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www.ildialogo.org I NOSTRI EMIGRANTI NEL NUOVO MONDO,di Daniela Zini

I NOSTRI EMIGRANTI NEL NUOVO MONDO

di Daniela Zini

I GHETTI ITALIANI D’AMERICA


I meridionali, i lombardi, i veneti, i piemontesi, avi di coloro che, oggi, formano negli Usa una colonia di oltre 12 milioni di persone, venivano avviati in squallidi abituri periferici, ove costituivano delle isole e ove continuavano a vivere nella condizione di “dagos”, termine spregiativo con cui gli americani chiamavano gli immigrati di origine latina.
 
Con l’unità d’Italia il Mezzogiorno fa un inaspettato, ulteriore passo indietro verso il silenzio e l’immobilismo sociale. Dopo il 1880, la depressione agricola blocca il Mezzogiorno proprio nel momento in cui il nord industriale inizia la sua rapida ascesa grazie anche alla protezione delle tariffe doganali. Il prezzo del grano, sceso a 22 lire al quintale, nel 1888, precipita a 13, 5, nel 1894. L’allora Ministro del Tesoro Sidney Sonnino sceglie proprio quel momento per aumentare il dazio sul grano e portare il prezzo del sale da 35 a 40 centesimi il chilogrammo. Nel sud, prevalentemente agricolo, ciò va a detrimento sia dei proprietari sia dei contadini, e per questi la terra nativa diventa ancora più inospitale. Nei paesi del sole a picco e delle donne in nero, per i poveri la vita si fa impossibile; per sopravvivere molti scelgono la strada dell’emigrazione in America.
E mare, mare, mare.
In condizioni quasi sempre bestiali i nostri vengono avviati verso il nuovo mondo, stipati su navi antiquate, senza acqua, senza conforti.
Racconta Edmondo De Amicis (1):
 
“E il caldo cocente non era il peggio: era un puzzo d’aria fracida e ammorbata, che dalla boccaporta spalancata dei dormitori maschili ci saliva su a zaffate fin sul cassero, un lezzume da metter pietà a considerare che veniva da creature umane, e da far spavento a pensare che cosa sarebbe seguito se fosse scoppiata a bordo una malattia contagiosa. Eppure, ci dicevano, non v’eran più passeggeri di quanti la legge consente che s’imbarchino in relazione con lo spazio. Eh! Che m’importa, se no si respira! Ha torto la legge. Essa permette che si occupi sui piroscafi italiani uno spazio maggiore quasi d’un terzo di quello che è concesso sui piroscafi inglesi e americani; e non è là a vedere se i tutto bene trovato dalla polizia alla partenza, sia mantenuto poi durante il viaggio; a impedire, per esempio, che s’imbarchino in altri porti più passeggeri di quello che rimanga di posti, e che si caccino viaggiatori sani nello spazio riservato agli infermieri, e che s’improvvisino dei dormitori alla bella diana. Quanto rimane da fare ancora dentro a questi bei piroscafi che il giorno della partenza si vedono luccicare come palazzi di principi! Sulla maggior parte, i marinai e fuochisti ci stanno come cani, l’infermeria è un bugigattolo, i luoghi che dovrebbero essere più puliti fanno orrore e per mille e cinquecento viaggiatori di terza classe, non c’è un bagno. E dican quello che vogliono gli igienisti che han fissato il numero necessario dei metri cubi d’aria: la carne umana è troppo ammassata, e che una volta si facesse peggio, non scusa: oggi ancora è una cosa che fa compassione e muove a sdegno.”  
 
È un brano tratto da Sull’Oceano, che, in un primo tempo, De Amicis intitola I nostri contadini in America. Dalle annotazioni di De Amicis, in margine al manoscritto, sappiamo che il Nord America imbarcò per Buenos Aires 1600 passeggeri in terza classe, 20 in seconda e 50 in prima, oltre ai 200 uomini dell’equipaggio.
Analoghe erano le condizioni di viaggio dei contadini del sud, del Piemonte, della Lombardia, del Veneto e dell’Italia Centrale diretti in America – avi di coloro che, oggi, formano una colonia di oltre 12 milioni di americani di origine italiana (2) –.  
Per migliaia e migliaia di loro quella traversata resterà nella memoria come il ricordo dell’inferno.
Riascoltiamo De Amicis:
 
“Man mano che s’alzava la colonna termometrica, crescevano per il Commissario le occupazioni e i fastidi; principalissimo dei quali era il dormitorio delle donne, in cui doveva scendere molto sovente, di giorno e di notte, per ristabilire il buon ordine o vegliare alla pulizia. Anche a tener conto del da fare, sarebbe bastato quello spettacolo obbligatorio a disamorare dell’ufficio qualunque galantuomo. S’immaginino due piani sotto coperta, come due vastissimi mezzanini, rischiarati da una luce di cantina, e in ciascuno di essi tre ordini di cuccette posti l’un sull’altro, tutto intorno alle pareti e nel mezzo, e lì circa a quattrocento tra donne e bambini poppanti e spoppati, e trentadue gradi di calore. Qui, nella cuccetta più bassa, dormiva una donna incinta con un bimbo di due anni, sopra di lei una vecchia settantenne, sopra di questa una giovinetta sul primo fiore; là s’allungava una cafona calabrese accanto a una signora caduta nell’indigenza; più oltre un’avventuriera di città, che si dava il belletto al buio, a fianco di una contadina timorata di Dio, che dormiva con la corona del rosario tra le mani.”
 
Artisti, studenti, contadini analfabeti venuti dall’Europa portano un bagaglio di tradizioni culturali: folklore, oggetti, religioni, cibi e vivande, modo di concepire la famiglia e la comunità. Gran parte di questo patrimonio scompare nel processo di americanizzazione, ma una dose notevole entra a far parte della vita americana.
Gli ultimi arrivati, gli emigranti italiani, si trovano di fronte a una società sovente ostile e vengono avviati rudemente dai poliziotti di New York agli squallidi abituri periferici. Molti di quei poliziotti sono irlandesi, giunti con la precedente ondata migratoria, il cui privilegio sarà, rapidamente, contrastato da un’altra mafia, la latina.
Una civiltà erompe, turbinando tra i primi grattacieli: la metropoli si avvia verso i 4 milioni di popolazione  e la molteplicità di una vita, che ha già assunto un ritmo troppo crudele e frenetico, atterrisce gli immigrati. La civiltà capitalistica, anche nel momento del suo massimo rigoglio e splendore, è basata su uno squilibrio, su una contraddizione intima. Lo apprenderanno presto, a proprie spese, i nostri muratori, sconosciuti costruttori di grattacieli, i cui figli decideranno di lasciare gli italian ghettos, dove un italiano resta un “dago”: e qualcuno ci riuscirà, piantando in asso la bancarella di frutta e verdura del padre per mettersi in banda con altri oriundi.
La città, già sterminata, attira e sgomenta. Fiorisce un nuovo linguaggio, nascono nuovi giornali, nuovi scrittori popolari che ricorrono allo slang e riferiscono i fatti del giorno degli umili 4 milioni di piccola gente newyorkese. New York vanta, nel 1900, quindici quotidiani; si pensi che oggi ne restano soltanto tre: il New York Times e il Daily News, quotidiani del mattino a diffusione nazionale, e il New York Post a diffusione locale (3). Questo per dire della immensa forza propulsiva che agita l’America degli inizi del secolo scorso. L’intraprendenza e la genialità trovano sovente un campo di sfruttamento. Gli edifici commerciali sorgono come severe torri d’acciaio, cemento e pietra arenaria. Le generazioni precedenti hanno lasciato come ricordo l’ufficio postale con le sue soffitte sormontate da tetti di legno, le vecchie e goffe case dai minareti in mattoni rossi, le fabbriche dalle finestre meschine e fuligginose, i casotti di legno color fango. La città è piena di queste misere costruzioni, ma le belle torri già le respingono dal centro degli affari e sulle colline circostanti sorgono le lussuose dimore dei nuovi ricchi.
Niente è mutato dal tempo delle carovane dirette all’ovest: ogni anno si fondano nuove città, e sempre con lo stesso procedimento. Centinaia di case tutte uguali, ammassate e con qualcosa di provvisorio, di nomade. Poche città concentrano la gigantesca produzione industriale: Detroit, a esempio, dove, nel 1903, Henry Ford impianta la sua dinastia automobilistica, nel 1905, conta 300.000 abitanti e giunge a un milione alla fine della seconda guerra mondiale.
Si operano continui mutamenti: si acquista un immobile per demolirlo e costruirne uno più grande sullo stesso terreno; dopo cinque anni lo si rivende a un imprenditore, che rade al suolo il secondo edificio per tirarne su un terzo.
A San Francisco il terremoto e l’incendio distruggono tre quarti della città che serba un aspetto asiatico. Siamo alle soglie della prima guerra mondiale: San Francisco viene ricostruita e rapidamente americanizzata.
Regole e dogmi collettivistici, retorica pionieristica, fanatismo puritano e spregiudicatezza negli affari: nell’America dei primi decenni del Novecento le contraddizioni danno luogo a una società concentrata e frenetica, ricca e miserabile. Manodopera non specializzata, la nostra emigrazione ha lasciato le sue testimonianze letterarie per mano di muratori o ex-muratori.
Cristo fra i muratori, di Pietro di Donato, è una storia autobiografica. Di Donato ha solo dodici anni quando suo padre, operaio mattonaio, è sepolto vivo e ucciso in un crollo dell’edificio dove lavora. È il venerdì santo del 1923 (4).
Settant’anni fa, presentando Cristo fra i muratori dalle colonne del Corriere della Sera, Emilio Cecchi scriveva:
 
“Esatta e impressionante è la requisitoria sulle angherie che i nostri patiscono laggiù dagli imprenditori assassini, dai sindacati camorristi, dalle compagnie di assicurazione che fanno l’interesse dei capitalisti. Cose che non saranno mai troppo ripetute, a scorno della ipocrisia ed ingordigia puritana.”
 
“Senza nome nella folla dei senza nome”,
 
si definisce, nell’autobiografia di venti pagine, che redige nella prigione di Charleston, Bartolomeo Vanzetti (5), il quale ha a dire rivolgendosi per l'ultima volta al giudice Thayer:
 
“Io non augurerei a un cane o a un serpente, alla più bassa e disgraziata creatura della Terra — io non augurerei a nessuna di queste ciò che io ho dovuto soffrire per cose di cui io non sono colpevole. Ma la mia convinzione è che ho sofferto per cose di cui io sono colpevole. Io sto soffrendo perché io sono un radicale, e davvero io sono un radicale; io ho sofferto perché ero un Italiano, e davvero io sono un Italiano…”
Discorso di Bartolomeo Vanzetti del 19 aprile 1927, a Dedham, Massachussetts
 
(1) L’11 marzo 1884, alle 2 antelucane, Edmondo De Amicis si imbarcò a Genova sul piroscafo Nord America, per raggiungere l’Argentina. Da alcune carte deamicisiane la partenza risulterebbe avvenuta il 13, mentre gli archivi della Società di navigazione registrano il 10 marzo (E. De Amicis, Sull’Oceano, cit., pag. 277, nota 15). Questa ultima data è corretta e confermata del resto dalla lettera al fratello del giorno stesso (L. 31: “l’imbarco è alle ore 2”) anche se il vapore è, poi, salpato l’indomani alle due di mattina. Come risulta da varie lettere, in un primo tempo, la partenza del Nord america, poi posticipata di una settimana, era prevista per il 3 marzo.
Le opere Sull’Oceano (1889) e In America (1897) sono legate al suo viaggio in Sud America, un viaggio che gli fornirà spunti e materiali per realizzare quella che è stata definita “la più straordinaria short novel ottocentesca sull’emigrazione”, vale a dire Dagli Appennini alle Ande. Nel racconto Nella baia di Rio de Janeiro un contadino lombardo emigrato e malato chiede disperatamente di imbarcarsi sulla stessa nave che sta riportando lo scrittore in Italia dall’Argentina: questi avverte la morte vicina e chiede, prima, accoratamente e, poi, con disperazione e rabbia di poter andare a morire in patria.
L’emigrazione non era ben vista dai grandi latifondisti, perché portava via braccia sfruttate e sottopagate. Basti pensare che, nel 1884, gli espatri transoceanici erano stati 60.000, mentre, nel 1888, anno in cui fu varata una prima legge che tentava di regolamentare l’emigrazione, erano partite 207.000 persone.
(2) In base a una recente rielaborazione dei dati del censimento del 1980 gli italo-americani risultano 12.195.798, cioè il sesto gruppo etnico per importanza negli Stati Uniti (il 5,4% della popolazione statunitense: praticamente una persona ogni venti americani). Secondo i dati ufficiali, la più elevata concentrazione di Americani di origine italiana si trova nello Stato di New York (2.900.000), seguita dalla California, dal New Jersey (1.500.000 ciascuno) e dalla Pennsylvania (1.400.000). Consistenti comunità italo-americane si trovano anche nel Massachusetts (845.000), nella Florida (800.000), nell’Illinois (730.000), nel Connecticut (650.000) e nell’Ohio (640.000).
(3) Sono tre i principali quotidiani di New York: il New York Times e il Daily News, quotidiani del mattino a diffusione nazionale, e il New York Post a diffusione locale. Vi sono poi altri quotidiani a diffusione nazionale: USA Today e Wall Street Journal,ovvero la "bibbia" per chi lavora nel campo dei mercati economici e finanziari. Altre testate sono: Financial Times (economico), New York Newsday, The New York Observer (economico).
(4) In quello stesso periodo, molti ex-immigrati si arricchiscono, invece, con il contrabbando di alcol. Vi è chi organizza piccole flotte di motobarche che trasportano centinaia di bottiglie di whisky e gin dal Canada agli Stati Uniti. Un altro oriundo italiano, Alfonso Capone, detto “Scarface”, lo Sfregiato, da galoppino di una casa chiusa diviene il re dei fuorilegge di Chicago. Politicanti corrotti, avvocati troppo spregiudicati, poliziotti avidi costituiscono la ragnatela invisibile ma onnipotente delle sue alleanze. Il fatturato dell’impero del crimine della sola Chicago raggiunge i 10 milioni di dollari e, quando la stella di Scarface splenderà più luminosa, verso la metà degli anni 1920, supererà i 300 milioni.
(5) Il 5 maggio 1920, in piena crisi identitaria e xenofoba, due uomini, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, sono accusati dell’omicidio di un contabile e di una guardia del calzaturificio Slater and Morrill. Sono immigrati, italiani e anarchici. Quanto basta. E a nulla vale la confessione del detenuto portoricano Celestino Madeiros, che li scagiona. Giudicati colpevoli, saranno giustiziati sulla sedia elettrica, il 23 agosto 1927. Nel 1977, Michael Dukakis, governatore dello Stato del Massachussets, riconoscerà ufficialmente gli errori commessi nel processo e riabiliterà completamente la memoria di Sacco e Vanzetti.
 
Daniela Zini
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Sabato 15 Agosto,2009 Ore: 20:44
 
 
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