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www.ildialogo.org Due o tre cose che so sulla crisi,di Jean-Paul Fitoussi

Due o tre cose che so sulla crisi

di Jean-Paul Fitoussi

da: la Repubblica, 30 settembre 2009


C’è davvero da preoccuparsi: nonostante tutta l'energia messa in campo, o forse proprio per questo, la crisi che abbiamo sotto gli occhi non è stata ancora compresa. L'andamento del Pil è di nuovo positivo, le borse riprendono a salire, le banche a fare profitti, e si ricomincia ad affermare con toni sempre più pressanti l'esigenza di tornare al mondo di prima: chiudere in fretta la parentesi e porre in atto al più presto una "exit strategy".

Ma questa espressione non ha, come si potrebbe dare ad intendere, il significato di una strategia di uscita dalla crisi, bensì di uscita dello Stato dagli affari economici. L'accumulo del debito pubblico e quello della liquidità fanno rinascere lo stesso timore — quello di una ripresa dell'inflazione — che ha presieduto all'organizzazione del mondo di prima. E quest'analisi non sembra minimamente intaccata dal fatto che questi accumuli siano stati entrambi provocati proprio dal malfunzionamento dei mercati: in un mondo smemorato si fa presto a rovesciare sugli effetti la colpa delle cause.
Ma prendere sul serio questi richiami a un "ritorno all'anormalità" vorrebbe dire in realtà lasciar prosperare i germi di riproduzione della crisi.

In effetti, l'origine di questa crisi non va ricercata né nel debito pubblico, né nell'inflazione: la crisi è finanziaria, e riflette una disfunzione di vasta portata dei mercati finanziari. Di conseguenza, è solo parzialmente imputabile alla miopia di questi ultimi e al comportamenti, di volta in volta predatorio o gregario, dei suoi attori. La mia convinzione è piuttosto che l'implosione del sistema finanziario abbia origine da cause più profonde.

Nei Paesi ricchi, quest'ultimo quarto di secolo è stato, nella grande maggioranza dei casi, tutt'altro che favorevole al mondo del lavoro. Le disuguaglianze sono aumentate quasi ovunque, come risulta dagli studi condotti da quasi tutte le grandi organizzazioni economiche in questi ultimi due anni. Non a caso, la crisi è nata nel cuore stesso del sistema capitalistico contemporaneo, negli Stati Uniti, dove l'aumento delle disuguaglianze è stato maggiore. Gli altri Paesi hanno seguito gli Usa su questa china di regressione sociale, ma rimanendo indietro, nonostante i loro sforzi per imitarli. Corollario di quest'inasprimento delle sperequazioni del reddito è una debolezza strutturale della domanda globale, dato che chi spende la totalità delle proprie entrate dispone di meno denaro, mentre aumentano i redditi di chi stenta a spenderne anche solo una frazione. In un contesto del genere la politica monetaria, che è lo strumento privilegiato per regolare la domanda globale, dev'essere necessariamente espansionistica: e diventa in qualche modo endogena dello stato di disuguaglianza. In tal modo i minori tassi d'interesse facilitano l'accesso al credito, e di conseguenza l'aumento dell'indebitamento privato. L'altra faccia del fenomeno è che una frazione minima della popolazione (meno dell' 1%, se non addirittura l'uno per mille) fruisce di un aumento considerevole dei propri redditi, e cerca quindi nuove occasioni di investimento, direttamente o con l'intermediazione del sistema finanziario. Il quale contribuisce, con le sue mirabolanti promesse, alla formazione di bolle speculative: i prezzi degli attivi (immobiliari, finanziari) si gonfiano ben al di là del loro valore reale. Il bello, se così posso dire, è che fino a quel momento tutto sembra andare per il meglio nel migliore dei mondi. Il sistema appare equilibrato, dato che all'indebitamento del settore privato corrisponde un aumento del valore degli attivi: da qui l'impressione che la ricchezza netta delle famiglie non sia diminuita, ma anzi aumentata. Quando però il mercato torna fatalmente a una valutazione meno eccessiva degli attivi, il sistema crolla, dato che i debitori divengono in gran parte insolvibili.

Il meccanismo della crisi è implacabile. L'aumento delle disuguaglianze non può che condurre a una politica monetaria più lassista, e in un mercato finanziario non sufficientemente regolato il prezzo degli attivi va alle stelle.

Ma un secondo elemento ha contribuito a deprimere la domanda globale e a immettere al tempo stesso liquidità nei mercati: l'accumulo di riserve da parte dei Paesi emergenti, che ammaestrati dall'esperienza della crisi asiatica del 1997 hanno preferito evitare la tutela delle istituzioni internazionali. Gli Stati che allora furono costretti a ricorrere al Fondo Monetario Internazionale pagarono un pesante tributo in termini di crescita economica, sofferenza sociale e perdita di sovranità. Scottati da quell'episodio, hanno quindi optato per un'autoassicurazione contro l'instabilità macroeconomica mondiale e i conseguenti problemi di bilancia dei pagamenti, accumulando riserve in dollari. Queste ultime sono state così sottratte alla domanda mondiale, andando a costituire nuova liquidità e ad alimentare l'andamento sconsiderato dei mercati finanziari.

Queste due cause profonde e strutturali della crisi purtroppo non sono destinate ad essere di breve durata. Il ritorno della crescita del Pil è certo una buona notizia: vuol dire, essenzialmente, che grazie all'energica azione degli Stati la caduta della domanda globale si è interrotta. Resta però il fatto che il Pil mondiale è oggi di 4-5 punti inferiore al suo livello di prima della crisi. Ci vorranno diversi anni di crescita perché il mondo possa tornare a quel livello. Frattanto però la disoccupazione — che rappresenta il vero indicatore dell'inizio e della fine della crisi — continuerà ad aumentare.

In queste condizioni, una strategia di uscita dalla crisi può forse permettere di tornare al mondo "di prima", ma senza aver posto rimedio alle cause che ne hanno provocato il tracollo. L'inasprimento delle disuguaglianze non nasce dal caso, ma è il frutto avvelenato di una particolare concezione della "virtù economica", che pone al centro delle politiche pubbliche la concorrenza fiscale e sociale. Allo stesso modo, l'accumulo di riserve, in guisa di assicurazione, da parte dei Paesi emergenti riflette le carenze organizzative della governance mondiale, e segnatamente l'assenza di una moneta di riserva realmente internazionale.
Usciremo dalla crisi solo a condizione di volerla comprendere.
Traduzione di Elisabetta Horvat



Mercoledì 30 Settembre,2009 Ore: 16:29
 
 
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