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www.ildialogo.org A Lisbona, dietro le spalle dei popoli<brAResurrezione della «Costituzione» europea,di Bernard Cassen (traduzione dal francese di José F. Padova)

Le Monde Diplomatique, dicembre 2007
A Lisbona, dietro le spalle dei popoli

di Bernard Cassen (traduzione dal francese di José F. Padova)

L’Europa e la partecipazione popolare non sono mai andate d’accordo. Optando per la ratifica parlamentare di un Trattato praticamente identico a quello che era stato respinto col referendum nel 2005, Nikolas Sarkozy allarga la frattura fra i cittadini e l’apparato istituzionale dell’Unione Europea. Un apparato che in tempo reale produce politiche neoliberiste che i governi sono troppo felici di imputare a un’ «Europa» della quale in questo modo essi stanno minando la legittimità.


La firma, il 13 dicembre 2007, del Trattato di Lisbona da parte dei governi dei ventisette Stati membri dell’Unione Europea mette fine al periodo detto, eufemisticamente, «di riflessione», che aveva fatto seguito alla bocciatura del Trattato costituzionale europeo (TCE) da parte dei referendum francese e olandese della primavera 2005. ristrutturando le sovrastrutture istituzionali dell’Unione esso rafforza la sua natura sostanzialmente neoliberista ed è stato calibrato per premunirsi, nel gergo di Bruxelles, contro ogni «incidente» di ratificazione (e ciò spiega quanto precede). Traduzione: esso non deve essere sottoposto al giudizio dei popoli, ai quali non si sarà mai comunicato così apertamente la loro condizione d’intrusi e d’indesiderabili nella costruzione europea.
 
Chiamato per antifrasi «trattato semplificato» o «minitrattato» da N. Sarkozy durante la sua campagna elettorale presidenziale, il nuovo testo, ormai col titolo di Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), non comprende meno di duecentocinquanta pagine che includono quasi trecento modifiche al Trattato che istituisce la Comunità Europea (Roma, 1957) e una sessantina di modifiche del Trattato dull’Unione Europea (Maastricht, 1992), dosici protocolli e decine di dichiarazioni. Nella lunga storia della diplomazia se ne sono visti di più «semplificati» e più «mini»…
 
La quasi illeggibilità di questo documento per i comuni mortali (e, si immagina, per la grande maggioranza dei loro rappresentanti eletti) non deve nascondere l’essenziale: si tratta puramente e semplicemente, con qualche minima variante, della copia del contenuto del TCE. Anche il semplice parallelismo delle forme avrebbe voluto che fosse sottoposto alle medesime procedure di ratifica. Non se n’è fatto nulla. L’argomento propugnato da Sarkozy durante e dopo la sua campagna elettorale per giustificare il rifiuto di una nuova consultazione popolare è di una malafede disarmante: il TCE era una Costituzione, per la quale s’imponeva il referendum; il TFUE non è una Costituzione e basta una semplice ratifico parlamentare! Ora, il TCE non era per niente una «Costituzione» europea nel senso giuridico del termine; si trattava di un trattato come gli altri, come aveva pubblicamente affermato Jean-Luc Dehaene, ex primo ministro belga e vice presidente della Convenzione per l’avvenire dell’Europa, che ne aveva redatta la prima versione.
 
Il riferimento costituzionale aveva natura simbolica, specialmente per «sacralizzare» le politiche europee in vigore, per la quasi totalità di essenza neoliberista, che figuravano nella parte III del TCE. Questa parte III è scomparsa, certo, in quanto tale, ma la sua sostanza rimane intatta, poiché figura nei due trattati (di Roma e di Maastricht) ai quali il TFUE non fa altro che apportare modifiche, e soprattutto perché queste politiche si applicano già quotidianamente. Ultimo argomento sviluppato dal Presidente della Repubblica francese:le modifiche introdotte producono consenso. Se le cose stanno così, si presenta un’occasione privilegiata di verificarle consultando gli elettori. I temi consensuali sono talmente rari in Francia…
 
Si sarà già indovinato che Sarkozy non crede una sola parola di queste corbellerie. In dichiarazioni fatte a porte chiuse in occasione della sua recente visita al Parlamento europeo, a Strasburgo, fornisce il fondo del suo pensiero: «Non ci sarà Trattato se in Francia avrà luogo un referendum, seguito da un altro nel Regno Unito (1)». Circostanza aggravante: «La stessa cosa [un voto negativo, come il voto francese del 2005] accadrebbe in tutti gli Stati membri se vi si organizzasse un referendum». Almeno così le cose sono chiare, come conferma, senza tuttavia impressionarsi, un cronista del settimanale L’Express, fervente partigiano del nuovo Trattato: «C’è la prova che l’Unione Europea non fa passi avanti se non evitando l’assenso popolare. (…) l’Unione teme i suoi popoli, al punto che a Lisbona è stato necessario abbandonare i “segni ostensibili”, bandiera e inno, per dare garanzie ben buffe all’opinione pubblica (2)». Si è detto tutto.
 
Un vivaio di futuri ministri di «apertura»
Se la costruzione europea non può «avanzare» se non all’insaputa dei suoi popoli, quando non è contro di essi, sono i fondamenti democratici – costantemente invocati in tutti i trattati – che sono messi in discussione. Qui non si tratta di una questione di secondaria importanza, ma di una di quelle nelle quali la forma non soltanto prevale sulla sostanza di fondo, ma costituisce il fondamento stesso, nel caso in questione il primato della sovranità popolare. A questo proposito essa dovrebbe preoccupare nella misura massima l’insieme dei responsabili politici e, più in là, l’insieme delle strutture rappresentative della società
 
Tutte le forze politiche e praticamente tutti i loro dirigenti che avevano fortemente raccomandato il rifiuto del TCE nel 2005 sono evidentemente uniti nel chiedere un referendum per ratificare il TFUE. La direzione del Partito socialista francese, avida di prendere la sua rivincita su un «no» per il quale si era trovata sconfessata da una parte dei suoi responsabili e dalla maggioranza degli elettori, ha deciso altrimenti: la maggior parte dei suoi membri chiede ai deputati del partito di votare «si» al testo che sarà presentato all’Assemblea nazionale e al senato, invece di battersi perché si tenga un referendum. Nel dimenticatoio l’impegno preso e contenuto nel programma elettorale, così come la proposta 98 della campagna presidenziale della signora Ségolène Royal! Si tratta di un’occasione troppo bella per fare passare attraverso lo sportello parlamentare un testo espulso attraverso il portone principale dal verdetto popolare. Patrick Bloche, deputato di Parigi, non usa mezzi termini: «Questa volta ho voglia che il Partito Socialista pensi qualcosa sull’Europa. A costo di pensare le stesse cose di Sarkozy (3)».
 
Si è visto prima ciò che realmente pensa Sarkozy, che così dispone nel PS di un vivaio allargato di futuri ministri «di apertura», che condividono con lui il timore – giustificato – del suffragio dei cittadini. Per lo meno aveva annunciato il colore prima di essere eletto alla presidenza: non ci sarebbe stato referendum. Per la direzione del PS, che aveva preso una posizione contraria, l’ «Europa» vale bene il rinnegare le proprie promesse.
 
Ci si può interrogare su questo accanimento di un partito a favore di una forma di costruzione europea che, fin dal primo giorno, si è voluto fosse una macchina di liberalizzazione (4) e che in seguito a ripreso per proprio conto i criteri della mondializzazione neoliberale, in particolare per quanto riguarda i raporti con il Sud (5). L’elezione – sotto il patrocinio di Sarkozy – di Dominique Strauss-Kahn alla direzione generale del Fondo monetario internazionale (FMI), dopo quella di Pascal Lamy alla testa dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), ha avuto valore di test. Invece di interrogarsi sulla fondatezza di queste nomine in organizzazioni multilaterali le cui sigle e politiche sono vilipese dalla quasi totalità dei movimenti sociali del pianeta, i dirigenti del PS hanno espresso la loro fierezza di vedere così riconosciute le «competenze» di due membri eminenti del loro partito.
 
Mettendo in atto una fuga in avanti che consiste nel reclamare sempre «più Europa» (è il senso del loro impegno per il «sì») mentre «più» di quell’Europa lì significa immancabilmente più liberalizzazioni, privatizzazioni e messa in discussione dei servizi pubblici – la maggior parte dei dirigenti della sinistra di governo proibiscono a loro stessi, deliberatamente, ogni velleità di trasformazione sociale e di ridistribuzione della ricchezza, qui e ora. È patetico vederli correre dietro una «Europa sociale» che, come un miraggio, si sottrae ogni giorno alla loro vista.
 
Giudiziosamente intitolato «L’educazione europea», l’articolo di un autentico liberale di destra, Claude Imbert, editorialista di Point, batte il chiodo: «Il voto, rimuginato dai nostri socialisti, di un’Europa sociale alla francese è una fantasticheria di più. Fra i nostri partner nessuno ne vuole sapere. Né i conservatori né i socialisti (6)». Lo stesso Imbert aveva scritto che l’antiliberismo è «uno slogan per eccellenza antieuropeo: l’Europa comunitaria in effetti è liberista, le sue regole sono liberiste (7)».
 
È audace qualificare come «socialisti» i social-democratici del Partito socialista europeo (PSE) i quali, al Parlamento europeo, generalmente fanno causa comune con i loro «avversari» del Partito popolare europeo (PPE) appena si tratta di liberalizzare e di avvicinarsi agli Stati Uniti (8). Se questa Europa è effettivamente e per sua natura liberista e se ha incatenato le sue istituzioni per restarlo, la questione, rimasta a lungo un tabù, è ormai di sapere come liberarsi di questo complesso di costrizioni.
 
(1) Rapportés sur le site du quotidien conservateur britannique The Daily Telegraph et repris sur le site de l'hebdomadaire français Marianne le 15 novembre dernier (www.marianne2.fr).
(2) Christian Makarian, « Adieu utopie », L'Express, Paris, 25 octobre 2007.
(3) Libération, Paris, 29 octobre 2007.
(4) Lire François Denord, « Dès 1958, la "réforme" par I'Europe », Le Monde diplomatique, novembre 2007, et Anne-Cécile Robert, « La gauche dans son labyrinthe », Le Monde diplomatique, mai 2005.
(5) Lire Raoul Marc Jennar, «Ces accords que Bruxelles impose à I'Afrique », Le Monde diplomatique, février 2005.Le Point, Paris, 28 juin 2007.
(6) Le Point, 8 juin 2006.
(7) Dans son récent et stimulant ouvrage, Quelle Europe après le non ?, Raoul Marc Jennar site le cas significatif de la députée européenne sociale-démocrate allemande Erika Mann, extrêmement influente au sein du PSE, et qui préside le Transatlantic Policy Network. Cette boite à idées regroupe nombre de multinationales européennes et américaines, et elle préconise une union toujours plus étroite avec les Etats-Unis. Logiquement, M ' Mann est membre du groupe Kangourou, forum de parlementaires attachés au libre-échange et à la libre circulation des capitaux.
 
Testo originale :
 
A Lisbonne, dans le dos des peuples
Résurrection de la «Constitution» européenne
 
L'Europe et la participation populaire n'ont jamais fait bon ménage. En optant pour la ratification parlementaire d'un traité pratiquement identique à celui qui avait été rejeté par référendum en 2005, M. Nicolas Sarkozy élargit la fracture entre les citoyens et l'appareil institutionnel de I'Union européenne. Un appareil qui produit à flux tendu des politiques néolibérales que les gouvernements sont trop heureux d'imputer à une «Europe » dont ils sont ainsi en train de miner la légitimité.
Par Bernard Cassen
 
La signature, le 13 décembre 2007, du traité de Lisbonne par les gouvernements des vingt-sept Etats membres de 1'Union européenne met un terme à la période dite, par euphémisme, de « réflexion » qui avait suivi le rejet du traité constitutionnel européen (TCE) par les référendums français et néerlandais du printemps 2005. Tout en aménageant les superstructures institutionnelles de l’Union, il conforte sa nature foncièrement néolibérale et, ceci expliquant sans aucun doute cela, il a été calibré pour se prémunir, en jargon bruxellois, contre tout « accident » de ratification. Traduction : il ne doit pas étre soumis au jugement des peuples, auxquels on n'aura jamais aussi ouvertement signifié leur condition d'intrus et d'indésirables dans la construction européenne.
 
Dénommé par antiphrase « traité simplifié » ou « minitraité » par M. Nicolas Sarkozy pendant sa campagne présidentielle, le nouveau texte, désormais intitulé traité sur le fonctionnement de 1Union européenne (TFUE), ne comprend pas moins de deux cent cinquantesix pages incluant près de trois cents modifications du traité instituant la Communauté européenne (Rome, 1957) et une soixantaine de modifications du traité sur 1' Union européenne (Maastricht, 1992), douze protocoles et des dizaines de déclarations. Dans la longue histoire de la diplomatie, on a connu plus « simplifié » et plus « mini »...
 
Le caractère quasi illisible de ce document pour le commun des mortels (et, on l'imagine, pour la grande majorité de leurs représentants élus) ne doit pas occulter l'essentiel : il s'agit purement et simplement, à quelques dispositions près, de la reprise du contenu du TCE (lire I 'encadré ci-dessous). Aussi le simple parallélisme des formes aurait-il voulu qu'il soit soumis aux mémes procédures de ratification. Il n'en est rien. L'argument avancé par M. Sarkozy pendant et après sa campagne pour justifier le refus d'une nouvelle consultation populaire est d'une désarmante mauvaise foi : le TCE était une Constitution, pour laquelle un référendum s'imposait ; le TFUE n'étant pas une Constitution, une simple ratification parlementaire suffira ! Or le TCE n'était nullement une « Constitution » européenne au sens juridique du terme ; il s'agissait d'un traité comme les autres, ainsi que l'avait publiquement affirmé M. Jean-Luc Dehaene, ancien premier ministre belge et vice-président de la Convention pour l'avenir de I'Europe, qui en avait rédigé la première mouture.
 
La référence constitutionnelle était de nature symbolique, notamment pour «sacraliser» les politiques européennes en vigueur, la quasi-totalité d'entre elles d'essence néolibérale, qui figuraient dans la partie III du TCE. Cette partie III a certes disparu en tant que telle, mais sa substance demeure intacte puisqu'elle figure dans les deux traités (de Rome et de Maastricht) auxquels le TFUE ne fait qu'apporter des modifications, et surtout parce que ces politiques s'appliquent déjà quotidiennement. Dernier argument développé par le président de la République : les modifications introduites font consensus. Si tel est bien le cas, une occasion privilégiée se présente de le vérifier en consultant les électeurs. Les thèmes consensuels sont tellement rares en France...
On aura deviné que M. Sarkozy ne croit pas un seul mot de ces sornettes. Dans des propos tenus à huis clos lors de sa récente visite au Parlement européen, à Strasbourg, il livre le fond de sa pensée : « Il n'y aura pas de traité si un référendum a lieu en France, qui serait suivi par un référendum au Royaume‑Uni (1). » Circonstance aggravante : « La méme chose [un vote négatif, comme le vote franvais en 2005] se produirait dans tous les Etats membres si un référendum y était organisé. » Au moins les choses sont claires, ce que confirme, sans pour autant s'en émouvoir, un chroniqueur de l'hebdomadaire L'Express, chaud partisan du nouveau traité : « La preuve est fàite que LUnion européenne n'avance qu'en se passant de l 'assentiment populaire. (...) L'Union redoute ses peuples, au point qu'il a fallu abandonner à Lisbonne les "signes ostensibles ", drapeau et hymne, pour donner de drôles de gages à 1'opinion (2). » Tout est dit.
 
Un vivier de futurs ministres d'« ouverture »
S. la construction européenne ne peut « avancer» qu'à l'insu des peuples, quand ce n'est pas contre eux, ce sont ses fondements démocratiques — constamment invoqués dans tous le's traités — qui sont eux-mémes en cause. Il ne s'agit pas là d'une question subalterne. Elle est de celles où la forme non seulement prime le fond, mais où elle constitue le fond lui-méme, en 1'occurrence le primat de la souveraineté populaire. A ce titre, elle devrait inquiéter au plus haut point l'ensemble des responsables politiques et, au-delà, l'ensemble des structures de représentation de la société.
 
Toutes les forces et pratiquement tous les dirigeants politiques qui avaient préconisé le rejet du TCE en 2005 sont évidemment unis dans la demande d'un référendum pour ratifier le TFUE. La direction du Parti socialiste (PS), avide de prendre sa revanche sur un « non » où elle s'était trouvée désavouée par une partie de ses responsables et par la majorité de ses électeurs, en a décidé autrement : sa majorité appelle les élus à voter « oui » au texte qui sera présenté à 1'Assemblée nationale et au Sénat, au lieu de se battre pour la tenue d'un référendum. Aux oubliettes l'engagement en ce sens contenu dans son programme, ainsi que dans la proposition 98 de la campagne présidentielle de M'' Ségolène Royal ! L'occasion est trop belle de faire passer par le vasistas parlementaire un texte expulsé par la grande porte du verdict populaire. M. Patrick Bloche, député de Paris, n'y va pas par quatre chemins : « Cette fois, j 'ai envie que le PS pense quelque chose sur l'Europe. Quitte à penser la même chose que Sarkozy (3). »
 
On a vu plus haut ce que pense réellement M. Sarkozy, qui dispose ainsi au PS d'un vivier élargi de futurs ministres d'« ouverture » partageant avec lui la crainte — justifiée — du suffrage des citoyens. Au moins avait-il clairement annoncé la couleur avant d'étre élu à la présidence : il n'y aurait pas de référendum. Pour la direction du PS, qui avait pris une position contraire, 1'« Europe» vaut bien le reniement de ses promesses
 
On peut s'interroger sur cet acharnement d'un parti en faveur d'une forme de construction européenne qui, dès le premier jour, s'est voulue une machine à libéraliser (4), et qui a ensuite repris à son compre les critères de la mondialisation néolibérale, notamment en ce qui concerne les relations avec le Sud (5). L'élection – sous le patronage de M. Sarkozy – de M. Dominique Strauss-Kahn à la direction générale du Fonds monétaire international (FMI), après celle de M. Pascal Lamy à la téte de 1'Organisation mondiale du commerce (OMC), a eu valeur de test. Au lieu de s'interroger sur le bien-fondé de ces nominations dans des organisations multilatérales dont les sigles et les politiques sont honnis par la quasi-totalité des mouvements sociaux de la planète, les dirigeants du PS ont exprimé leur fierté de voir ainsi reconnues les « compétences » de deux membres éminents de leur parti.
 
En pratiquant une fuite en avant qui consiste à réclamer toujours « plus d'Europe » (c'est le sens de leur engagement pour le « oui ») alors que «plus» de cette Europe-là signifie immanquablement davantage de libéralisations, de privatisations et de remise en cause des services publics –, la plupart des dirigeants de la gauche de gouvernement s'interdisent délibérément toute velléité de transformation sociale et de redistribution de la richesse ici et maintenant. Il est pathétique de les voir courir après une « Europe sociale » qui, tel un mirage, se dérobe chaque jour devant eux.
 
Judicieusement intitulé « L'éducation européenne », l'article d'un authentique libéral de droite, Claude Imbert, éditorialiste au Point, enfonce le clou : «Le vœu, ressassé chez nos socialistes, d'une Europe sociale à la française est une rêverie de plus. Parmi nos partenaires, personne n'en veut. Ni les conservateurs ni les socialistes (6) ! » Le mème Imbert avait écrit que l'antilibéralisme est « un slogan par excellence antieuropéen 1'Europe communautaire est en effèt libérale ; ses règles sont libérales (7) ».
 
Il est audacieux de qualifier de « socialistes » les sociaux-démocrates du Parti socialiste européen (PSE), qui, au Parlement européen, font généralement cause commune avec leurs « adversaires » du Parti populaire européen (PPE) dès lors qu'il s'agit de libéraliser et de se rapprocher des Etats-Unis (8). Si cette Europe est effectivement, et par nature, libérale, et si elle a verrouillé ses institutions pour le demeurer, la question, longtemps taboue, est désormais de savoir comment se libérer de ce carcan.
 
(1) Rapportés sur le site du quotidien conservateur britannique The Daily Telegraph et repris sur le site de l'hebdomadaire français Marianne le 15 novembre dernier (www.marianne2.fr).
(2) Christian Makarian, « Adieu utopie », L'Express, Paris, 25 octobre 2007.
(3) Libération, Paris, 29 octobre 2007.
(4) Lire François Denord, « Dès 1958, la "réforme" par I'Europe », Le Monde diplomatique, novembre 2007, et Anne-Cécile Robert, « La gauche dans son labyrinthe », Le Monde diplomatique, mai 2005.
(5) Lire Raoul Marc Jennar, «Ces accords que Bruxelles impose à I'Afrique », Le Monde diplomatique, février 2005.Le Point, Paris, 28 juin 2007.
(6) Le Point, 8 juin 2006.
(7) Dans son récent et stimulant ouvrage, Quelle Europe après le non ?, Raoul Marc Jennar site le cas significatif de la députée européenne sociale-démocrate allemande Erika Mann, extrêmement influente au sein du PSE, et qui préside le Transatlantic Policy Network. Cette boite à idées regroupe nombre de multinationales européennes et américaines, et elle préconise une union toujours plus étroite avec les Etats-Unis. Logiquement, M ' Mann est membre du groupe Kangourou, forum de parlementaires attachés au libre-échange et à la libre circulation des capitaux.


Lunedì 05 Ottobre,2009 Ore: 16:13
 
 
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