questi pensieri. Ma proprio a questi pensieri, il primo racconto della creazione dell’uomo, risponde con chiarezza, affermando che tutto quello che Dio ha creato è sempre e comunque cosa buona, anche se ai nostri occhi le cose non sembrano stare così. E rispetto alla nostra umanità (e quindi anche rispetto alla nostra omosessualità), quello stesso testo arriva a dire che, agli occhi di Dio, non solo è cosa buona, ma che è addirittura «cosa molto buona».
Credo che in queste parole risuoni una risposta chiara ai tanti omosessuali che si percepiscono come qualche cosa di sbagliato. Nessun uomo è sbagliato. Ciascun uomo è prezioso agli occhi di Dio. Dentro ciascuno di noi è presente quella bontà strutturale che deriva dal nostro essere creatura di un creatore che non è come una fabbrica che ogni tanto produce dei pezzi difettosi, ma che essendo l’essenza stessa del bene e della bontà, non può che creare cose che, al di là delle apparenze, sono sempre e comunque strutturalmente buone.
Occorre guardare al di là dello specchio che deforma la realtà. Occorre risanare la ferita che l’esperienza del peccato ha aperto nella nostra umanità. Occorre credere fermamente nel fatto che Dio stesso ci ha chiamato all’esistenza. Occorre ricordare che alla fine la vera garanzia della nostra strutturale bontà è Dio stesso.
C’è  una preghiera di Teresa d’Avila che ci può aiutare a cogliere meglio il senso di questo brano. A un certo punto, questa grande mistica spagnola scrive: «Prendimi Signore come sono! Fammi Signore come vuoi!». Ecco! Il nostro cammino di conversione non può che partire dalla piena accettazione della nostra umanità, con le cose che, in questa umanità, ci piacciono e con le cose che, in questa umanità, non ci piacciono. E se chiediamo a Dio di prenderci come siamo non è perché lui condiziona il suo amore per noi a qualche caratteristica della nostra natura, ma è perché noi per primi, sbagliando, abbiamo l’impressione di essere amati di meno quando ci accorgiamo di assomigliare così poco all’uomo o alla donna che vorremmo essere.
E invece dobbiamo ripetere la prima parte di questa preghiera con insistenza, come se fosse una giaculatoria: «Prendimi Signore come sono!» fino a chiedergli di aiutarci, lui che può tutto, a superare l’idolo del nostro desiderio di «normalità» e di accettarci finalmente per quello che siamo.
Sarebbe bello se il mattino, ciascuno di noi, si alzasse dicendo al Signore: «Ti ringrazio per avermi creato, per avermi chiamato alla vita, per avermi donato la Fede e per avermi fatto omosessuale!». Quando riusciremo a fare questo, avremo finalmente assimilato il messaggio che ci arriva dal primo racconto della creazione così come l’abbiamo meditato insieme.
Naturalmente, nella preghiera di Santa Teresa, c’è anche quel «Fammi Signore come vuoi!» che rappresenta la disponibilità che dobbiamo avere nell’accogliere tutte le indicazioni che ci arrivano per risanare la ferita che l’esperienza del peccato ha prodotto dentro di noi. Quella stessa ferita che, tante volte, ci impedisce di scorgere la strutturale bontà della nostra natura di uomini. Alcune indicazioni che riprendono la seconda parte della preghiera che abbiamo appena meditato insieme ci arrivano dai primi versetti del capitolo 2 che concludono il racconto sacerdotale della creazione dell’uomo.
Nel commentare questo stesso brano, sant’Ambrogio scrive: «Il Signore Dio nostro creò il cielo e non leggo che si sia riposato. Creò la terra e non leggo che si sia riposato. Creò il sole, la luna le stelle, e non leggo nemmeno allora che si sia riposato. Ma leggo che ha creato l'uomo e che a questo punto si è riposato, avendo un essere cui rimettere i peccati» (Exameron VI, IX, 10, 76).
Dio, ci dice in sostanza Ambrogio, si riposa dopo aver creato l’uomo, proprio perché finalmente aveva creato qualcuno che, essendo in grado di scegliere e quindi di peccare, gli dava la possibilità di esercitare la sua misericordia, ovvero gli dava la possibilità di essere fino in fondo un Dio d’amore. E non è un caso che, mentre tutte le altre realtà create vengono viste da Dio come buone, l’uomo, con la sua capacità di scegliere e di peccare, venga visto da Dio come «cosa molto buona», talmente buona da indurre finalmente il creatore a prendersi un po’ di riposo.
Alla luce di questa riflessione ci accorgiamo che in quel «Fammi Signore come vuoi!» con cui si conclude la breve preghiera di Teresa d’Avila non c’è tanto un progetto di perfezione fondata su un volontarismo eroico, ma c’è la piena accettazione della misericordia di Dio, un Dio a cui possiamo tranquillamente affidare tutte le nostre aspirazioni, anche le più nobili, sapendo che tutto, ma proprio tutto, concorre alla celebrazione della sua infinita misericordia. In quel «Fammi Signore come vuoi!» è implicita la rinuncia alla pretesa di avere fin da ora un’idea esatta del modo in cui Dio ci vuole. Ma soprattutto, in quel «Fammi Signore come vuoi» c’è la consapevolezza del fatto che, al di là della nostra capacità di accogliere il suo progetto, c’è sempre e comunque la sua misericordia che va al di là di qualunque nostro limite, di qualunque nostra paura, di qualunque nostro tradimento.
Il creatore si riposa dopo aver creato l’uomo, perché finalmente ha creato qualcuno a cui può rimettere i peccati. L’uomo, quando fa l’esperienza del peccato, ha la grande occasione di fare l’esperienza della misericordia di Dio: una misericordia che non solo ripara il male che è stato compiuto, ma che lo trasforma in occasione di bene, in momento di crescita per quanti sono chiamati a sperimentare, attraverso la scelta eroica del perdono, quella solidarietà che si può stabilire quando qualcuno si accorge di aver sbagliato e vive la grazia del pentimento per il suo errore.
Queste riflessioni sulla misericordia di Dio, per noi omosessuali, hanno delle implicazioni molto importanti.
La principale riguarda il fatto che niente e nessuno potrà mai separarci dalla misericordia di Dio: se noi riusciamo a confidare nel suo perdono non c’è nulla che ci può impedire di riceverlo. Quelli che vengono a dirci: «Tu non puoi immaginare quello che ho fatto! Se te lo raccontassi mi manderesti via inorridito!» dimenticano che, anche nel caso in cui noi fuggissimo scandalizzati, Dio invece resterebbe ad ascoltarli e non reagirebbe mai male di fronte alla confessione sincera di un uomo che scopre di avere sbagliato. Dio non manda mai via nessuno, perché la sua misericordia, che è infinita, è sempre e comunque più grande di qualunque miseria umana, che per tanto grande possa essere, resta sempre e comunque finita.
In particolare occorre dire questo ai tanti omosessuali che vivono l’esperienza dolorosa di chi viene cacciato via in malo modo durante il Sacramento della riconciliazione. La misericordia di Dio, di cui questo sacramento è una celebrazione importante, anche se trova in questo sacramento un segno efficace che può manifestarla in pienezza, non si riduce a questo sacramento. Dio ci ama anche quando, per qualche motivo, un confessore si rifiuta di darci l’assoluzione. Dio ci ama ancora di più quando ci sentiamo soli e rifiutati dalle sue chiese, perché in quel momento sa che abbiamo davvero bisogno di sentire il calore del suo amore.
Fino a quando, durante il Sacramento della riconciliazione, ci starà a cuore il giudizio dell’uomo che sta nel confessionale (e che reagisce condizionato dalla sua umanità), e non il giudizio misericordioso di Dio che ci ha spinto a celebrare con quest’uomo la sua misericordia, rischiamo di vivere come un dramma l’eventuale rifiuto dell’assoluzione. Quando invece riusciremo finalmente a scoprire che la misericordia di Dio non agisce solo durante la celebrazione del Sacramento, ma agisce anche prima (nel momento in cui sentiamo l’esigenza di celebrare questo sacramento) e dopo (quando ci accorgiamo che il desiderio di vivere in amicizia con Dio non si è affatto spento), allora saremo finalmente attrezzati per affrontare i problemi che la Chiesa, oggettivamente, ancora ha nel rendere manifesto il volto misericordioso di Dio a noi omosessuali.
Nel primo racconto della creazione, la frase: «Siate fecondi e moltiplicatevi» ricorre due volte: alla fine del quinto giorno, dopo la creazione dei pesci e degli uccelli; e alla fine del sesto giorno dopo la creazione degli animali che popolano la terra e la creazione dell’uomo. Mentre il primo invito riguarda chiaramente tutti gli esseri viventi che erano stati creati durante la giornata, il secondo invito ha una sua ambiguità: la frase che infatti Dio pronuncia nel versetto 28 non si capisce bene se riguarda solo l’uomo o riguarda invece tutti gli animali creati durante il sesto giorno.
In favore della prima ipotesi gioca il riferimento, oltre che agli uccelli del cielo e ai pesci del mare (che erano stati creati il giorno prima), anche a «ogni essere vivente che striscia sulla terra». Vero è che mancano gli animali selvatici, ma per estensione, potrebbero essere inclusi nell’insieme delle creature su cui l’uomo è chiamato ad esercitare il suo dominio.
In favore della seconda ipotesi giocano, oltre che all’assenza di qualunque riferimento alle bestie selvatiche create durante il sesto giorno, anche la struttura della narrazione che è molto simile a quella dei versetti precedenti (in cui si racconta come Dio abbia popolato i cieli e i mari) e, soprattutto, i versetti successivi in cui Dio, estendendo l’esortazione del versetto 28, pronuncia queste parole: «Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo. A tutte le bestie selvatiche, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde».
In ogni caso è chiaro che non è il fatto di essere fecondi e di moltiplicarsi l’aspetto su cui si fonda la specificità dell’uomo. Se così fosse il comando sarebbe chiaramente rivolto solo a lui. Qualunque lettura di questo capitolo tesa ad esaltare la prolificità dell’uomo e il suo realizzare, attraverso una prole numerosa, il disegno di Dio su di lui, non trova fondamento in questo capitolo. Semmai si può indovinare la grande simpatia che Dio ha per qualunque forma di vita, non solo per la vita umana (intesa nella sua accezione biologica). Non va infatti trascurato il fatto che il comando «Siate fecondi e moltiplicatevi è dato anche agli altri esseri viventi con cui Dio ha popolato i cieli e i mari».
Se proprio vogliamo trovare una specificità dell’uomo la possiamo ricavare dall’esortazione a soggiogare la terra, a esercitare il dominio «sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra». Questo invito sembra rivolto in maniera specifica all’uomo e, molto probabilmente, deriva da una sua specificità molto importante che il racconto della creazione sottolinea nel versetto 27 con le parole: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò».
In un commento a questo versetto il biblista Paolo Farinella propone queste riflessioni:
 
Mantenendo in italiano lo stesso ordine delle parole ebraiche, Gen 1,27, ha il seguente schema:
A. Creò Dio l’Adam
B. a sua immagine
B1.  a immagina di Dio
A1.  creò esso:
B2.  maschio e femmina
A2.  creò loro
Nel greco della LXX manca B1.
Il testo presenta una costruzione tipica biblica, detta a chiasmo o incrocio, dove la prima parte (A) corrisponde a una seconda parte  (A1) perché vi si trovano le stesse parole: «creò l’Adam – creò lui». A1 poi si sviluppa in A2 e il singolare lui diventa il plurale loro, per dire che l’umanità (Adam) non è solo maschile, ma anche femminile. Allo stesso modo la seconda espressione (B) che introduce il tema dell’immagine è anch’essa sviluppata in «a immagine di Dio» per arrivare poi alla penultima espressione che ne chiarisce la natura: non l’uomo in quanto maschio rappresenta Dio sulla terra, ma Adam, cioè l’umanità nella sua struttura fondamentale, fatta di mascolinità e di femminilità. Uomo e donna insieme sono l’immagine completa, la somiglianza adeguata di Dio sulla terra...
Nelle sezioni A del versetto 27 (A-A1-A2) la creazione dell’uomo è annunciata con il termine generico di Adam al singolare (A) e indica il genere umano indistinto: si potrebbe tradurre con umanità. Il testo prosegue poi con il singolare generico «lo creò» (A1) per concludersi con un plurale che riprende la distinzione sessuale: «creò loro» (A2)…
Nella sezione B-B1 l’autore introduce un’idea nuova: l’Adam in quanto genere umano è creato a immagine di Dio e questa immagine ha in se le caratteristiche complementari del maschio e della femmina (B2)… In questa prospettiva è la coppia il vero sacramento rivelatore di Dio che è Amore (1Gv 4,8). Il passaggio dal singolare al plurale nel versetto 27 è molto importante. Nella relazione sessuale l’individuo cessa di essere «singolare», perché consegna la propria individualità a una «personalità plurale»… la personalità della coppia, la personalità del «noi» che è la confluenza di «io» e di «tu».     
 
Alla luce di questa riflessione sembra davvero che, come dice lo stesso Paolo Farinella, la coppia eterosessuale sia: «l’immagine più adeguata di Dio» e l’intuizione di Bonhoeffer trova una conferma molto argomentata. Si potrebbe addirittura dire che è l’atto stesso del coito eterosessuale il momento in cui si realizza in pienezza questa immagina di Dio. Non a caso i due termini ebraici che vengono utilizzati nell’espressione «maschio e femmina li creò» sono il maschile zakàr che, tradotto alla lettera significa «colui che penetra» e il femminile neqebàh che, tradotto alla lettera, significa «colei che viene penetrata»: il riferimento all’atto sessuale non potrebbe essere più esplicito e l’esclusione di quanti non possono accedere, per vari motivi, a questo atto sessuale che permette al maschio e alla femmina l’esperienza del coito non potrebbe essere meno vivida.
Di fronte a un messaggio così esplicito noi omosessuali corriamo il rischio di sentirci menomati, perché non possiamo accedere a quelle dinamiche, proprie di una coppia maschio penetrante/femmina penetrata, così come ce le presenta il versetto 27 del primo capitolo della Genesi. E quindi non possiamo sentirci parte di quel progetto in cui questa umanità sessuata, immagine del Dio creatore, realizza concretamente l’esortazione: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra». Questo sentimento potrebbe portarci al rifiuto della nostra omosessualità: vista come un ostacolo insormontabile a questa esortazione in cui Dio ci invita a esercitare un dominio sulla sua creazione. Ma un rifiuto di questo tipo sarebbe in contraddizione con la strutturale bontà di ogni realtà creata da Dio. Come uscire allora da questa apparente contraddizione?
Un elemento che ci può aiutarci è la constatazione del fatto che non solo le persone omosessuali sono escluse da questa dinamica di coppia in cui l’atto della penetrazione diventa, per la sua potenza generativa, l’immagine più vivida della potenza creatrice di Dio. Oltre alle persone omosessuali ci sono infatti tante altre persone che non vivono in pienezza questo privilegio: basti pensare per esempio alle persone sterili. Sono per caso queste persone incapaci di testimoniare nella loro vita l’amore di Dio? La tradizione della chiesa è molto esplicita in proposito e la risposta è decisamente negativa: anche una persona che non ha la possibilità di generare dei figli attraverso l’atto sessuale può vivere in pienezza la sua vocazione cristiana.
Alla base di questa risposta c’è il messaggio che ci arriva dalla vicenda storica di Gesù che, quando è stato chiamato a esercitare il suo dominio sulla realtà, non l’ha fatto come un re che trionfa secondo i paradigmi a cui il mondo ci ha abituato, ma l’ha fatto abbracciando la croce con cui ci ha salvato. Cristo quando domina è inchiodato sulla croce e le sue braccia, nel momento in cui si allargano per essere inchiodate al legno, si aprono all’accoglienza di tutta la nostra umanità. Lui stesso, nel capitolo 12 del vangelo di Giovanni, dice: «Quando sarò innalzato, attirerò tutti a me» e l’evangelista aggiunge che: «diceva questo per indicare di quale morte doveva morire».
Ridurre la vocazione dell’uomo alla relazione di coppia che si realizza generando dei figli significa dimenticare il fatto che il momento centrale della storia dell’umanità è rappresentato da un amore diverso da quello celebrato dal versetto che stiamo commentando. Gesù, quando si fa uomo, non genera dei figli per fondare una stirpe regale che domini il mondo. Gesù quando si fa uomo predica il regno di Dio e poi, accetta di morire in croce e di fecondare l’umanità intera con il suo sangue. Non è quindi un caso che la chiesa stessa abbia indicato, nella sua storia, forme di fecondità diversa da quella biologica.
Per noi omosessuali la vera scommessa è proprio questa: cercare nelle nostre relazioni di coppia queste forme di fecondità che, aprendo la coppia al servizio, riescono a offrire un’altra immagine dell’amore fecondo di Dio. La coppia omosessuale, da questo punto di vista, ha un compito in più: perché più della coppia eterosessuale che ha dei figli, corre il rischio di credere di aver raggiunto una sua autonomia che rischia di chiuderla rispetto alle esigenze di quanti la incontrano. In questo senso si può tranquillamente affermare che c’è un’oggettiva difficoltà nel vivere delle relazioni omosessuali davvero feconde (come non ricordare qui l’intrinseco disordine che viene ribadito da alcuni documenti del magistero recente?). Ma proprio perché c’è questa oggettiva  difficoltà ci deve essere un impegno maggiore per superare questo rischio di autoreferenzialità. 
La strada non è facile e c’è sempre il rischio di perdere di vista il vero obiettivo che qualunque relazione di coppia (omosessuale o eterosessuale che sia) ha all’interno dell’economia della salvezza. L’esperienza di quanti all’interno della relazione di coppia omosessuale vivono delle forme di accoglienza e di servizio nei confronti di quelli che incontrano ci dice che non si tratta però di una strada impraticabile. Se sapremo davvero vivere con questo spirito di servizio le relazioni di coppia che riusciremo a costruire, allora diventeremo anche noi un’immagine del Dio creatore che affida all’umanità il compito di completare l’opera da lui iniziata con la creazione.
Qualche elemento per capire il tipo di servizio che Dio ci chiama a svolgere attraverso le nostre relazioni di coppia, viene dal secondo racconto della creazione, il più antico, quello che viene riportato nel secondo capitolo della Genesi.
Nel racconto Jahvista, al contrario di quello sacerdotale, il mondo non è visto come il risultato di un progressivo differenziarsi delle cose tra di loro, ma come un progetto di conservazione e di cura della natura stessa. «Quando il Signore Dio fece la terra e il cielo nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata, perché il Signore non aveva fatto piovere sulla terra e nessuno lavorava il suolo e faceva salire dalla terra l’acqua dei canali per il irrigare tutto il suolo». In questo racconto sembra quasi che la creazione dell’uomo nasca dall’esigenza di trovare qualcuno che sia capace di collaborare con lui. Lo plasma con la polvere del suolo dandogli vita soffiando il suo alito nelle narici. Gli prepara una giardino in cui fa germogliare «ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare» e lo pone in questo giardino perché «lo coltivasse e lo custodisse». Ed è a questo punto che Dio pronuncia la frase centrale di tutto il racconto, una frase che è insieme una constatazione e un comandamento, una frase che risuona nel versetto 18, quando Dio dice: «Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile».
La creazione degli animali, plasmati anch’essi dal suolo e quindi, da un certo punti di vista, fatti con la stessa pasta dell’uomo, nel racconto, sembra funzionale a questo progetto: dopo averli creati Dio li conduce all’uomo perché questi dia loro un nome, collaborando così all’attività creatrice di Dio e diventando, anche nei loro confronti, custode e padrone. E di fronte al fatto che l’uomo non trova in nessun animale un aiuto che gli sia simile, decide di creare la donna, plasmandola da una costola di Adamo.
Di fronte alla donna l’uomo finalmente dice: «Questa volta essa è carne della mia carne e osso delle mie ossa» e nel darle un nome riconosce fino in fondo questa natura comune: «La si chiamerà donna perché dall’uomo è stata tolta».
Come nel primo racconto della creazione i termini che designano il maschio e la femmina hanno come obiettivo quello di mettere in evidenza la loro strutturale differenza, così nel secondo racconto della creazione i termini di uomo e di donna sembrano scelti apposta per mettere in evidenza la loro strutturale identità: ich e ichah che l’autore utilizza in Gen 2,23, sono infatti il maschile e il femminile della stessa parola e, tradotti con maggiore fedeltà, farebbero suonare il versetto più o meno così: «La si chiamerà uomo femminile perché dall’uomo è stata tolta». Qui l’uomo e la donna non sono chiamati tanto ad essere fecondi e a moltiplicarsi, ma sono chiamati a stare insieme per superare la propria solitudine e per custodire e a coltivare insieme il giardino che Dio ha fatto germogliare per loro.
Questa particolare attenzione che il testo riserva al fatto che l’uomo è chiamato a vivere con un compagno che gli sia simile è ribadita nel versetto con cui si conclude il racconto: «Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne». In particolare, il capitolo 2 della Genesi, ci ricorda l’importanza che l’amore umano ha per aiutarci a superare il cerchio di solitudine in cui corriamo il rischio di chiuderci. Un’importanza che, al contrario di quello che succede nel capitolo 1, viene prima di qualunque affermazione dell’alterità sessuale: non è un caso infatti che il comandamento di Dio sulla solitudine dell’uomo («Non è bene che l’uomo sia solo») venga pronunciato prima della creazione della donna. Così come non è un caso che l’accento venga posto non tanto sulla differenza sessuale, quanto sul fatto che uomo e uomo femminile siano «carne della stessa carne».
Naturalmente un amore capace davvero di superare una volta per tutte la nostra solitudine non può essere confuso con l’amore romantico che scade nel sentimentalismo. In un discorso alla Sacra Rota, Giovanni Paolo II, mette in guardia contro questo rischio in maniera particolarmente efficace.
 
Il semplice sentimento è legato alla mutevolezza dell’animo umano; la sola reciproca attrazione poi, spesso derivante soprattutto da spinte irrazionali e talora aberranti non può avere stabilità ed è quindi facilmente, se non fatalmente, esposta ad estinguersi. L’amor coniugalis, pertanto, non è solo né soprattutto sentimento; è invece essenzialmente un impegno verso l’altra persona, impegno che si assume con un preciso atto di volontà. Proprio questo qualifica tale amor rendendolo coniugalis. Una volta dato ed accettato l’impegno per mezzo del consenso l’amore diviene coniugale, e mai perde questo carattere.
 
L’amore di cui parla il capitolo 2 della Genesi è un amore che è tale perché assume su di se la responsabilità del bene della persona amata, una responsabilità che lo caratterizza e che ci spinge a viverla come un impegno liberamente assunto per sempre nei suoi confronti. Un impegno che va al di là dell’estro del momento e che trasforma il nostro amore umano in qualche cosa che riesce a durare nel tempo, vincendo così la maledizione della solitudine da cui il Signore ci invita ad uscire.
Ma l’amore di cui parla il capitolo 2 della Genesi è anche un amore fecondo. Non tanto nel senso biologico che sembra prevalere nel capitolo primo, quando nel suo aiutare la persona a collaborare meglio al compito che Dio le dà, di custodire e di conservare la creazione. Da questo punto di vista l’amore che ci propone il capitolo 2 della Genesi è un amore che necessariamente si trasforma in un impegno comune per rendere migliore il mondo in cui viviamo.
Possono due persone dello stesso sesso vivere questo tipo d’amore? La risposta è senz’altro affermativa a condizione che sappiano superare il rischio di chiudersi nell’egoismo della loro relazione di coppia per vivere insieme un impegno di servizio e di testimonianza dell’amore che li ha chiamati a vivere insieme. Le forme concrete di questo servizio e di questa testimonianza potranno essere molto diverse tra di loro: al contrario della fecondità biologica, che si estrinseca sempre e comunque secondo le stesse modalità, questa forma diversa di fecondità, deve essere inventata di volta in volta per rispondere ai bisogni dell’ambiente in cui la coppia è chiamata ad operare.
Al di là della molteplicità di queste forme ci sarà sempre e comunque l’aspirazione ad operare insieme, con fedeltà, con responsabilità e con impegno, a un progetto comune che saprà dare solidità e consistenza alla relazione d’amore. Il giardino che l’uomo e la donna coltivano e curano insieme è, da questo punto di vista, l’immagine concreta di questa progettualità che da senso all’esperienza che l’uomo fa quando lascia il padre e la madre per iniziare a vivere con qualcuno che è davvero simile a lui e che, per questo motivo, può farlo uscire dalla solitudine e può aiutarlo nella realizzazione della sua vocazione cristiana.
Ecco perché questo secondo racconto della creazione ci svela in maniera sorprendente il valore che possono avere le relazioni d’amore che nascono tra persone dello stesso sesso. Relazioni che non potranno, per forza di cose, partecipare a quella fecondità biologica di cui si parla nel capitolo 1 della Genesi, ma che potranno farsi carico di quella fecondità più estesa che il capitolo 2 propone a tutti gli uomini, quando affida loro il compito di conservare e di coltivare il mondo che Dio ha costruito per loro.
Un ultimo elemento di riflessione che è emerso dopo la fine dell’incontro, quando il testo è stato mandato a quanti avevano partecipato, perché lo integrassero con le loro osservazioni, parte da Genesi 2,21, in cui, poco prima di creare la donna: «Il Signore Dio fece scendere un torpore sull'uomo, che si addormentò».
Nel racconto è molto bello il dialogo che si stabilisce tra Dio stesso, che si fa carico del problema di dare all’uomo «un aiuto che gli sia simile» e l’uomo, del cui parere Dio tiene comunque conto, accettando il fatto che in nessuno degli animali che aveva creato per popolare il giardino l’uomo trovasse quell’aiuto a lui simile che poteva risolvere la sua solitudine. In questo dialogo, a un certo punto, Dio decide di far scendere un torpore su Adamo e, per dargli la compagna di cui finalmente ha bisogno, decide di togliergli una costa dal costato, ovvero di privarlo di qualche cosa che gli aveva già donato.
Si legge infatti nel testo di Genesi: «Il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all'uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l'uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l'uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma l'uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile. Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull'uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all'uomo, una donna e la condusse all'uomo».
In queste parole c’è una risposta alle sofferenze delle tante persone omosessuali che vivono con dolore i continui fallimenti affettivi a cui vanno incontro quando cercano di trovare un compagno sia loro simile. Se invece di continuare a rovinarsi la vita decidessero finalmente di affidare al Signore il successo di questo loro progetto! Se finalmente, al posto di perdere le notti in quel tourbillon di incontri a cui spesso si riduce la vita di molti omosessuali, andassero finalmente a dormire e gli dicessero con fiducia: «Senti, io so che tu non vuoi che io sia solo. Ed è per questo che ti affido il compito di farmi incontrare qualcuno che sia capace di rompere la mia solitudine! Io cercherò di fare la mia parte, ma ti prometto di non fare l’errore, così comune, di trasformare il mio desiderio di trovare un compagno, in un idolo a cui sacrificare il mio rapporto di confidenza e di amicizia con te e con le persone che mi vogliono bene».
L’aiuto che gli è simile, l’uomo lo trova dopo che si è riuscito finalmente ad addormentare tra le braccia di Dio. Leggendo questa storia, tanti omosessuali che vivono il loro desiderio di relazione come qualche cosa di urgente, dovrebbero imparare ad addormentarsi tra le braccia di Dio, affidando a lui questo loro desiderio, con la fiducia di chi è davvero convinto di essere sempre e comunque in buone mani. Sarà Dio stesso che, nello stesso modo in cui veste i gigli del campo e con la stessa generosità con cui nutre gli uccelli del cielo, darà la giusta risposta a questo desiderio. Compito dell’uomo è quello di accettare questa risposta anche quando, in apparenza, non sembra rispondere pienamente alle sue aspirazioni. Come leggere altrimenti l’immagine con cui Dio crea la donna togliendo una costola dal costato di Adamo? Ovvero l’immagine di un Dio che, per dare all’uomo un aiuto che gli sia simile, chiede all’uomo di rinunciare a una parte di sé?
Nel concreto questa rinuncia si realizzerà in tanti modi diversi. Per qualcuno potrà anche passare dall’esperienza difficile di chi deve rinunciare a una relazione di coppia impossibile, per giocare il suo desiderio di relazione nei rapporti di amicizia o nel volontariato al servizio di chi è meno fortunato. Per qualcun altro passerà invece per un percorso di maturazione nell’amore che supera il semplice desiderio e che diventa progetto di vita comune, in una logica che obbedisce al comandamento di Dio che chiede all’uomo di «coltivare e di custodire» tutti i doni che gli ha fatto, e quindi, di «coltivare e custodire» anche la relazione speciale con la persona che gli ha messo accanto nella logica di quell’amor coniugalis di cui Giovanni Paolo II parla così chiaramente nel brano che abbiamo già citato.
Questo particolare del racconto della creazione ci rimanda a quel mistero della relazione che ha accompagnato la nascita del Guado e che così bene viene descritto dalla lotta che Giacobbe ingaggia con l’angelo sulle rive del fiume Jabbok. Ed è piacevole, dopo un lungo viaggio, ritrovarsi in uno dei luoghi da cui si era partiti!


Mercoledì 06 Gennaio,2010 Ore: 10:18
 
 
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