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ISSN 2420-997X

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www.ildialogo.org L’IMMIGRAZIONE EUROPEA NEGLI STATI UNITI,di Daniela Zini

L’IMMIGRAZIONE EUROPEA NEGLI STATI UNITI

di Daniela Zini

“Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura.
Non amano l'acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane.
Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri.
Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti.
Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci.
Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti.
Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l'elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti.
Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro.
Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti.
Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro.
I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali...
...Si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare.
Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano purché le famiglie rimangano unite e non contestano il salario.
Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell'Italia.
Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più.
La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione.”
 
da una relazione dell'Ispettorato per l'Immigrazione del Congresso americano sugli immigrati italiani negli Stati Uniti, Ottobre 1912.
http://it.peacereporter.net/articolo/16514/Quando+i+clandestini
 
 
 
La figura del clandestino si profila a cavallo tra il XIX e il XX secolo come scarto di un mondo che il nazionalismo sta per portare alla guerra.
E oggi?

I numerosi appellativi dati alla terra americana dagli immigrati venuti da tutte le parti del mondo e, in particolare, dall’Europa, nel XIX secolo e all’inizio del XX, illustrano perfettamente il riflesso onirico suscitato nell’immaginario popolare da questa nazione fuori del comune.
L’America era the Golden Medina (the Golden Country) per Golda Meir, giovane immigrata ebrea venuta dalla Russia, nel 1906. Per molti dei nuovi venuti, arrivati au tournant du siècle, era the land of promise, la terra portatrice di tutte le promesse: il giornalista Louis Adamic (1899-1951), originario della Slovenia, la chiamava così in un articolo del 1931, nel quale, nonostante la sua riuscita personale, sottolineava le faglie del sogno americano.
Dopo l’invasione di quasi 18 milioni di nuovi immigrati, tra il 1880 e il 1910, gli americani de souche erano, certo, in diritto di pensare che il loro paese stesse cambiando, ma un’interpretazione semplicistica saprebbe soddisfare oggi lo storico?
La tesi che presenta come una grande riuscita la vecchia immigrazione (prima del 1880) e come una lebbra quella dei nuovi immigrati riflette dei pregiudizi razzisti e ha, d’altronde, perduto, oggi, ogni valore scientifico. In realtà, l’America è sempre stata un banco di prova per quelli che sono approdati sulle sue rive, con le tasche vuote e senza una formazione professionale. Ma conviene ricordare che l’epoca che ci interessa fu segnata da cambiamenti profondi nell’organizzazione economica e tecnologica del paese, che si tratti di campi tanto diversi quali l’industria, la stampa o il cinema. Possibilità tecnologiche nuove offrivano ai più dotati dei nuovi immigrati possibilità di riuscita nuove. Ma la maggioranza dei nuovi venuti, in ragione delle crisi, delle recessioni e delle modificazioni costanti del contesto economico, dovettero la loro sopravvivenza a una lotta aspra e a un lavoro intenso. Certi scelsero, perfino, di tornare, infine, al paese natale.
Tuttavia, dal 1886, con l’inaugurazione della Statua della Libertà (1), posta strategicamente sulla rocciosa Liberty Island (un tempo Bedloe's Island), all’entrata del porto di New York, la nazione americana appariva il simbolo stesso del paese di accoglienza, la “porta d’oro”.
 
Not like the brazen giant of Greek fame
With conquering limbs astride from land to land;
Here at our sea-washed, sunset gates shall stand
A mighty woman with a torch, whose flame
Is the imprisoned lightning, and her name
Mother of Exiles. From her beacon-hand
Glows world-wide welcome; her mild eyes command
The air-bridged harbor that twin cities frame,
"Keep, ancient lands, your storied pomp!" cries she
With silent lips. "Give me your tired, your poor,
Your huddled masses yearning to breathe free,
The wretched refuse of your teeming shore,
Send these, the homeless, tempest-tossed to me,
I lift my lamp beside the golden door!"
 
recitano i versi del sonetto The New Colossus di Emma Lazarus (2), scolpiti, nel 1903, su una placca di bronzo, montata sul muro interno del piedistallo della statua, che esaltano il potere quasi magico di cui l’America sembrava misteriosamente ammantata: liberare le masse oppresse venute da tutti i paesi del mondo.
Le restrizioni all’immigrazione, coronate con il Literacy Test Bill (3) del 1917 e la legge sulle quote del 1924 avrebbero, tuttavia, considerevolmente indurito i tratti di quella che Emma Lazarus designava nel suo poema con il tenero nome di Madre degli Esuli.
In questo articolo esamineremo l’endroit e l’envers del sogno americano.
Va detto che i diversi paesi europei che hanno visto, tra il 1980 e il 1910, partire i più validi dei loro verso il Nuovo Continente, attraversavano mutamenti e, talvolta, come la Grecia, crisi gravi. Che si trattasse dei 20 milioni di servi liberati dallo zar Alessandro II, nel 1858 – trascinati in un movimento migratorio europeo, poi, transatlantico – o delle varie etnie che componevano l’impero austro-ungarico, i candidati alla partenza erano il più sovente sprofondati nell’indigenza e la sola prospettiva di un cambiamento radicale nel loro modo di vita poteva lanciarli in una simile avventura.
L’Austria-Ungheria, la Russia, la Penisola Balcanica, l’Italia sarebbero divenute dei pourvoyeurs di questa manodopera a buon mercato e, in genere, docile di cui l’America aveva tanto bisogno. Nondimeno, The Diary of a Shirtwaist Striker di Theresa Malkiel mostra che i nuovi immigrati – comprese le donne – partecipassero alle lotte sindacali, nonostante le grandi federazioni sindacali non sempre tendessero loro una mano soccorritrice. Una strana alleanza nativista avvicinò, infatti, i Boston Brahmins, come il senatore Henry Cabot Lodge e il presidente dell’American Federation of Labor, Samuel Gompers. L’America, au tournant du siècle, conobbe aspre lotte operaie e tutti i nuovi immigrati non furono dei jaunes (3) anche se questa piège de trahison de classe fu loro regolarmente tesa. Il timore di un’ondata anarchica che si abbattesse sulle rive dell’America, che doveva trovare il suo punto culminante con il caso Sacco e Vanzetti, negli anni 1920, aveva per catalizzatore, oltre a una incalzante xenofobia, una situazione di crisi economica ricorrente, le cui prime manifestazioni gravi datavano dall’inizio di quel decennio.
Il rapporto di forze tra quello che i sociologi dell’immigrazione chiamano il potere di attrazione (PULL) del paese di accoglienza e di propulsione (PUSH) del paese di origine è un altro fenomeno che metteremo in luce. Partire è essenzialmente una démarche psicologica, anche se associata a considerazioni economiche, politiche o sociologiche. Donde la complessità del problema dei ritorni, spesso occultato in numerosi scritti che trattano dell’immigrazione per il periodo in questione. Ciò che è chiaro è che il movimento migratorio non fu a senso unico. Naturalmente il numero dei ritorni è difficile da contabilizzare con certezza ma si tratta, in ogni caso, di cifre considerevoli. Inoltre i ritorni sono, talvolta, legati alla riuscita e si iscrivono allora in un progetto di ritorno al paese, una volta fatta fortuna. Ma vi sono i ritorni dovuti al fallimento, e il loro numero è lungi dall’essere trascurabile.
Ogni ondata migratoria si è inserita laddove un determinato gruppo etnico aveva già stabilito una testa di ponte. L’immigrazione dell’epoca è andata essenzialmente verso le città industriali, New York, Chicago, Pittsburgh, Detroit, dove si erano costituiti importanti agglomerati etnici, che avevano accelerato considerevolmente la crescita demografica di quei centri urbani. New York, a esempio, che nel 1897, contava il 76% di stranieri, costituisce l’esempio tipico ripreso da romanzieri, cineasti e giornalisti che hanno focalizzato la loro attenzione su questo problema. Il X distretto di Manhattan, dove si accalcavano, nel 1910, più di mezzo milione di abitanti offre un modello – o piuttosto un anti-modello di urbanizzazione. Si immagina agevolmente, grazie alle foto di Jacob Riis (1849-1914), quali potessero essere la miseria e lo sfruttamento dei nuovi immigrati nel quartiere ebraico di Hester Street o nei quartieri vicini dove italiani, slavi, austro-ungarici e altri europei usciti dall’est o dal sud dell’Europa erano rinchiusi, come mandrie, nelle peggiori condizioni di igiene. E, tuttavia, queste colonie di popolamento si organizzarono e si inserirono, per la maggior parte, in uno schema generale di integrazione e di americanizzazione che, dopo la prima generazione, iniziò a dare all’America i contorni e l’allure di una terra promessa. Numerose sono le autobiografie di immigrati che sono dei success stories.
A Henry James che provò, nel 1907, il sentimento di essere spossessato della sua America, alla vista di quei visi bruciati dal sole e di quelle barbe irsute, che scopriva dopo un lungo e volontario esilio in Inghilterra, come a molti altri americani, questi immigrati non andavano proprio giù. Erano numerosi e troppo vistosi. La sua aristocratica insofferenza coinvolgeva tutti i derelitti che l’Europa, in quegli anni, continuava implacabilmente a vomitare sulle spiagge del Nuovo Mondo. Ma i germi di un nuovo pluralismo erano nondimeno seminati, poiché i nuovi immigrati, infine, salutati da John Fitzgerald Kennedy nel suo libro, A nation of immigrants (1964), e dal suo successore, Lyndon Johnson, che, nel 1965, cancellò con un tratto di penna il segno di infamia legato al concetto di national origins, sono, allo stesso titolo dei loro predecessori e, forse, con più merito, i fondatori dell’America.
 
 
 
 
Note:
(1)   Questa figura iconica dalla serenità classica un po’ lourde, simbolo saggio e, anche, austero di una certa idea del progresso. è opera dello scultore francese Frédéric-Auguste Bartholdi (conosciuto anche con lo pseudonimo Amilcar Hasenfratz), mentre la struttura metallica è opera di Gustave Eiffel, il creatore dell’omonima torre di Parigi. La statua raffigura una donna che porta una lunga toga e una corona – le cui sette punte rappresentano i sette mari e i sette continenti – e sorregge, fieramente, in una mano una fiaccola (simbolo del fuoco eterno della libertà), mentre nell'altra stringe un libro recante la data del 4 luglio 1776 (giorno dell’Indipendenza americana). Ai piedi vi sono delle catene spezzate, simbolo della liberazione dal potere del sovrano dispotico. La statua venne donata dalla Francia agli americani per il festeggiamento del centenario dell'Indipendenza dall'Impero britannico (1776), ma a causa del protrarsi dei lavori fu completata solo nel 1884 e inaugurata il 28 ottobre 1886, dieci anni dopo la ricorrenza.
(2) Nel 1883, Emma Lazarus (1849-1887), discepola di Ralph Waldo Emerson, ammiratrice di Heine e amica del disegnatore e socialista inglese William Morris, entrava nell’eternità della letteratura per una singolare porta. Nel sonetto intitolato The New Colossus, la poetessa ebreo-nordamericana esaltava la generosità senza limiti con la quale la giovane repubblica apriva le proprie braccia ai migranti del mondo.
(3) Per controllare i milioni di immigrati in cerca di una vita migliore il governo degli Stati Uniti promulgò infinite leggi, che, colpirono, soprattutto, l’emigrazione più debole, in altre parole quella poco specializzata dell’Europa meridionale, tra il 1880 e il 1920. La lista delle leggi restrittive sull’immigrazione è considerevole.
Nel 1875, la Corte Suprema degli Stati Uniti dichiarò l’immigrazione di competenza federale e non statale.
Nel 1885, la legislazione limitò il lavoro a contratto. Questa procedura che rifletteva la preoccupazione storica dei sindacati di mestiere, fu uno degli incubi dei nostri immigrati al momento dell’arrivo in America.
Nel 1896, Henry Cabot Lodge propose una legge che richiedeva agli immigrati di leggere almeno quaranta parole, ma ebbe il veto del presidente Grover Cleveland.
Il 6 agosto 1901, il presidente McKinley veniva assassinato dall’anarchico polacco Leon Czogolsz; la risposta fu l’Anarchist Act del 1903, che stabiliva l’espulsione, mentre la Corte Suprema decretava l’inapplicabilità agli stranieri del Primo Emendamento.
Dal 1907 la Commissione Dillingham studiò la distribuzione dell’emigrazione americana e, per la prima volta, si ebbe un quadro generale. Tuttavia, il presidente Taft impedì una legge con l’obbligo del test di alfabetizzazione e la medesima cosa fece il presidente Wilson, nel 1915, ma nonostante il suo veto, il famigerato Literacy Test Bill passò, nel 1917. Il testo della legge aumentò la tassa d’ingresso, portandola a 8 dollari, ed escluse una serie di persone con le più svariate deficienze fisiche ma anche i poligami e “ gli anarchici o le persone che credevano o pensavano di abbattere con la forza e la violenza il governo degli Stati Uniti d’America”. L’effetto più controverso della legge riguardava la proposta di “ escludere tutti gli stranieri al di sopra dei 16 anni, fisicamente in grado di leggere, che non fossero capaci di leggere in inglese, o in qualche altra lingua o dialetto, tra cui l’ebraico e lo yiddish”.
Dopo il 1917 il test linguistico consisteva nella lettura di un passaggio della Bibbia che gli emigranti dovevano leggere a voce alta. La bocciatura poteva condurre alla deportazione.
Nel 1919, iniziarono i Palmer raids contro i rossi e le deportazioni verso la Russia e anche verso l’Italia.
Ma è nel 1921 che gli Stati Uniti danno un colpo all'acceleratore approvando, con un Quota Act, l'ingresso sul proprio territorio solo di una quota pari al 3% dei connazionali residenti in America al censimento del 1910. Il governo americano era piuttosto preoccupato: il saldo netto degli arrivi, alla fine del 1920, aveva, infatti, toccato una media di 52.000 immigrati al mese e, nel febbraio del 1921, la confusione nel porto di New York era stata tale da indurre le autorità a dirottare su Boston le navi cariche di emigranti.
Nel 1924, un nuovo Quota Act, la Johnson-Reed Law, riduceva la quota di ingresso al 2% dei connazionali residenti negli Stati Uniti al censimento del 1890, comportando una fortissima penalizzazione per i paesi, come l'Italia, di giovane emigrazione. In definitiva, la quota annuale per l'Italia veniva ridotta a 3.845 unità.
L'emigrazione italiana fu costretta a dirigersi verso altri paesi: la Francia e le altre nazioni europee, la Repubblica Argentina, il Brasile e gli altri Stati dell'America Latina, l'Australia e l'Africa.
Nel 1929, intervenne l'ennesimo provvedimento legislativo restrittivo americano che riduceva a 153.000 il tetto massimo di immigrazione annua complessiva (5.802 per l'Italia), adottando come base il censimento del 1920.
(4) Operai non scioperanti
 
  
CRONOLOGIA DELL’IMMIGRAZIONE
 
ANNI                NUMERO DEGLI IMMIGRATI      PERCENTUALE
1881-1885            2.975.683                                         13,40%
1886-1890            2.270.930                                         10,25%
1891-1895            2.123.879                                         9,56%
1896-1900            1.563.685                                          7,04%
1901-1905             3.833.076                                         17,27%
1906-1910             4.962.310                                          22,36%
1911-1915             4.459.831                                         20,09%
 
 
ORIGINE GEOGRAFICA DEGLI IMMIGRATI
(1881-1915)
 
ORIGINE               NUMERO DEGLI IMMIGRATI        PERCENTUALE
Gran Bretagna                 1.871.652                                        8,43%
Irlanda                               1.503.803                                        6,77%
Scandinavia                      1.682.710                                       7,58%
Europa N.O.                      611.973                                           2,75%
Germania                          2.439.331                                       10,99%
Europa Centrale               4.129.951                                       18,61%
Russia ed Europa E.       3.483.603                                       15,69%
Italia                                     3.954.066                                       17,81%
 
 
RIPARTIZIONE PER SESSO
NUMERO E PROPORZIONI DI UOMINI
 
ANNI              NUMERO DEGLI IMMIGRATI      PERCENTUALE  
1881-1885          1.808.297                                         60,77%
1886-1890          1.397.614                                         61,54%
1891-1895          1.397.614                                         61,89%
1896-1900           982.773                                            62,82%
1901-1905           2.714.584                                         70,80%
1906-1910           3.457.358                                         68,66%
1911-1915           2.893.900                                         64,88%
 
 
Daniela Zini
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Venerdì 04 Settembre,2009 Ore: 15:08
 
 
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