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www.ildialogo.org Ultima quadriglia nel balletto dei «G»,Di Bernard Cassen

Le Monde Diplomatique, ottobre 2009
Ultima quadriglia nel balletto dei «G»

Di Bernard Cassen

(traduzione dal francese di José F. Padova)


La proliferazione dei «G» - configurazione ad hoc di Stati – non traduce forse il rifiuto di affrontare globalmente lo sconvolgimento del sistema capitalista del quale le crisi finanziarie, monetarie, energetiche, alimentari e ambientali non sono altro che componenti? Il G20, che si è riunito a Pittsburg il 24 e 25 settembre, vorrebbe essere il nuovo direttorio del pianeta. Tuttavia non dispone né della legittimazione necessaria né di un progetto di cambiamento a un modo fallimentare di organizzare il mondo.

A quando il prossimo «G» che andrà ad aggiungersi a una lista già ben fornita, perché a tutt’oggi va dal G2 al G192, se vi si include l’Assemblea generale dell’ONU? Questa proliferazione è recente. Dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica, in effetti, i soli gruppi internazionali, a forte visibilità e dotati di questo prefisso per comodità mediatica, erano da un lato il G7 e, dall’altro, il G7 diventato G8. Sulla carta le cose erano molto semplici: di fronte al gruppo dei numerosi Paesi detti «in via di sviluppo» stava qualche Stato che, sotto la sferza di Washington e del suo braccio armato – la NATO – decidevano gli affari del mondo, senza altro mandato se non quello che si davano essi stessi.

Guardiano di un ordine economico che si confonde con gli interessi delle grandi imprese transnazionali e della finanza globalizzata, il G8 ha concentrato su di sé l’ostilità generale. Non solamente quella, contenuta, dei governi che ne erano esclusi, anche se ne condividevano la logica politica, ma anche e soprattutto quella dei movimenti sociali e dei cittadini che denunciavano l’illegittimità di questo club di ricchi. Nel luglio 2001, a Genova, lo scontro raggiunse il parossismo con la violenta repressione condotta dalla polizia di Silvio Berlusconi, che lasciò dietro a sé un morto e centinaia di feriti.

Otto anni più tardi e dopo una crisi sistemica del capitalismo il vertice del G8 riunito di nuovo in Italia lo scorso luglio non ha suscitato forti mobilitazioni ostili. Ognuno sentiva bene, in effetti, che esso aveva un poco perduto la mano e che gli affari del mondo ormai si sarebbero dovuti discutere a un livello più rappresentativo. D’altra parte gli organizzatori avevano preso la precauzione di invitare ugualmente un altro «G», il G5 (Sudafrica, Brasile, Cina, India, Messico) per riunirsi in una formazione di G13 (8+5), diventato G14 con l’incorporazione dell’Egitto. Senza contare un incontro con i dirigenti di cinque Paesi dell’Africa e un altro con Stati (Australia, Corea del Sud, Danimarca e Indonesia) direttamente coinvolti nei negoziati che confluiranno nella Conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, prevista a Copenhagen dal 7 al 18 dicembre prossimo.

Nell’intervallo, dal 30 novembre al 2 dicembre, si terrà a Ginevra la settima conferenza ministeriale dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), una sorta di G153, la cui ambizione è giungere alla conclusione, nel 2010, del ciclo di negoziati commerciali iniziati nel 2001 a Doha (Qatar).

Poiché il declino, addirittura a termine, e la scomparsa del G8 sembrano essere ineluttabili, due nuovi «G» vorrebbero riprendere il suo ruolo di direttorio mondiale: il G20 e, in forma surrettizia, il suo nocciolo duro che è il G2. il G20 obbedisce a una strategia di cooptazione del G8: salvaguardare da venti e maree il modello neoliberista su scala planetaria, rivestendolo di nuovi abiti e facendolo avallare da una dozzina di altri Paesi. I suoi tre primi summit tenuti a livello dei Capi di Stato e di governo (a Washington nel novembre 2008, a Londra in aprile 2009 e a Pittsburg il 24 e 25 settembre scorso) si sono conclusi con lunghe dichiarazioni sui modi di strozzare la crisi, ma senza alcuna misura veramente costrittiva.

Il G2 (Cina e Stati Uniti) è la denominazione giornalistica più recente. Se a tutt’oggi sembra eccessivo parlare di «Cinamerica» (1), non bisogna pertanto sottostimare la portata del cambiamento di nome degli incontri biennali fra Washington e Pechino. Fino alla loro recente sessione del 27 e 28 luglio 2009 nella capitale americana, si trattava di un «dialogo economico-strategico». Adesso si tratta di un «dialogo economico e strategico». La «e» recentemente inserita fa tutta la differenza. L’insieme dei dossier mondiali è sul tavolo dei negoziati fra i due giganti. E se si mette d’accordo, questo G2 porterà con sé il G20 senza troppe difficoltà.

L’ONU tenuta in disparte
Tutto questo a scapito delle sovrastrutture dell’Unione Europea, che vorrebbe molto che questo G2 si trasformasse in G3… Cosa che senza alcun dubbio il peso economico dell’Unione giustificherebbe, ma che è ostacolata dalla sua incapacità strutturale di parlare politicamente con una sola voce. D’altronde i suoi principali Stati membri sono pienamente soddisfatti della loro appartenenza al G8 e al G20. Essi non hanno alcun desiderio di essere messi in imbarazzo dai pareri di Estonia, Repubblica Ceca, Polonia, ecc., che propugnerebbero un rilancio atlantista, come sottolineava recentemente il Segretario di stato tedesco agli Interni, il cristiano-democratico Peter Altmeier: «I Paesi dell’allargamento hanno aderito all’Unione Europea per motivi economici, ma prendono le loro decisioni politiche con gli americani (2)».

Se vi è un punto sul quale si crea unanimità fra i membri di G2, G8 e G20 è la volontà di tenere alla larga la formazione più numerosa e la sola pienamente legittimata a livello internazionale: il G192, vale a dire i centonovantadue Stati membri dell’ONU. Se ne è avuta recentemente una spettacolare dimostrazione con il sabotaggio dell’iniziativa del Presidente dell’Assemblea Generale dell’Organizzazione, il padre Miguel d’Escoto, di riunire in giugno 2009, a New York, una conferenza delle Nazioni Unite sulla crisi finanziaria ed economica mondiale e sul suo impatto sullo sviluppo (3). Quindi un incontro su un soggetto centrale e che per di più era stato preparato con un rapporto redatto da una commissione presieduta dal Premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz. Di che allettare i capi di Stato e di governo, cominciando da quelli del G20, invitati a partecipare.

Ora, malgrado un rinvio di tre settimane della conferenza, destinato ad assicurarsi della loro presenza, nessuno di quei dirigenti ha trovato il tempo di recarvisi.

Parzialmente all’origine di questo boicottaggio il rapporto Stiglitz che, senza peraltro uscire dai limiti di un liberalismo ben temperato, aveva in particolare il torto di incriminare «la disparità crescente dei redditi nella maggior parte dei Paesi» come una delle cause principali della crisi. Si era posta così la domanda tabù: quella circa l’esplosione delle disuguaglianze, in primo luogo negli Stati Uniti, epicentro di un sisma il cui meccanismo vi era descritto molto bene (4).

Si può qui riassumerlo sommariamente come segue: è la stagnazione o la diminuzione dei redditi da lavoro – la «deflazione salariale» - in quel Paese, contemporaneamente alla necessità politica di mantenervi la crescita a qualsiasi costo, che ha comportato il massiccio ricorso all’indebitamento delle famiglie, specialmente per l’acquisto di case. Mediante la titolarizzazione [ndt.: o “cartolarizzazione, v. fra gli altri http://www.diritto.it/materiali/commerciale/batelli.html] dei crediti ipotecari (subprime) si è assistito alla disseminazione dovunque di attivi che le istituzioni finanziarie sapevano a prima vista essere « tossici».

Se ne conosce il seguito: esplosione della bolla immobiliare, fallimento delle banche più esposte, in seguito rimesse a galla a spese del contribuente, contaminazione del complesso della finanza mondiale, poi dell’economia reale – in modo particolare nei Paesi che avevano adottato il «modello» americano (Spagna, Irlanda, Regno Unito), - recessione, impennata della disoccupazione, piani di rilancio, ecc.

Se la partenza del fuoco della crisi è imputabile ai subprime e se banchieri e trader si sono comportati come piromani, occorre risalire più in alto per comprendere le ragioni profonde della fiammata globale. Esse non sono riferibili soltanto a comportamenti individuali, per quanto scandalosi possano essere, ma all’entroterra ideologico, politico e regolamentare che l’ha permessa, perfino incoraggiata, e che è inquadrato da due pilastri del neoliberismo: il libero scambio e la libertà di circolazione dei capitali.

Il primo grazie allo sfruttamento, in particolare da parte delle multinazionali, dei differenziali di norme sociali, fiscali ed ecologiche fra Paesi (ivi compresi quelli all’interno dell’Unione Europea) e regioni del mondo, così come alla delocalizzazione delle unità produttive dai Paesi sviluppati verso i Paesi a bassi salari, ciò che ha comportato una permanente pressione verso la diminuzione della remunerazione del lavoro; la seconda, in particolare, attraverso i paradisi fiscali.

Né il G8, né il G20, e neppure il rapporto Stiglitz non oltrepassano per questo la linea rossa della rimessa in discussione di questi due pilastri ideologici. Anzi, al contrario, li presentano come i fattori per l’uscita dalla crisi! Essi si pronunciano così per nuovi accordi di liberalizzazione in occasione della prossima conferenza ministeriale del WTO che, fra le altre conseguenze nefaste, provocherebbero un aumento del volume degli scambi, quindi dei trasporti, quindi delle emissioni di gas a effetto serra (5). In un approccio totalmente schizofrenico essi si dichiarano simultaneamente per il successo della Conferenza di Copenhagen sul cambiamento climatico il cui obiettivo è precisamente la limitazioni di queste stesse emissioni…

Si misura qui il grado d’incoerenza di dirigenti incapaci di comprendere globalmente, imparando, problemi interdipendenti. Durante decenni regna l’utopia di un mercato autoregolato dalla «concorrenza libera e non distorta» (Trattato di Lisbona) che, sotto la vigilante tutela della finanza internazionale e dei grandi gruppi industriali, è servita loro da bussola politica, anche se all’occasione faceva loro qualche piccolo strappo. Essi constatano che, nella sua forma attuale, il capitalismo ha esaurito la sua forza propulsiva e potrebbe perfino autodistruggersi. Piuttosto che tentare l’elaborazione di un altro modello, necessariamente più ugualitario, più solidale e soprattutto meno nocivo per la biosfera, essi si sforzano di mantenerlo a galla. Supponendo – ipotesi audace – che abbiano la volontà e la capacità di rimetterlo in discussione, ammettiamo che il loro compito non sarebbe facile, tanto sono gigantesche le pressioni esercitate su di loro perché nulla cambino. Così, nell’incessante balletto dei «G», una quadriglia scaccia rapidamente l’altra, ma sempre per girare in tondo attorno al medesimo vaso neoliberista.

Soltanto il G192, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, potrebbe permettere di udire un altro suono di campana, che rompa con quello dei cannoni propri del «G»: quello dell’Alleanza bolivariana dei Popoli dell’America (ALBA). L’insieme dei nove Stati che la compongono ha certamente un peso modesto su scala planetaria, ma poiché è diventato un punto di riferimento, e talvolta di attrazione, in altre regioni del mondo, è meglio non offrirgli che il minimo spazio sulla tribuna.

Testo originale:

Le Monde  Diplomatique, octobre 2009
Dernier quadrille dans le ballet des «G»
La prolifération des « G » – configurations ad hoc d'Etats – ne traduit-elle pas le refus d'affronter globalement l'ébranlement du système capitaliste dont les crises financière, monétaire, énergétique, alimentaire et environnementale ne sont que des composantes ? Le G20, qui s'est réuni à Pittsburgh les 24 et 25 septembre, se veut le nouveau directoire de la planète. Il ne dispose pourtant ni de la légitimité nécessaire ni d'un projet de rechange à un mode d'organisation du monde qui a failli.
Par Bernard Cassen *
Professeur émérite à l'université Paris-VIII
A quand le prochain « G » qui viendra s'ajouter à une liste déjà bien fournie puisqu'elle va, à ce jour, du G2 au G192 si l'on y inclut l'Assemblée générale de l'Organisation des Nations unies (ONU) ? Cette prolifération est récente. Après la disparition de l'Union soviétique, en effet, les seuls regroupements internationaux de forte visibilité, et dotés de ce préfixe par commodité média-tique, étaient, d'un côté, le G77 et, de l'autre, le G7 devenu G8 (lire le glossaire ci-contre). Sur le papier, les choses étaient fort simples : face au groupe des nombreux pays dits « en voie de développe-ment », celui des quelques Etats qui, sous la férule de Washington et de son bras armé — l'Organisation du traité de l'Atlantique Nord (OTAN) —, décidaient des affaires du monde, sans autre mandat que celui qu'ils se donnaient à eux-mêmes.

Gardien d'un ordre économique qui se confond avec les intérêts des grandes entreprises transnationales et de la finance globalisée, le G8 en est venu à concentrer sur lui l'hostilité générale. Non seulement celle, contenue, des gouvernements qui, même s'ils en partageaient la logique poli-tique, en étaient exclus, mais aussi et sur-tout celle des mouvements sociaux et citoyens qui dénonçaient l'illégitimité de ce club des riches. En juillet 2001, à Gênes, la confrontation atteignit son paroxysme avec la violente répression menée par la police de M. Silvio Berlusconi, qui laissa derrière elle un mort et des centaines de blessés.

Huit ans et une crise systémique du capitalisme plus tard, le sommet du G8 réuni à nouveau en Italie en juillet dernier n'a pas suscité de forte mobilisation hostile. Chacun sentait bien, en effet, qu'il avait quelque peu perdu la main, et que les affaires du monde devaient désormais se discuter à un niveau plus représentatif. D'ailleurs, les organisateurs avaient pris la précaution d'inviter également un autre « G », le G5 (Afrique du Sud, Brésil, Chine, Inde, Mexique), pour se réunir en formation de G13 (8 + 5), devenu G14 avec l'incorporation de l'Egypte. Sans compter une rencontre avec les dirigeants de cinq pays d'Afrique, et une autre avec des Etats (Australie, Corée du Sud, Danemark et Indonésie) directement impliqués dans les négociations qui déboucheront sur la Conférence des Nations unies sur le changement climatique prévue à Copenhague du 7 au 18 décembre prochain.

Dans l'intervalle, du 30 novembre au 2 décembre, se sera tenue à Genève la septième conférence ministérielle de l'Organisation mondiale du commerce (OMC), sorte de G153 dont l'ambition est d'aboutir à la conclusion, en 2010, du cycle de négociations commerciales lancé en 2001 à Doha (Qatar).

Comme le déclin, voire, à terme, la disparition du G8 paraissent inéluctables, deux nouveaux « G » entendent reprendre son rôle de directoire mondial : le G20 et, de manière subreptice, son noyau dur qu'est le G2. Le G20 obéit à une stratégie de cooptation du G8 : préserver contre vents et marées le modèle néolibéral à l'échelle planétaire, en le parant de nouveaux habits et en le faisant cautionner par une douzaine d'autres pays. Ses trois premiers sommets tenus au niveau des chefs d'Etat et de gouvernement (à Washington en novembre 2008, à Londres en avril 2009, et à Pittsburgh les 24 et 25 septembre) se sont conclus par de longues déclarations sur les moyens de juguler la crise, mais sans aucune mesure véritablement contraignante.

Le G2 (Chine et Etats-Unis) est d'appellation journalistique plus récente. S'il paraît à ce jour excessif de parler de Chinamérique » (1), il ne faut pas pour autant sous-estimer la portée du change-ment d'appellation des rencontres bisannuelles entre Washington et Pékin. Jusqu'à leur récente session des 27 et 28 juillet 2009 dans la capitale américaine, il s'agissait d'un « dialogue économique stratégique ». Il est maintenant question d'un dialogue « économique et stratégique ». Le « et » nouvellement introduit fait toute la différence : l'en-semble des dossiers mondiaux est sur la table de négociation entre les deux géants. Et si ce G2 se met d'accord, il entraînera le G20 derrière lui sans trop de difficultés.

L'ONU, tenue à l'écart
Cela au grand dam  des superstructures de l'Union européenne, qui voudraient bien que ce G2 se transforme en G3... Ce que justifierait sans aucun doute le poids économique de l'Union, mais qu'interdit son incapacité structurelle à parler politiquement d'une seule voix. Ses principaux Etats membres se satisfont d'ailleurs pleinement de leur appartenance au G8 et au G20. Ils n'ont nulle envie de s'embarrasser des avis de l'Estonie, de la République tchèque, de la Pologne, etc., qui pratiqueraient une surenchère atlantiste, comme le soulignait récemment le secrétaire d'Etat allemand à l'intérieur, le chrétien-démocrate Peter Altmaier : «Les pays de l'élargissement ont adhéré à l'Union européenne pour des raisons économiques, mais ils prennent leurs décisions politiques avec les Américains (2). »
S'il est un point qui fait 1'unanimite entre les membres des G2, G8 et G20, c'est bien la volonté de tenir à l'écart la configuration la plus nombreuse et la seule pleinement légitime au niveau international : le G192, c'est-à-dire les cent quatre-vingt-douze Etats membres de l'ONU. On en a eu récemment une démonstration spectaculaire avec le sabotage de l'initiative du président de l'Assemblée générale de l'Organisation, le père Miguel d'Escoto, de réunir en juin 2009, à New York, une conférence des Nations unies sur la crise financière et économique mondiale et son impact sur le développement (3). Donc une rencontre sur un sujet central, et qui de plus avait été préparée avec un rapport établi par une commission que présidait le Prix Nobel d'économie Joseph Stiglitz. De quoi allécher les chefs d'Etat et de gouvernement, à commencer par ceux du G20, conviés à y participer.

Or, malgré un report de trois semaines de la conférence destiné à s'assurer de leur présence, aucun de ces dirigeants n'a trouvé le temps de s'y rendre.

En partie à l'origine de ce boycottage, le rapport Stiglitz, sans pour autant sortir des limites d'un libéralisme bien tempéré, avait notamment le tort d'incriminer « la disparité croissante des revenus dans la plupart des pays » comme l'une des principales causes de la crise. Etait ainsi posée la question taboue : celle de l'explosion des inégalités, en premier lieu aux Etats-Unis, épicentre d'un séisme dont le mécanisme a été fort bien décrit (4).

On peut le résumer sommairement comme suit : c'est la stagnation ou la baisse des revenus du travail – la « déflation salariale » – dans ce pays, en même temps que la nécessité politique d'y maintenir à tout prix la croissance, qui a entraîné le recours massif à l'endettement des ménages, notamment pour l'acquisition de logements. Par le biais de la titrisation des crédits hypothécaires (subprime), on a assisté à la dissémination transfrontalière d'actifs que les établissements financiers savaient d'emblée «toxiques ».

On connaît la suite : éclatement de la bulle immobilière ; faillite des banques les plus exposées, ensuite renflouées par le contribuable ; contamination de l'ensemble de la finance mondiale, puis de l'économie réelle — tout particulièrement dans les pays qui avaient adopté le « modèle » américain (Espagne, Irlande, Royaume-Uni) ; récession ; bond du chômage ; plans de relance, etc.

Si le départ de feu de la crise est imputable aux subprime et si les banquiers et traders se sont comportés en pyromanes, il faut remonter plus haut pour comprendre les raisons profondes de l'embrase-ment général. Elles ne tiennent pas seule-ment à des comportements individuels, si scandaleux qu'ils soient, mais à l'arrière-plan idéologique, politique et réglementaire qui les a permis, voire encouragés, et qui est encadré par les deux piliers du néolibéralisme : le libre-échange et la liberté de circulation des capitaux.

Le premier grâce à l'exploitation, notamment par les multinationales, des différentiels de normes sociales, fiscales et écologiques entre pays (y compris au sein de l'Union) et régions du monde, ainsi que par la délocalisation des unités de production des pays développés vers les pays à bas salaires, ce qui induit une pression permanente à la baisse de la rémunération di travail ; la seconde, en particulier via les paradis fiscaux.

Ni le G8, ni le G20, ni même le rapport Stiglitz ne franchissent pour autant la ligne rouge de la remise en cause de ces deux piliers idéologiques. Bien au contraire, ils les présentent comme des facteurs de sortie de la crise ! Ils se prononcent ainsi pour de nouveaux accords de libéralisation lors de la prochaine conférence ministérielle de l'OMC qui, entre autres conséquences néfastes, entraîneraient une augmentation du volume des échanges, donc du transport, donc des émissions de gaz à effet de serre (5). Dans une démarche totalement schizophrène, ils se prononcent simultanément pour le succès de la Conférence de Copenhague sur le changement climatique dont l'objectif est précisément de limiter ces mêmes émissions...

On mesure là le degré d'incohérence de dirigeants incapables d'appréhender globalement des problèmes interdépendants. Pendant des décennies, c'est l'utopie d'un marché autorégulé par la « concurrence libre et non. faussée » (traité de Lisbonne) qui, sous la tutelle vigilante de la finance internationale et des grands groupes industriels, leur a servi de boussole poli-tique, même s'ils lui faisaient à l'occasion de menues entorses. Ils constatent que, dans sa forme actuelle, le capitalisme a épuisé sa force propulsive et pourrait même s'autodétruire. Plutôt que de tenter d'élaborer un autre modèle, nécessaire-ment plus égalitaire, plus solidaire et sur-tout moins nocif pour la biosphère, ils s'évertuent à le maintenir à flot. A supposer – hypothèse audacieuse – qu'ils aient la volonté et la capacité de le remettre en cause, convenons que leur tâche ne serait pas facile tant les pressions exercées sur eux pour ne rien changer sont gigantesques. Aussi, dans l'incessant ballet des
G », un quadrille chasse rapidement l'autre, mais toujours pour tourner en rond autour du même pot néolibéral.

Seul le G192, l'Assemblée générale des Nations unies, pourrait permettre d'en-tendre un autre son de cloche, qui rompe avec les canons communs au « G » : celui de l'Alliance bolivarienne des peuples d'Amérique (ALBA). L'ensemble des neuf Etats qui la composent a certes un poids modeste à l'échelle planétaire, mais comme il est devenu un pôle de référence, et parfois d'attraction, dans d'autres régions du monde, mieux vaut ne lui offrir que le minimum de tribunes.



Mercoledì 28 Ottobre,2009 Ore: 14:04
 
 
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