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www.ildialogo.org STEFANO ZAMAGNI, ENRICO RIVA, E PIERANGELO SEQUERI RIAPRONO IL DISCORSO SULLA RECIPROCITA' E LA FRATERNITA', SUL DONO DISINTERESSATO, E SUL SACRIFICAR-SI. Un'intervista di Marco Girardo e una recensione di Luca Miele,a cura di Federico La Sala

PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA E DELLA TEOLOGIA ATEO-DEVOTA (Benedetto XVI, "Deus caritas est"). Al di là della semantica e del paradigma del "business is business" e del caro-prezzo ("caritas")
STEFANO ZAMAGNI, ENRICO RIVA, E PIERANGELO SEQUERI RIAPRONO IL DISCORSO SULLA RECIPROCITA' E LA FRATERNITA', SUL DONO DISINTERESSATO, E SUL SACRIFICAR-SI. Un'intervista di Marco Girardo e una recensione di Luca Miele

Pierangelo Sequeri e Franco Riva smontano l’idea del capro espiatorio come fondamento delle società umane: in realtà, l’ospitalità verso l’altro e la donazione di sé - come in Cristo - negano la «violenza» del sacrificio antico


a cura di Federico La Sala

INTERVISTA.

  Per l’economista Stefano Zamagni «va recuperata l’idea di ’economia civile’: abbiamo visto che quella ’politica’ non basta»

   Fraternità, il principio dimenticato

   «Un concetto elaborato in Italia già nel ’700 dall’abate Genovesi, poi abbandonato a favore delle tesi di Adam Smith Ma i suoi cardini - efficienza ed equità - non bastano, se non c’è l’apporto della reciprocità»

di MARCO GIRARDO (Avvenire, 03.10.2009)

Quando «è grande la confu­sione sotto il cielo», mette­re in fila i concetti e trovare un ordine alle parole non è uno sterile esercizio intellettuale, un divertissement fine a sé stesso. E sui cieli dell’economia, nell’ultimo anno, si è abbattuta la tempesta perfetta: tracollo della finanza e re­cessione globale nello spazio di dodici mesi. Mentre il mondo sta ancora contando i danni, le grandi potenze (G20) prova­no a rimodellare la fisio­nomia del ’turbo-capi­talismo’ drogato di fi­nanza: più trasparen­za, regole condivise e maggiore attenzio­ne a una crescita sostenibile. Un tentativo di cam­biare il paradig­ma dell’econo­mia a cui Luigi­no Bruni e Ste­fano Zamagni - economista del­l’Università Mi­lano-Bicocca il primo, ordinario di Economia po­litica a Bologna il secondo - offro­no un contributo ’squisitamente’ i­taliano con il primo Dizionario di econo­mia civile (Città Nuo­va, euro 65). Ripercor­rendo in ordine alfabe­tico - dall’’a’ di ’ accoun­tability’ alla ’z’ di ’Zappa Gino’, riorganizzatore della dottrina contabile - un percorso teoretico che inizia a interessare le università americane.

Professor Zamagni, perché si trat­ta di un contributo ’squisitamen­te italiano’?

«Perché l’’economia civile’ è nata in casa nostra, è un’invenzione ita­liana. Il termine appare per la pri­ma volta nel 1754, quando all’Uni­versità Federico II di Napoli Barto­lomeo Intieri affida all’abate Anto­nio Genovesi, allievo di Giambatti­sta Vico, la prima cattedra di Eco­nomia della storia. Una cattedra intitolata ’di Meccanica e di com­mercio’ per la quale Genovesi im­partiva Lezioni di economia civile, il titolo di un’opera che pubbli­cherà nel 1765».

Sfogliando i manuali di storia eco­nomica, italiani o stranieri, quel­l’appellativo ’civile’ non si trova facilmente...

«Perché l’espressione ’economia civile’, alla fine del Settecento, è repentinamente scomparsa. Sop­piantata dall’’economia politica’ di Adam Smith. La sua opera più famosa, La ricchezza delle nazioni, del 1776, rappresenta non solo la svolta semantica ma anche il cambio di paradigma».

Che differenza c’è fra l’economia politica, il paradigma ancora oggi ’dominante’, e l’economia civile?

«L’economia politica si fonda su due capisaldi: il p rincipio dello scambio di equivalenti, da cui de­riva l’efficienza, e il principio di re­distribuzione, per garantire l’e­quità. L’economia civile, a questi, aggiunge un terzo principio, quello che fa la differenza: la reciprocità. Serve a realizzare la fraternità. L’e­conomia civile include quindi quella politica ma non viceversa. E il pensiero economico italiano - per fare un nome: Luigi Einaudi - ha sempre mantenuto quest’impo­stazione a differenza della tradizio­ne anglosassone guidata dal motto ’business is business’».

La dottrina sociale della Chiesa ri­prende però proprio questa ’tra­dizione italiana’.

«Esattamente. Non è contro il capi­talismo o il mercato, come troppe volte erroneamente si sente dire. E non sceglie nemmeno il collettivi­smo. È piuttosto per il principio di fraternità teorizzato dall’economia civile e grazie al quale quest’ultima ’supera’ l’economia politica. Nel senso che la integra e non certo che vi si oppone. La stessa Caritas in veritate - dove la parola capitali­smo non compare - s’inserisce in questo alveo e, recuperando il con­cetto di economia civile, si presen­ta come rivoluzionaria nello scena­rio dell’attuale crisi economico-fi­nanziaria, proprio nel momento in cui si è iniziato a ridiscutere i fon­damenti stessi del capitalismo».

Pensa che a Wall Street o ad Har­vard o alla London School of Eco­nomics qualcuno sia disposto a ri­mettere in discussione l’impianto concettuale della teoria economi­ca?

«Circola in questi giorni fra gli eco­nomisti una raccolta di firme pro­mossa il 3 settembre sul New York Times dal Nobel Paul Krugman. Il quale sostiene: una delle colpe del­la crisi attuale è proprio il paradig­ma dominante negli studi econo­mici. Hanno firmato finora 1.550 economisti di tutto il mondo. Cosa significa? Che finalmente ci si in­terroga sui limiti del modello che ci governa dai tempi di Adam Smith».

E quali sono questi limiti?

«Il primo è stato quello di separare il principio di reciprocità dagli altri due. Il secondo l’aver prodotto un modello di welfare ormai inso­stenibile, perché applica la redistribuzione in manie­ra anonima, facendo sentire la gente ’di­pendente’, ’assisti­ta’, e non applica in­vece la reciprocità che è sempre ’per­sonale’. Infine perché dai tempi di Adam Smith mercato e democrazia sono separati. Oggi sappiamo che questo modello non funziona: l’economia civi­le funziona solo se inserita in un contesto demo­cratico. La demo­crazia, cioè, non può essere decli­nata solo in politi­ca ma anche in eco­nomia. E questo con­sente di dar sfogo alle forze creatrici della so­cietà civile come lo sono ad esempio il non profit e il mondo cooperativo. Sto lavo­rando alla ’teoria dell’impresa cooperativa’ proprio per dare a questo mondo la stessa dignità dell’impresa di capitale».

Quando ha recuperato il concetto di economia civile? «All’inizio degli anni Novanta, tro­vando per caso il libro di Genove­si ».

Tracciamo l’albero genealogico dell’economia civile.

«L’abate Genovesi, Giacinto Drago­netti, Ferdinando Galliani, Pietro Verri, Giandomenico Romagnosi e Cesare Beccaria per quel che ri­guarda le origini. In tempi più re­centi Luigi Einaudi e la dottrina so­ciale della Chiesa».

E i padrini filosofici?

«Agostino, anzitutto. I francescani, poi, con Bonaventura da Bagnore­gio. La seconda Scolastica, soprattutto la Scuola di Salamanca. E poi Vico, maestro di Genovesi, il primo ad aver utilizzato la metafora della ’mano invisibile’ per descrivere il mercato con cui sarebbe diventato famoso Adam Smith. Il personali­smo, infine, con Mounier e Mari­tain ».


idee

E il sacro mise al mondo la comunità

Pierangelo Sequeri e Franco Riva smontano l’idea del capro espiatorio come fondamento delle società umane: in realtà, l’ospitalità verso l’altro e la donazione di sé - come in Cristo - negano la «violenza» del sacrificio antico

diLUCA MIELE (Avvenire, 03.10.2009)

All’inizio del moder­no, Thomas Hobbes individua nella pau­ra il fondamento della co­munità: è la comune “uccidibilità” - tutti sono poten­zialmente esposti alla violenza - a spingere gli uomini ad unirsi. Non a caso uno dei più fini interpreti del pensie­ro di Hobbes, Roberto Espo­sito, ha parlato a proposito del modello hobbesiano di una «comunità del delitto».

Quando la modernità si è or­mai dissolta, Martin Heidegger incatena l’esserci (il Da­sein ) alla morte: ciò che ac­comuna tutti gli enti è il loro essere-per-la-morte. L’esse­re- in-comune, ciò che fonda la comunità, sporgerebbe fatalmente su un abisso, un vuoto. Sul nulla. È possibile sovvertire questo pa­radigma? È possibile un pensiero della comu­nità che la liberi da questa confisca? Un pen­siero che sottragga il legame comunitario al­la dissolvenza? E ancora: se esiste questo pen­siero “altro” della comunità, quale urto su di esso provoca la novità evangelica?

Il filosofo Franco Riva e il teologo Pierangelo Sequeri lanciano un formidabile attacco a que­sto ancoramento della comunità alla morte, muovendo dal luogo originario che ospita il suo farsi: il sacro. Se il luogo originario dell’umano è il sacro, lo è perché esso istituisce l’uomo come essere-del­fronteggiamento.

Su cosa af­faccia l’umano? «Dio - scri­vono gli autori - è il “luogo” dell’origine e della destina­zione » dell’umano. In questa sporgenza che al tempo fon­da e s-fonda il suo essere, l’uomo eccede a se stesso. Ri­va e Sequeri si riallacciano al personalismo di Mounier, per il quale «la persona è ori­ginariamente un movimen­to verso l’altro», un «essere verso».

La persona è fatta «per sorpassarsi» nel movimento dell’accoglienza: l’esistere è un dimorare che si radica «nell’ospitalità» (Derrida) la cui legge «è l’interruzione di sé attraverso sé». Se cifra dell’umano è l’ospi­talità, l’accoglimento dell’altro allora - scrivo­no Riva e Sequeri - «l’ospitalità è messianica» perché «lo straniero è colui che viene» ( Jabés).

Questo passaggio consente di approdare a un nodo essenziale della riflessione di Riva e Se­queri: l’essere dell’uomo è sempre un ecce­dere. Questa eccedenza si distende nell’oriz­zonte del sacro, il cui ordine si struttura attor­no al rito.

Per gli autori, «il senso del rituale è proprio l’isolamento e la separazione di un tempo-spazio sospeso, dove agire il fronteg­giamento del sacro». Non c’è comunità possi­bile senza rito, anzi è il rito stesso a ri-genera­re il legame comunita­rio. Il rito infatti «non di­ce io, ma noi», non trat­tiene o conferma l’indi­viduo nel suo isolamen­to, ma lo sostiene nel nesso comunitario. An­che qui è svelata una ci­fra profonda dell’uma­no: l’uomo è «l’animale cerimoniale» ( Wittgenstein), «l’animale che ce­lebra » (Cox), «un creato­re di riti» (Le Coeur).

Scrivono Riva e Sequeri: «Il rito è la messa in forma dell’eccedenza dell’umano a se stesso. Il rito sconvolge, ricorda una destinazione, chiama la vita a ciò che la vita non è ancora». In questa chiamata, le parole del rito non so­no solo parole: sono azioni. Solo con queste premesse che restituiscono al rito tutta la sua potenza, può essere compreso l’orizzonte di senso nel quale si dispiega il sacrificio rituale. È il gesto stesso del sacrificare a ritagliare lo spazio sacro. L’umanità ha sempre conosciu­to e praticato il sacrificio violento, l’uccisione sacrificale della vittima. Eppure - in questo meccanismo che struttura il rapporto dell’uomo con il sacro - si è aperta una crepa, u­na vera e propria torsione. Accanto e oltre il sa­crificare, si è insinuato deflagrante - con Cri­sto - il sacrificarsi. La differenza è abissale. Sa­crificare «ha in vista la conservazione con se stessi, e quindi una coincidenza di sé, singo­lo o comunità che sia con se stessi». Sacrificarsi invece «testimonia un’eccedenza».

Il sacrificio «vuole correggere la violenza at­traverso la produzione di una violenza mino­re », rimanendo così ancorato al cuore morti­fero della violenza. Il sacrificarsi «tende al­l’azzeramento della violenza», alla sua defini­tiva estromissione dalla scena. E in questo spa­zio scavato dal sacrificarsi che si colloca - se­condo i due autori - la sconvolgente novità del Vangelo cristiano, una novità che produce «il sovvertimento religioso della religione», il con­gedo dall’economia sacrificale.

La parola a Ri­va e Sequeri: «In nome di Dio ci si consegna noi stessi, non si consegnano gli altri. È l’eco­nomia della redenzione del mondo, contro la moltiplicazione dei sacrifici sulla terra. Il sa­crificio del Signore nega la religione sacrifica­le ».

  Franco Riva - Pierangelo Sequeri 
  SEGNI DELLA DESTINAZIONE 
  Cittadella. Pagine 458. Euro 24,00



Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:

 

LA CHIESA DI COSTANTINO, L’AMORE ("CHARITAS") E LA NASCITA DELLA DEMOCRAZIA DEI MODERNI. LA "CHARTA CHARITATIS" (1115), LA "MAGNA CHARTA" (1215) E LA FALSA "CARTA" DELLA "DEUS CARITAS EST" (2006).

  FINE DEL CATTOLICESIMO E DELLA CASTA ATEA E DEVOTA VATICANA.

  PER LA CRITICA DELL’ANTROPOLOGIA E DELLA TEOLOGIA MAMMONICA. DONNE, UOMINI, E L’USCITA DA INTERI MILLENNI DI "PREISTORIA" E DI "LABIRINTO" - OGGI ... 
  IL FARISEISMO CATTOLICO-ROMANO E LA NOVITA’ RADICALE DELL’ANTROPOLOGIA CRISTIANA. PARLARE IN PRIMA PERSONA, E IN SPIRITO DI CARITA’.



Sabato 03 Ottobre,2009 Ore: 16:45
 
 
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