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ISSN 2420-997X

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www.ildialogo.org Domenica 5a Ordinario – C – 07 febbraio 2010,di Paolo Farinella, prete

Domenica 5a Ordinario – C – 07 febbraio 2010

di Paolo Farinella, prete

La liturgia della 5a domenica del tempo ordinario-C ci chiede ancora di fissare la nostra attenzione sulla chiamata che è descritta non come una eccezionalità riservata a speciali categorie di persone, ma come la condizione ordinaria della vita quotidiana. Ogni persona è chiamata in modo unico e speciale ad essere se stessa, a riconoscere in sé e a scoprire il segno speciale che Dio vi ha deposto addirittura «prima di formarti nel grembo materno» come abbiamo visto domenica scorsa nella straordinaria avventura del profeta Geremia (cf Ger 1,5).
La 1a lettura di oggi ci presenta un altro gigante della profezia, Isaia, vissuto nel sec. VIII a. C. e contemporaneo di Osea e, in parte, di Amos. Il sec. VIII a. C. è un secolo di trasformazioni: l’economia internazionale vola; i mercati sono fiorenti; la ricchezza è diffusa ovunque; le carovane viaggiano da un capo all’altro del mondo di allora. In questo contesto opera il profeta Isaia, un aristocratico di Gerusalemme che osserva gli eventi e riflette su di essi in una visione unitaria e dinamica. Non si lascia prendere dalle apparenze, ma sa andare oltre e da uomo dalla larghe vedute, vive la religiosità del suo tempo in maniera intelligente e aperta. Il racconto della sua chiamata è particolare. Forse egli sta assistendo nel tempio alla liturgia dello Yom Kippur, l’unico in cui il sommo sacerdote attraversa il doppio velo che separa il Sancta Sanctorum dal resto del tempio per svolgere il rito dell’incenso davanti all’arca[1].
Il profeta si trova nel cortile riservato agli Israeliti. Forse è assorto in preghiera, ma con lo sguardo fisso nel vuoto davanti a sé: la sua immaginazione segue le volute delle nubi di incenso che fuoriescono da dietro la cortina. Lentamente il fumo invade anche lo spazio occupato dai sacerdoti. Si crea uno scenario imponente. Il profeta immagina di vedere dietro le nubi l’arca dell’alleanza posta al centro nel Santo dei Santi e sovrastata da due cherubini con sei ali ad altezza d’uomo che stanno sul coperchio d’oro[2] dell’arca. L’emozione è grande. Isaia si sente trasportato in un mondo non suo, diventa un tutt’uno con la sua esperienza mistica. E’ travolto dalla «Gloria/Kabòd» che pervade tutto il tempio, si sente soffocare dalla Presenza/Shekinàh accompagnata dalla corte celeste (qui chiamata «eserciti») che canta il «trisàghion»: Santo, Santo, Santo… rimasto anche nella nostra liturgia. Come resistere al Dio che avanza e chiama? Come stare davanti a Dio con una coscienza non trasparente? La scenografia richiama la teofania del Sinai: vibrazioni di stipiti, grida, fumo/nebbia (cf Is 6,4). Isaia prende atto che alla presenza di Dio si svela la coscienza della propria consistenza. Egli si sente inadeguato perché figlio impuro di «un popolo dalle labbra impure» (Is 6,5). Egli è purificato col fuoco (Is 6,6) e liberato da se stesso e da ogni scoria. Solo ora può scegliere di aderire alla chiamata di Dio che cerca un profeta.
 
Nota. Il senso dell’atto penitenziale dell’Eucaristia è questo: la consapevolezza della Presenza di Dio ci restituisce la dimensione autentica della verità di noi stessi e ci apre alla disponibilità di aderire alla sua volontà perché lui ci rigenera creature nuove per una nuova alleanza. Essere chiamati esige una risposta e questo crea una relazione duplice: nella voce e nel nome. La parola e la persona.
 
Nel vangelo, Gesù assume il ruolo di maestro e ogni occasione è utile per partecipare la sua missione di svelare il volto di Dio. Da una parte la folla fa ressa presso di lui perché vuole «ascoltare la parola di Dio» (Lc 5,1) e dall’altra Gesù non si sottrae a questo bisogno primario di sapere e quindi comunicare che è un compito immane. E’ sintomatico che l’evangelista non dice che la folla vuole ascoltare la «parola di Gesù», ma dice espressamente «parola di Dio» che arriva prima ancora di esser pronunciata. Gesù con tutta la sua persona trasuda il senso di Dio e la gente lo «sente» e corre. Oggi l’umanità è assetata di Dio e dietro a Gesù e al vangelo correrebbe senza difficoltà, ma l’impedimento che si frappone spesso è costituito dalla Chiesa stessa diventa una barriera e non un ponte di collegamento. Quante persone si sono allontanante per sempre perché sono state giudicate con scortesia, senza comprensione, senza amore. Dio si serve delle persone in carne e ossa per parlare e incontrare persone di carne e ossa.
Ad esse e ai loro bisogni Gesù va incontro, associando persone preparate nell’arte della comunicazione personale perché non sceglie singoli individui, ma persone che già lavorano in gruppo: sono pescatori. Nell’omelia vedremo cosa significa essere «pescatori di uomini» (Lc 5,10), qui ci basti sottolineare che nella nuova missione Pietro e i suoi compagni porteranno le competenze che avevano prima. Non cessano di essere pescatori, ma applicheranno quest’arte alla loro missione. Rispondere a Dio che chiama non significa fare un taglio reciso con tutto ciò che precede, ma mettere le proprie competenze a servizio non più di se stessi, ma del mondo intero. Spesso si applica il brano del vangelo di oggi alla vocazione dei preti, attribuendo così al vangelo un intendo che non ha: nell’orizzonte di Gesù non c’è la Chiesa come possiamo concepirla noi oggi, ma l’umanità intera che egli vuole accompagnare nel Regno di Dio che si svelerà alla fine della storia, ma comincia con lui. Tutti i suoi discepoli sono chiamati a sentire e condividere la responsabilità di questo progetto che ha un solo metodo, l’amore e un solo obiettivo, l’amore. La Chiesa è il luogo umano dove l’amore si rende visibile e operativo.
San Paolo dice lo stesso pensiero con parole diverse: la «tradizione» che ha ricevuto e consegna a sua volta non è altro che una trasmissione, cioè una comunicazione ininterrotta che diventa catena di linfa vitale perché unisce le generazioni tra loro, senza isolare alcuno. Paolo sembra fare una contabilità dei testimoni, mentre invece ci conferma che il fondamento della grande Tradizione/Comunicazione è l’esperienza fisica (qui la visione) che i testimoni hanno fatto del Signore Gesù. Nessuno può tramandare ciò che non ha sperimentato. I lefebvriani o i fondamentalisti cattolici che si appellano alla «tradizione» che tutt’al più si ferma al sec. XVI (concilio di Trento), dimostrano di non avere consapevolezza che la «Tradizione» è l’alveo vitale ininterrotto da Gesù a noi che cammina sulle gambe degli uomini e quindi si adatta alla psicologia delle diverse epoche.
Fermarsi solo ad una certa epoca, significa avere poca considerazione di Dio, il quale oggi non parlerebbe più perché tutto è stato detto e fatto: noi dobbiamo limitarci ad essere ripetitori amorfi e passivi. Si nega l’incarnazione del Lògos che non è un momento solo storico, ma un processo che ha inizio nell’esodo, passando per la creazione fino all’apocalisse, fino alla fine del tempo. La vera Tradizione non è un fatto immutabile, ma un evento sempre vivo, un movimento di vita che cambia continuamente perché ogni epoca possa esprimere il meglio della propria fede con gli strumenti contemporanei. Fermarsi ad una ipotetica epoca storica significa atrofizzare la vita e renderla rachitica e senza prospettiva. Esaminiamo con l’aiuto dello Spirito Santo l’identità della nostra vocazione e lo spessore della nostra risposta, imparando a vedere ogni evento con gli occhi della fede, di cui l’Eucaristia è la grande scuola, assumendo in noi le parole; (Sal 95/94,6-7); «Entrate: prostràti, adoriamo,
in ginocchio davanti al Signore che ci ha fatti. È lui il nostro Dio».
 
Spirito Santo, tu prepari noi ad essere il tempio vivente del Dio vivente,      Veni, sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu apristi gli occhi del cuore di Isaia per vedere la Gloria,                   Veni, sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu proclami in noi la santità di Dio tre volte santo,                  Veni, sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu purifichi chi sta davanti al Signore per ascoltarla,               Veni, sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei il carbone ardente che purifica ogni impurità,                Veni, sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu rendi grazie in noi alla fedeltà e misericordia del Signore,  Veni, sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei la risposta di Dio a quanti invocano il suo Nome,                      Veni, sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu non abbandoni noi, opera delle mani di Dio,                                  Veni, sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei la Grande Tradizione ricevuta e trasmessa da Paolo,      Veni, sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu manifestasti il Cristo risorto a Cefa e ai Dodici,                  Veni, sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu chiamasti Paolo il persecutore ad essere apostolo,               Veni, sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu conduci il popolo all’ascolto della Parola di Dio,                Veni, sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu consoli gli apostoli con una pesca adeguata alla fede,                     Veni, sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei il «largo» che Simone deve prendere se vuole pescare,             Veni, sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu ispiri gli apostoli a seguire Gesù sulle vie del mondo,                     Veni, sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei la forza di Cristo che guarisce la lebbra dell’egoismo,   Veni, sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei la pienezza del Signore che sta in preghiera,                  Veni, sancte Spiritus!
 
Ognuno di noi ha un compito che non può essere messo a paragone con quello degli altri, quasi in una gara tra chi è il migliore. Nessuno è migliore degli altri, perché nel Regno di Dio siamo tutti diversi e complementari e l’uno è necessario all’altro.  Un dato fondamentale della fede cristiana è che ciascuno di noi è unico e irripetibile perché ognuno di noi è amato personalmente e accolto senza condizione: Gesù ha offerto la sua vita non per alcune categorie di persone, ma unicamente per «pollòi – tutti»[3]. Tutto il mondo come creato e tutta l’umanità come persone sono chiamate a sperimentare attraverso la mediazione di ciascuno l’intensità della vita trinitaria nel Nome santo della quale noi iniziamo questa Eucaristia
 
(ebraico)
Beshèm
ha’av
vehaBèn
veRuàch
haKodèsh.
Amen.
(italiano)
Nel Nome
del Padre
e del Figlio
e dello Spirito
Santo.
 
Riconoscerci peccatori significa affermare la nostra condizione di figli chiamati a rendere visibile e sperimentabile il Volto e il Nome di Dio. Avere la coscienza di essere peccatori è la condizione privilegiata per permettere al Signore di stare davanti a noi e svelare il Nome santo, lui che ci purifica con il fuoco dello Spirito perché possiamo andare nel mondo ad esercitare il nostro mandato di testimoni dell’amore e della Parola che abbiamo ricevuta dagli Apostoli. Presentiamo a Dio le nostre povertà interiori di qualunque tipo e specie consapevoli che solo il Signore sa trasformare anche la spazzatura nel Regno del suo amore. Per questo non possiamo avere paura, perché possiamo essere santi perché lui, il nostro Dio è Santo (Lv 11,44.45; 19,2; 20,26; 1Pt 1,16).
 
[congruo esame di coscienza]
 
Signore, tu ci chiami e ci mandi nel mondo della vita a prepararti la strada,             Kyrie, elèison!
Cristo, tu invii lo Spirito di fuoco perché purifichi pensieri, parole e opere,             Christe,elèison!
Signore, tu ci purifichi col fuoco della tua Parola e con la dolcezza dello Spirito,                Pnèuma, elèison!
Cristo, per tutte le volte che abbiamo pescato nulla per pigrizia e rispetto umano,    Christe, elèison!
 
Dio onnipotente che riempie la terra con la Gloria della sua santità e ci parla attraverso i testimoni di ogni tempo e di ogni luogo, che convoca ognuno di noi sulla barca di Pietro per andare a pescare anche contro ogni evidente fallimento, per i meriti  dei santi Apostoli, di Simone e dei Dodici, di Paolo e Luca, ma soprattutto per i meriti infiniti del Figlio dell’uomo, Gesù di Nàzaret, morto e risorto «per tutti», abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. Amen.
 
GLORIA A DIO
nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà. Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti adoriamo,
ti glorifichiamo, ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa, Signore Dio, Re del cielo, Dio Padre onnipotente.
 
Signore, Figlio Unigenito, Gesù Cristo, Signore Dio, Agnello di Dio, Figlio del padre: tu che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi; tu che togli i peccati del mondo, accogli la nostra supplica; tu che siedi alla destra del Padre, abbi pietà di noi.
 
[breve pausa 1-2-3]
 
Perché tu solo il Santo,
tu solo il Signore, tu solo l’Altissimo:
 
[breve pausa 1-2-3]
 
Gesù Cristo con lo Spirito Santo, nella gloria di Dio Padre. Amen.
 
Preghiamo (colletta). Dio di infinita grandezza, che affidi alle nostre labbra impure e alle nostre fragili mani il compito di portare agli uomini l’annunzio del Vangelo, sostienici con il tuo Spirito, perché la tua parola, accolta da cuori aperti e generosi, fruttifichi in ogni parte della terra. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio che è Dio e vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen.
Liturgia della Parola
Prima lettura Is 6,1-2a.3-8. E’ l’anno 740 a.C. Il profeta Isaia partecipa nel tempio di Gerusalemme alla festa dello Yom Kippur (Giorno dell’Espiazione). E’ l’unico giorno dell’anno in cui al sommo sacerdote è permesso di entrare nel Santo dei Santi per il sacrificio dell’incenso. Isaia  immagina di entrare anche lui dietro la tenda di separazione che nasconde le enormi statue dei cherubini, alti 5 metri con le ali spiegate, poste sul coperchio (ebr.: kapporèt) dell’Arca che contiene le tavole della Toràh (cf Es 40,20). Immerso in questa «visione» mistica, il profeta sperimenta nella sua anima la Presenza di Dio che lo convoca per inviarlo ad un popolo «impuro» nonostante i sacrifici di espiazione. Dio entra in scena, annunciato dagli araldi della sua corte celeste, i cui eserciti non sono composti da uomini in armi, ma dalle forze della natura che canta la Gloria di Dio. Il profeta ha coscienza di non potere assolvere alcuna missione se prima non è purificato da Dio stesso con la radicalità del fuoco distrugge il male per restaurare la volontà del bene. Solo a questo punto, il profeta senza più timore, chiede di essere inviato come messaggero. La storia della vocazione di Isaia potrebbe, dovrebbe essere la storia della vocazione di ciascuno di noi.   
 
Dal libro del profeta Isaia Is 6,1-2a.3-8
Nell’anno in cui morì il re Ozìa, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio. Sopra di lui stavano dei serafini; ognuno aveva sei ali. Proclamavano l’uno all’altro, dicendo: «Santo, santo, santo il Signore degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria». Vibravano gli stipiti delle porte al risuonare di quella voce, mentre il tempio si riempiva di fumo. E dissi: «Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti». Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare. Egli mi toccò la bocca e disse: «Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua colpa e il tuo peccato è espiato». Poi io udii la voce del Signore che diceva: «Chi manderò e chi andrà per noi?». E io risposi: «Eccomi, manda me!». - Parola di Dio.
 
Salmo responsoriale138/137, 1-2; 2-3; 4-5; 8. Il salmo è un inno di ringraziamento dopo un favore ricevuto. I vv. 1-3 rendono omaggio a Dio nel desiderio di volerlo lodare nel Tempio. In questa azione di grazia il Salmista coinvolge tutti i re della terra (v. 4) che non possono sottrarsi al fascino del suo Dio, l’unico che merita la fiducia degli uomini. L’Eucaristia che celebriamo è per noi la fonte della nostra proiezione universale e la coscienza che siamo opera delle sue mani (v. 8).
 
Rit.Cantiamo al Signore, grande è la sua gloria.

1. 1 Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore:
hai ascoltato le parole della mia bocca.
Non agli dèi, ma a te voglio cantare,
2 mi prostro verso il tuo tempio santo. Rit.
2. Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà:
hai reso la tua promessa più grande del tuo nome.
Nel giorno in cui ti ho invocato, mi hai risposto,
hai accresciuto in me la forza. Rit.
3. 4 Ti renderanno grazie, Signore, tutti i re della terra,
quando ascolteranno le parole della tua bocca.
5 Canteranno le vie del Signore:
grande è la gloria del Signore! Rit.
4. 8 La tua destra mi salva.
Il Signore farà tutto per me.
Signore, il tuo amore è per sempre:
non abbandonare l’opera delle tue mani. Rit.

Seconda lettura1Cor 15,1-11. I Corinzi che amano la speculazione quasi sofistica, hanno qualche difficoltà ad accettare non solo le modalità della risurrezione, ma anche la stessa risurrezione. Paolo non scende nel campo delle discussioni, ma si appella al kèrigma degli apostoli, cioè invita i Corinzi a purificare i loro pensieri nelle acque del Giordano, alle sorgenti della fede. Sembra che Paolo abbia utilizzato un testo aramaico, probabilmente composto dalla comunità di Gerusalemme e usato come sintesi nella predicazione[4]. Diversi anni dopo la 1a lettera ai Corinzi, Lc scrivendo gli Atti starà molto attento a redigere i discorsi degli Apostoli secondo lo schema che troviamo in questo brano[5]. Il cuore dell’insegnamento di Paolo è che nessuno può inventare nulla perché tutto ciò che siamo lo abbiamo ricevuto da una Tradizione che garantisce i contenuti della stessa fede. E’ un invito per noi oggi a non fare confusioni indebite tra la grande «Tradizione» apostolica e le «tradizioni» minute e piccole degli uomini che spesso impediscono l’accesso alla Parola di Dio (Mt 15,2-5).

 
Dalla prima lettera di Paolo apostolo ai Corinzi 1Cor 15,1-11
Vi proclamo, fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi e dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l’ho annunciato. A meno che non abbiate creduto invano! A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. 10 Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi, ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me. 11 Dunque, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto. - Parola di Dio.
 
Canto al VangeloGv 15,16
Alleluia, alleluia. Venite dietro a me, dice il Signore, / vi farò pescatori di uomini. Alleluia.
 
VangeloLc 5,1-11. Il racconto della «pesca miracolosa» deve essere integrato con quello immediatamente seguente della guarigione del lebbroso (Lc 5,12-16) che la liturgia non riporta, ma che noi aggiungiamo, altrimenti cambia il senso che Lc vuol dare all’insieme del brano da cui emerge con chiarezza che la vocazione di Pietro e compagni è finalizzata alla guarigione degli uomini. Nel brano della pesca, Lc unisce due tradizioni anteriori che in origine erano distinte: la chiamata dei primi discepoli, riportata da Mc 1,16-20 e la pesca miracolosa riportata da Gv 21,1-11. La chiamata non comporta un taglio con la professione precedente, ma la proietta in una prospettiva in avanti. Chi è chiamato non deve custodire un museo immobile e ordinato, ma deve andare in cerca della novità che sta sempre davanti e in alto. La vocazione, qualsiasi vocazione, è una scommessa. Già fin da ora a Pietro viene affidato un ruolo preminente che conserverà fino alla morte. Mentre ascoltiamo la Parola di Dio, verifichiamo fino a che punto «oggi» questa Parola si compie nella nostra vocazione, nel nostro cammino personale. Qual è la mia vocazione?
 
Dal Vangelo secondo Luca Lc 5,1-11 [+12-16]
In quel tempo, mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca.
Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare. Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore». Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; 10 così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». 11 E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.
12Mentre Gesù si trovava in una città, ecco, un uomo coperto di lebbra lo vide e gli si gettò dinanzi, pregandolo: «Signore, se vuoi, puoi purificarmi». 13Gesù tese la mano e lo toccò dicendo: «Lo voglio, sii purificato!». E immediatamente la lebbra scomparve da lui. 14Gli ordinò di non dirlo a nessuno: «Va’ invece a mostrarti al sacerdote e fa’ l’offerta per la tua purificazione, come Mosè ha prescritto, a testimonianza per loro». 15Di lui si parlava sempre di più, e folle numerose venivano per ascoltarlo e farsi guarire dalle loro malattie. 16 Ma egli si ritirava in luoghi deserti a pregare. Parola del Signore.
 
Sentieri di omelia
La liturgia riporta il brano della pesca miracolosa nella versione di Lc, ma per comprenderne il senso secondo il pensiero dell’autore bisogna prolungare la lettura fino al v. 16 e cioè compreso il racconto della guarigione del lebbroso[6]. Solo così si può vedere la struttura letteraria del brano composto appositamente in forma circolare o come si dice solitamente a uncino o a incrocio, dove la prima affermazione combacia con l’ultima, la seconda con la penultima, la terza con la terzultima e così via in forma concentrica fino all’affermazione centrale che sta nel cuore della struttura che qui è appunto la vocazione degli apostoli.  L’autore ha voluto impostare i due racconti in un’unica prospettiva che passa dall’insegnamento di Gesù all’ascolto delle folle, mediante un capovolgimento della situazione (da una notte di fatica senza pesca e una pesca abbondante; dallo stato di lebbra allo stato di guarigione); attraverso le dichiarazioni dei due protagonisti (Cefa e lebbroso). Lo schema è il seguente:
 

A
Lc 5,1-3: Gesù insegna
 
B
Lc 5,4-7: Capovolgimento della situazione: dal pescare niente alla pesca miracolosa (abbondante)
 
C
Lc 5, 8: Dichiarazione di Pietro: «Allontananti da me, perché sono un peccatore»
 
D
Lc 5,10-11: Vocazione apostolica in gruppo
C’
Lc 5,12: Dichiarazione del lebbroso: «Signore, se vuoi, puoi purificarmi»
B’
Lc 5,13: Capovolgimento della situazione: dalla lebbra alla vita, dalla morte alla risurrezione
A’
Lc 5,15-16: Le folle ascoltano

 
Il cuore di questa struttura è il punto «D»: la vocazione apostolica che non è un fatto eclatante, ma un processo che potremmo definire di avvicinamento[7]. Se osserviamo attentamente il comportamento di Gesù, vediamo che non chiama subito Pietro e i suoi colleghi pescatori, ma si muove all’interno di una strategia:
-      Gesù è sul lago di Gennèsaret in mezzo ad una folla grande,
-      la folla fa ressa per ascoltare
-      i pescatori non fanno parte della folla, ma lavorano separati dalla folla che ascolta
-      Gesù coinvolge Pietro in modo esterno: prende in prestito una barca
-      Pietro si coinvolge e si allontana dal suo mondo
-      Gesù coinvolge Pietro imponendogli la scelta di andare a pescare
-      Pietro oppone una resistenza, ma alla fine si fida dell’autorevolezza di Gesù che ordina
-      La pesca è inverosimile: oltre ogni aspettativa
-      Pietro confessa la sua indegnità  
-      Investitura di Pietro
-      Trasformazione di professione: da pescatore di pesci a «cacciante» uomini
-      Coinvolgimento interiore: Pietro e soci seguono Gesù.
Per gli Ebrei come per i semiti in genere il mare è il luogo delle «acque inferiori» ed è la dimora di Satana, la sede dei mostri marini[8] pronti a ghermire la vita degli uomini. E’ arrivato un rabbi che siede su una barca che galleggia scostata da terra. Il mare è dominato, il male è sottomesso. Ora si può pescare con una abbondanza tale che si possono riempire anche due barche. Nella 1Pt 3,19 si dice che dopo morte Gesù «andò ad annunciare la salvezza anche agli spiriti che attendevano in prigione» e che sono coloro che erano stati inghiottiti dalle acque del diluvio. Diventare pescatori di uomini significa condividere con Gesù il salvataggio di tutti coloro che sono oppressi e sottomessi dal male (cf Ger 16,15-16a). Compito della Chiesa è questo: contribuire con tutte le sue forze a salvare l’umanità dal male che è sempre in agguato e la sovrasta. Purtroppo l’espressione «pescatore di uomini» ha finito per assumere nella Chiesa un senso molto ristretto perché riservato a specialisti «missionari» inviati a reclutare gli uomini attraverso il battesimo come marchio di garanzia e di lotta. Da qui la corsa alla conquista del mondo in termini di conversioni, di battezzati, di iscritti alle varie organizzazioni della Chiesa. In altri termini la salvezza dell’umanità passa attraverso il proselitismo.
E’ una concezione molto individualista della religione che finisce per essere clericalismo, perché uno tanto più è missionario quante più persone converte. Il battesimo da premessa dello Spirito santo diventa certificato di appartenenza e ragione di differenziazione. Forse Lc non aveva questa immagine della pesca miracolosa che è un modo orientale per dire che Gesù viene per associare sé e i suoi discepoli nella lotta epr la liberazione dell’umanità. E’ un intervento liberatore che contrasta non il mondo, ma le forze demoniache che voglio dominare il mondo e mettendo gli uni contro gli altri. La visione di Lc è nella prospettiva della «teologia della storia» che significa che Dio agisce e vive e si muove a suo agio solo all’interno della storia degli uomini e delle donne di cui assume la condizione fino in fondo e la solidarietà di lotta. In questo senso per Lc il termine «pesca» è equivoco e può indurre a errate conclusioni. Infatti, pescare significa togliere il pesce dal suo ambiente vitale che è l’acqua e farlo morire, mentre la missione degli apostoli è finalizzata alla liberazione e quindi alla vita.
La risposta la troviamo se accettiamo di scendere più in profondo nel testo lucano che è al sintesi di due tradizioni distinte e testimoniate la prima da Mc 1,16-20 e l’altra da Gv 21,1-11. La tradizione giovannea ci dice che gli apostoli pescarono 153 grossi pesci (Gv 21,11) lasciandoci perplessi di fronte ad una quantità così inverosimile e nello stesso tempo così precisa. Noi sappiamo che ogni volta che in Gv troviamo un dato fuori dell’ordinario, dobbiamo fermarci e domandarci se vuole condurci da qualche parte. Il primo a rendersene conto è Agostino di Ippona che commentando la pesca miracolosa di Gv 21,11 (cf Lc 5,6), ci dice che il numero 153 è simbolico della missione apostolica che deve rivolgersi a tutta l’umanità. Riportiamo in nota il testo alquanto lungo di Agostino, ma è necessario per comprendere il suo ragionamento, ma anche per garantire che il nostro modo di accostare la Scrittura non è campato in aria, ma ha solide basi nella tradizione patristica[9]«bny h’lhym» che si legge: benê Ha’elohîm), vediamo che il valore numero delle lettere che la compongono è esattamente 153 e simboleggia tutta l’umanità[10]. Alla stessa conclusione si arriva se confrontiamo la tradizione sinottica, mettendo a confronto il testo greco di Lc con quello greco di Mc che in italiano la traduzione riporta in forma uguale, mentre in greco ha una piccola, ma decisiva variante:. La stessa idea si concretizza da un altro punto di vista: se prendiamo l’espressione «figli di Dio» in ebraico (
Rif.
Traduzione
Greco
 
Mc 1, 17
vi farò diventare pescatori di uomini
haliêis
halièus – pescatore
 
Lc 5, 10
d’ora in poi sarai pescatore di uomini
zōgrôn
 zōgréō – cacciare prede vive
 
L’evangelista Mc, che non ha una grande padronanza della lingua greca, per descrivere la professione e la missione di Pietro e soci usa sempre lo stesso terminehaliêis (singolare haliêus) che significa «pescatori», coloro cioè che prendono i pesci e li fanno morire fuori dal loro ambiente naturale che è l’acqua. Lc, invece, che conosce bene il greco e nella prospettiva della «teologia della storia» vuole descrivere la chiamata degli apostoli come attività proiettata al bene dell’umanità e quindi alla sua liberazione che è vita, differenzia i termini:
al v. 2 definisce la professione/mestiere con il termine abituale della pesca usato da Mc: haliêis – pescatori,
al v. 10 dove Cristo conferisce la missione di liberazione, Lc modifica il termine, e usa il participio presente attivo del verbo zōgréō/zōgrô che è un verbo tecnico riservato alla caccia con l’arco perché ferisce, ma non uccide come la pesca. La ferita che comporta è il cambiamento come conseguenza della conversione. La lettera agli Ebrei dirà che la «Parola di Dio è una spada affilata a doppio taglio» (12,4). Possiamo tradurre più consapevolmente: «Tu sarai cacciante uomini vivi»[11].
La conferma che la prospettiva del racconto sia questo lo si vede immediatamente dal fatto che segue il racconto del lebbroso guarito che invoca la liberazione dalla sua esclusione civile e religiosa in ragione della sua impurità irreversibile[12]. Gesù compie davanti agli apostoli quella liberazione che aveva poco prima dato come missione. Questa è la novità del vangelo: da una parte gli apostoli sono mandati non nel Tempio, ma nel mondo a sostenere e compiere gli aneliti di libertà, mentre il lebbroso è vive nel non-mondo dell’emarginazione è inviato al sacerdote e quindi al culto perché prenda atto che è finita ogni discriminazione ed esclusione.
La Chiesa è inviata alla storia degli uomini e se resta fuori dagli sforzi degli uomini e dai tentativi di essi di realizzare la liberazione degli uomini e delle donne, qualunque sia la loro condizione e il loro stato, essa viene meno alla sua vocazione di «pescante prede vive». Non esiste un processo di liberazione umano in contrapposizone a quello che può predicare la Chiesa. Ogni tentativo di liberazione è ispirato dallo Spirito, sia che esso abbia l’etichetta della laicità sia che abbia quella della religiosità. Compito della Chiesa oggi e affiancare e riconoscere la presenza dello Spirito nella Storia e rivelare il Nome che vi è inciso a carattere di vita: il Nome di Dio, senza appropriazioni indebite, senza presunzione di avere il monopolio della volontà di Dio che, al contrario va cercata, trovata e condivisa con tutti gli uomini e le donne di buona volontà. La Chiesa missionaria e pescatrice è la chiesa che ha coscienza di essere peccatrice e inviata ad annunciare il vangelo della libertà da ogni forma di schiavitù, anche religiosa.
Significativo il comportamento del Signore che quando può mietere il successo perché ha le folle in mano e potrebbe cavalcare l’onda del populismo, fa un passo indietro e si stacca da tutto per ritirarsi, nella solitudine di se stesso, per pregare, per illimpidirsi lo sguardo e verificare i suoi obiettivi. Egli prega per essere certo di non correre a vuoto e di non correre per se stesso e per il suo tornaconto. Prega per essere libero da se stesso e dalla sua vanagloria.
 
Professione di fede
Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili.
[Pausa: 1-2-3]

Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli. Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero; generato, non creato; della stessa sostanza del Padre; per mezzo di lui tutte le cose sono state create. Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo; e per opera dello Spirito Santo si é incarnato nel seno della Vergine Maria e si é fatto uomo. Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto. Il terzo giorno é risuscitato, secondo le Scritture; é salito al cielo, siede alla destra del Padre. E di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine. [Pausa: 1-2-3]
 
Credo nello Spirito Santo, che é Signore e da la vita, e procede dal Padre e dal Figlio e con il Padre e il Figlio é adorato e glorificato e ha parlato per mezzo dei profeti. [Pausa: 1-2-3]
 
Credo la Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica. Professo un solo battesimo per il perdono dei peccati. Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. Amen.
 
Preghiera universale [intenzioni libere]
 
MENSA EUCARISTICA
Presentazione delle offerte e pace. Entriamo nel Santo dei Santi presentando i doni, ma prima, lasciamo la nostra offerta e offriamo la nostra riconciliazione e concediamo il nostro perdono, senza condizioni, senza ragionamenti, senza nulla in cambio: lasciamo che questa notte trasformi il nostro cuore, fidandoci e affidandoci reciprocamente come insegna il vangelo:
«Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono» (Mt 5,23-24).
 
Solo così possiamo essere degni di presentare le offerte e fare un’offerta di condivisione. Riconciliamoci tra di noi con un gesto o un bacio di Pace perché l’annuncio degli angeli non sia vano.
Scambiamoci un vero e autentico gesto di pace nel Nome del Dio della Pace.
 
[La benedizione sul pane e sul vino è tratta dal rituale ebraico]
 
Benedetto sei tu, Signore, Dio dell’universo; dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane e questo vino, frutto della terra, della vite e del lavoro dell’uomo e della donna; lo presentiamo a te, perché diventi per noi cibo di vita eterna.                         Benedetto nei secoli il Signore.
 
Preghiamo perché il nostro sacrificio sia gradito a Dio, Padre onnipotente.
Il Signore riceva il sacrificio a lode e gloria del suo nome, per il bene nostro e di tutta la sua santa Chiesa.
 
Preghiamo (sulle offerte).Il pane e il vino che hai creato, Signore, a sostegno della nostra debolezza, diventino per noi sacramento di vita eterna. Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
PREGHIERA EUCARISTICA II (detta di Ippolito, prete romano del sec. II)
Prefazio degli Apostoli II: La Chiesa fondata sugli Apostoli e sulla loro testimonianza
 
Il Signore sia con voi.                         E con il tuo spirito.   
 5la domeni perché io sono santoe e la fonte dell' gli uomini, anche in modo inperfetto, nonmigliare a Dio bell'à religioso accIn alto i nostri cuori.    Sono rivolti al Signore.
Rendiamo grazie al Signore, nostro Dio.                    E’ cosa buona e giusta.
 
E’veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e in ogni luogo a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno, per Cristo Signore nostro.
Santo, Santo, Santo, il Signore degli eserciti. Tutta la terra è piena della sua gloria. Osanna nei cieli (Is 6,3).
 
Tu hai stabilito la tua Chiesa sul fondamento degli Apostoli, perché sia, attraverso i secoli, segno visibile della tua santità, e in nome tuo trasmetta agli uomini le verità che sono via al cielo.
La tua voce, Signore, chiamò il profeta e Isaia rispose: «Eccomi, manda me!» (Is 6,8).
Per questo mistero di salvezza, uniti a tutti gli angeli, proclamiamo nel canto la tua gloria:
Benedetto nel Nome del Signore colui che viene. Kyrie, eleison, Christe, elèison, Pnèuma, elèison!

Padre veramente santo, fonte di ogni santità, santifica questi doni con l’effusione del tuo Spirito perché diventino per noi il corpo e il sangue di Gesù Cristo nostro Signore.
Ti rendiamo grazie, Signore, con tutto il cuore: tu ascolti l’Assemblea orante (cf Sal138/137, 1).
 
Egli, offrendosi liberamente alla sua passione, prese il pane e rese grazie, lo spezzo, lo diede ai suoi discepoli, e disse:  PRENDETE, E MANGIATENE TUTTI: 
QUESTO É IL MIO CORPO OFFERTO IN SACRIFICIO PER VOI.
Per il tuo amore e la tua fedeltà rendiamo grazie al tuo Nome che è il Signore Gesù  (cf Sal 138/137, 2).
 
Dopo la cena, allo stesso modo, prese il calice e rese grazie, lo diede ai suoi discepoli, e disse:
PRENDETE, E BEVETENE TUTTI: QUESTO É IL CALICE DEL MIO SANGUE PER LA NUOVA
ED ETERNA ALLEANZA, VERSATO PER VOI E PER TUTTI IN REMISSIONE DEI PECCATI.
Il calice della benedizione che noi benediciamo, è comunione con il sangue di Cristo? (cf 1Cor 10,16).
 
FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME.
Trasmettiamo quello che anche noi abbiamo ricevuto e cioè che Cristo morì per i nostri peccati, fu sepolto ed è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e apparve a Cefa e ai Dodici (cf 1Cor 15,3-5).
 
MISTERO DELLA FEDE.
Celebriamo la tua morte e risurrezione, attendiamo il tuo ritorno. Maràn, athà! Vieni, Signore!
 
Celebrando il memoriale della morte e risurrezione del tuo Figlio, ti offriamo, Padre, il pane della vita e il calice della salvezza, e ti rendiamo grazie per averci ammessi alla tua presenza a compiere il servizio sacerdotale.
Non abbandonare, Signore, l’opera delle tue mani che il tuo Cristo ha redento con la santa croce (cf Sal 138/137,8).
 
Ti preghiamo: per la comunione al corpo e al sangue di Cristo lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo.
Per la grazia del Signore Gesù siamo quello che siamo, e la sua grazia in noi non è stata vana (1Cor 15,10).
 
Ricordati, Padre, della tua Chiesa diffusa su tutta la terra: rendila perfetta nell’amore in unione con il Papa Benedetto, il Vescovo Angelo, le persone che amiamo e che vogliamo ricordare… e tutto l’ordine sacerdotale che è il popolo dei battezzati.
IL Signore ha detto a Simone di prendere il largo e di gettare le reti, e sul suo esempio anche noi gettiamo le reti sulla tua Parola per  trovare il Pane della misericordia e il vino della gioia (cf Lc 5,4).
 
Ricordati dei nostri fratelli, che si sono addormentati nella speranza della risurrezione e di tutti i defunti che affidiamo alla tua clemenza…. ammettili a godere la luce del tuo volto.
Come Pietro, anche se fatichiamo senza apparenti risultati, noi ci abbandoniamo sulla tua Parola e riceviamo il Pane della vita che discende dal cielo (Lc 5,5).
 
Di noi tutti abbi misericordia: donaci di aver parte alla vita eterna, insieme con la beata Maria, Vergine e Madre di Dio, con gli apostoli e tutti i santi, che in ogni tempo ti furono graditi: e in Gesù Cristo tuo Figlio canteremo la tua gloria.
Il Signore Gesù disse a Simone: “Non temere; d’ora in poi sarai cacciante persone vive”. Tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono»(Lc 5,10-11).
 
Dossologia[è il momento culminante dell’Eucaristia: il vero offertorio]
 
Per Cristo, con Cristo e in Cristo,  a te, Dio Padre onnipotente,  nell’unità dello Spirito Santo,  ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli. Amen.
 
Padre nostro in aramaico: Idealmente riuniti con gli Apostoli sul Monte degli Ulivi, preghiamo, dicendo:
 

Padre nostro che sei nei cieli

Avunà di bishmaià
sia santificato il tuo nome
itkaddàsh shemàch
venga il tuo regno
tettè malkuttàch
sia fatta la tua volontà
tit‛abed re‛utach
come in cielo così in terra
kedì bishmaià ken bear‛a.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano
Lachmàna av làna sekùm iom beiomàh
e rimetti a noi i nostri debiti
ushevùk làna chobaienà
come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori
kedì af anachnà shevaknà lechayabaienà
e non abbandonarci alla tentazione
veal ta‛alìna lenisiòn
ma liberaci dal male.
ellà pezèna min beishià. Amen!

 
Antifona alla comunione Lc 3,5
“Maestro, tutta la notte abbiamo faticato invano, ma sulla tua parola getterò la rete”.
 
Dopo la comunione
DaMartin Buber, I racconti dei Chassidim (Fonte:Da Giorno per giorno - 28 Gennaio 2007, Lettera della fraternità del Goiàs-Brasile)
 
«Il giovane Sussja[13] era un giorno in casa del suo maestro, il grande Rabbi Bär, quando un uomo si presentò a questo e lo pregò di consigliarlo e aiutarlo in una impresa. Ma Sussja, vedendo che quell’uomo era pieno di peccato e non toccato da pentimento, si adirò e lo rimproverò dicendogli: “Come può uno come te, che ha commesso questo e quel misfatto, ardire di presentarsi al cospetto di un santo, senza vergogna né desiderio di penitenza?”. L’uomo se ne andò senza dir nulla, ma Sussja si pentì subito di quanto aveva detto, e non sapeva che fare. Allora il suo maestro lo benedisse: Che d’ora in poi egli vedesse negli uomini soltanto il bene, anche se peccavano sotto i suoi occhi. Ma poiché il dono di vedere che era stato concesso a Sussja non poteva essergli ritolto da nessuna parola d’uomo, avvenne che da quell’ora in poi egli sentisse le cattive azioni degli uomini che incontrava come se fossero proprie e se ne attribuisse la colpa. Quando il Rabbi di Rižin raccontava questo di Rabbi Sussja, aggiungeva ogni volta: “E se noi tutti fossimo in questa disposizione, allora il male sarebbe già annientato e la morte inghiottita e la perfezione raggiunta”».
 
Preghiamo O Dio, che ci hai resi partecipi di un solo pane e di un solo calice, fa’ che uniti al Cristo in un solo corpo portiamo con gioia frutti di vita eterna per la salvezza del mondo. Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
Benedizione e saluto finale
Il Signore che i cieli non possono contenere sia con voi.                   E con il tuo spirito.
Il Signore che è tre volte Santo ci riempia della sua Gloria e ci purifichi col fuoco dello Spirito.    
Il Signore che ci dona la grazia dello Spirito, guidi i nostri passi sulle strade del mondo.
Il Signore che ammaestra le folle dalla barca della Chiesa, ci ha convocati alla mensa dell’ascolto.
Il Signore che ci chiama ad essere «pescanti persone vive» ci rafforza nella nostra fede.         
Il Signore sia sempre davanti a voi per guidarvi.                                                                  
Il Signore sia sempre dietro di voi per difendervi dal male.          
Il Signore sia sempre accanto a voi per confortarvi e consolarvi.
Ci benedica il Signore dal cielo e ci dono la sua Pace e il suo Agàpē.
 
E la benedizione dell’onnipotente tenerezza del Padre e del Figlio
e dello Spirito Santo, discenda su di voi e con voi rimanga sempre.                                                 Amen!
 
La messa come rito «è compiuta» nella testimonianza della vita. Andiamo incontro al Signore nella storia.
Nella forza dello Spirito Santo rendiamo grazie a Dio e viviamo nella sua Pace.
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© Nota: Domenica 5a del Tempo Ordinario –C, Parrocchia di S. Maria Immacolata e San Torpete – Genova
L’uso di questo materiale è libero purché senza lucro e a condizione che se ne citi la fonte bibliografica
Genova, Paolo Farinella, prete 04/02/2010 – San Torpete – Genova
 
 
DAL PICCOLO PRINCIPE (A. Saint-Exupéry de, Il piccolo principe, Gruppo editoriale Fabbri, Bompiani, Sozogno, Etas S.p.a., Milano 198511, 91-98).
«In quel momento apparve la volpe. “Buon giorno”, disse la volpe.”Buon giorno”, rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide nessuno. “Sono qui”, disse la voce, “sotto al melo….”. “Chi sei?” domandò il piccolo principe, “ sei molto carino…”. “Sono la volpe”, disse la volpe. “ Vieni a giocare con me”, disse la volpe, “non sono addomesticata”. “Ah! scusa “, fece il piccolo principe. Ma dopo un momento di riflessione soggiunse: “ Che cosa vuol dire addomesticare?”. “ Non sei di queste parti, tu”, disse la volpe” che cosa cerchi?”. “ Cerco gli uomini”, disse il piccolo principe. “ Che cosa vuol dire addomesticare?”….“ Tu, fino ad ora per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo”. “Comincio a capire”, disse il piccolo principe.
“C’è un fiore…. Credo che mi abbia addomesticato…”. “E’ possibile”, disse la volpe “capita di tutto sulla terra…”… “ Non c’è niente di perfetto”, sospirò la volpe. “ La mia vita è monotona... E io mi annoio per ciò. Ma se tu mi addomestichi la mia vita, sarà come illuminata. Conoscerò il rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi faranno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica… Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano…”. La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe: “ Per favore …..addomesticami”, disse. “ Volentieri”, rispose il piccolo principe, “ ma non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici e da conoscere molte cose”.
Non si conoscono che le cose che si addomesticano”, disse la volpe. “Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!”. “ Che bisogna fare?” domandò il piccolo principe. “ Bisogna essere molto pazienti”, rispose la volpe. “ In principio tu ti sederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino….”. Il piccolo principe ritornò l’indomani. “Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora”, disse la volpe. “Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi, alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore… Ci vogliono i riti”. “Che cos’è un rito?” disse il piccolo principe. “Anche questa è una cosa da tempo dimenticata”, disse la volpe. “E’ quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore…
Così il piccolo principe addomesticò la volpe. E quando l’ora della partenza fu vicina: “Ah!” disse la volpe, “…Piangerò”. “ La colpa è tua”, disse il piccolo principe, “Io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…”. “ E’ vero”, disse la volpe. “ Ma piangerai!” disse il piccolo principe. “ E’ certo”, disse la volpe. “ Ma allora che ci guadagni?”. “ Ci guadagno”, disse la volpe, “ il colore del grano”. Soggiunse:“ Va a rivedere le rose. Capirai che la tua è unica al mondo”. “Quando ritornerai a dirmi addio ti regalerò un segreto”… “ Addio”, disse. “Addio”, disse la volpe. “Ecco il mio segreto. E’ molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”. “
L’essenziale è invisibile agli occhi”, ripeté il piccolo principe, per ricordarselo. “ E’ il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”. “E’ il tempo che ho perduto per la mia rosa…” sussurrò il piccolo principe per ricordarselo. “ Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa…” . “ Io sono responsabile della mia rosa….” Ripetè il piccolo principe per ricordarselo»
 
Appendice: Il Tempio di Gerusalemme
Il Tempio (in ebraico bet ha-mikdash (Casa della santità/Sacro Palazzo)[14] era l’edificio ufficiale in cui aveva luogo il culto sacrificale del popolo ebraico. Costruito sulle due colline di Gerusalemme ed era officiato da sacerdoti e dai leviti.
Secondo la tradizione, il Primo Tempio fu concepito da re Davide, ed edificato dal figlio Salomone per sostituire il tabernacolo (fatto erigere da Mosè in forma di tenda), utilizzando angeli e demoni per la sua costruzione e tagliando la pietra con l’aiuto dello "Shamir", un verme capace di spaccare le rocce. Salomone piantò anche nel cortile del Tempio degli alberi che davano frutti d’oro. Questo Primo Tempio, detto anche Tempio di Salomone, fu distrutto nel 586 a.C. dal babilonese Nabucodonosor. La tradizione ebraica spiega che Dio permise la distruzione del Primo Tempio a causa dei peccati del popolo ebraico: la violenza, le unioni proibite e l’idolatria.

Frammento di un’iscrizione in greco che avvertiva, sotto pena di morte, di non penetrare nell’atrio interno del Tempio (Dissotterrata accanto alla Porta dei Leoni nel 1935)

Il tempio fu poi ricostruito da Esdra e Neemia dopo l’editto del persiano Ciro il Grande nel 538. Si tratta del cosiddetto secondo Tempio che fu distrutto dai Romani nell’anno ‘70 dopo la prima rivolta giudaica del ‘66.
Ambedue le distruzioni avvennero il 9 del mese ebraico di Av, che per gli ebrei è diventato un giorno di lutto e di digiuno.
Dentro al Tempio, nel Santo dei Santi o Debhìr c’era la pietra di fondazione del mondo, la even shetiyyah su cui posava l’ Arca dell’alleanza. Immagini dei cherubini ad altezza d’uomo erano intessute sulla tenda che copriva il Santo dei Santi ed erano anche scolpite sulle porte del tempio. Due statue grandi erano poggiate sul coperchio dell’Arca, detto kapporèt.
Quando gli ebrei vedono per la prima volta (oppure dopo un intervallo di trenta giorni) lo spazio in cui sorgeva il Tempio, devono lacerarsi i vestiti. In memoria della sua distruzione, essi devono lasciare priva di decorazioni una parte dei muri della loro casa. Nei matrimoni ebraici si usa rompere un bicchiere per ricordare che anche nelle cerimonie più gioiose non bisogna dimenticare che la piena felicità del popolo ebraico sarà raggiunta solo con l’inaugurazione del Terzo Tempio di Gerusalemme.
All’epoca di Gesù esso era stato completamente rifatto da Erode il Grande, che aveva iniziato i lavori di restauro e ampliamento nel 20-19 a.C., e aveva terminato nel giro di un anno e mezzo il Tempio vero e proprio, rispettando il disegno tradizionale salomonico; ma i lavori sulle parti restanti terminarono solo nel 64 d.C., pochi anni prima della sua definitiva distruzione da parte dell’esercito del generale romano Tito. I vangeli fanno allusione alla lunghezza di questi lavori, ed all’imponenza delle opere realizzate. Sebbene quello di Erode fosse in realtà il terzo edificio, esso è considerato tradizionalmente come facente parte dell’epoca del secondo Tempio, considerandolo moralmente tutt’uno col Tempio dei reduci dall’esilio babilonese. Non è facile ricostruire quale fosse la disposizione precisa dei vari edifici, ma la struttura generale del santuario ci è nota.

 

L’intero complesso misurava circa 121.000 metri quadri, circondato da un muro che correva per 256×288×430×443 metri. Sul lato nord il tempio era collegato con la Fortezza Antonia, costruita da Erode sulle rovine di una precedente torre, e a sud est si trovava il famoso Pinnacolo di cui parlano i vangeli (Mt 4,5; Lc 4,9).
Lungo il perimetro esterno vi erano ingressi, ciascuno con un nome: Porta nord, Porta dorata (ad est), Porta delle pecore, ecc. Tra tutte le porte la più importante era la Porta dorata sulla valle del Cedron e dirimpetto al Monte degli Ulivi, da cui sarebbe entrato il Messia. L’ingresso principale si trovava a sud ed era preceduto da un locale per le abluzioni rituali (mikveh), costituito da una grande gradinata con due porte, una doppia e una tripla. L’atrio era formato da portici e gallerie coperte che percorrevano tutto il lato esterno dell’edificio; quello sul lato sud, appunto, era detto Portico regio, mentre quello a est si chiamava Portico di Salomone (Gv. 10,23; At. 3,11), e guardava sul torrente Cedron.
Attraversati i portici, ci si ritrovava nell’ampio Atrio dei Gentili, uno spiazzo accessibile anche ai pagani, occupato da cambiavalute, venditori di animali per i sacrifici, visitatori (Gv 2,14; Mc 11,15), maestri della legge (Gv. 18,19); tutti gli stranieri che giungevano a Gerusalemme non mancavano di visitare il Tempio, di cui il Talmud scriverà: «Colui che non ha visto il Tempio di Erode in vita sua, non ha mai visto un edificio maestoso»[15].

Mappa del Tempio di Gerusalemme

Al centro dell’Atrio dei Gentili, si ergeva un luogo sopraelevato, separato dal resto con una balaustra di pietra che segnava il limite oltre il quale pagani e incirconcisi non potevano avanzare. Numerose iscrizioni in greco e latino ammonivano gli stranieri. Nel 1871 l’archeologo CLERMONT – GANNEAU ne ha scoperto una che recita in greco: «Nessuno straniero metta piede entro la balaustrata che sta attorno al Tempio e nel recinto. Colui che vi fosse sorpreso, sarà la causa per se stesso della morte che ne seguirà»[16].
 
Superata la balaustrata, si entrava in un altro atrio, al quale si accedeva tramite nove porte; la più nota era la Porta bella, ove stazionavano numerosi mendicanti in attesa di elemosina (At 3,2), che introduceva nell’Atrio delle donne, così chiamato perché ad esse non era permesso superarlo. Quest’area più interna e circoscritta, separava i giudei dai pagani, ed era una sorta di luogo d’incontro; in esso si raccoglievano anche le offerte per la tesoreria del Tempio, amministrata dai Leviti, in recipienti a forma di corno (Mc. 12,42-44). Sui quattro angoli, c’erano dei locali separati: il deposito della legna, dell’olio e del vino, la camera dei Nazirei e quella per l’ispezione dei lebbrosi.
Tramite la Porta di Nicanore, il luogo ove le madri offrivano il sacrificio dopo la nascita del loro primogenito (Lc. 2,22), si accedeva all’Atrio degli Israeliti da cui, superato il parapetto che introduceva all’Atrio dei Sacerdoti, dove si trovava il grande Altare degli olocausti, costruito di pietra grezza mai toccata da strumenti metallici, con gli angoli decorati con protuberanze a forma di corno e collocato di fronte all’entrata del Tempio propriamente detto, ed il deposito dell’acqua formato da una enorme vasca detta «il mare».
Qui cominciava il tempio vero e proprio, la parte più interna dopo il cortile dei sacerdoti e del sacrificio che si divideva in tre parti: ‘ulàm (portico), Hêkàl (palazzo, nave, santuario) o Santo a cui si accede tramite dodici gradini che introducono all’altare dei profumi (Lc. 1,9) in legno di acacia rivestito di ori, ove si offriva due volte al giorno una speciale mistura di aromi (Es. 30,1-10 e 34-36; 37,25-28. È l’incenso che offre Zaccaria in Lc 1,9), la tavola dei pani della proposizione (Es. 25,23-30; 37,10-16; 40,22) ed il candelabro aureo a sette braccia (menorah), con ornamenti a fior di mandorlo, sul quale ardevano lampade ad olio. Infine vi è il  Debhìr (oracolo) o Santo dei Santi, un locale cubico di nove metri di lato, spoglio e senza finestre, che è la parte più interna e sacra di tutto il tempio. Qui vi era la pietra enorme detta pietra di fondazione del mondo (eben shatiyàh) dove era poggiata l’arca dell’alleanza con accanto il bastone di Mosè, una anfora con l’acqua del Mare Rosso e un’altra con la manna. Qui il sommo sacerdote entrava una sola volta l’anno, in occasione della festa del Kippur (Lv 16, 2-12; Eb 9,7).
Dopo che l’arca dell’alleanza era scomparsa con la presa di Gerusalemme del 587, il Sancta Sanctorum era vuoto.
 
Fonte parziale: http://www.christianismus.it/sezgiudaismo/doc0015/pgtempio.html , con integrazioni dell’autore.
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© Nota: Supplemento a Dom. 5a Ord. CParrocchia di S. Maria Immacolata e San Torpete – Genova
L’uso di questo materiale è libero purché senza lucro e a condizione che se ne citi la fonte bibliografica
Genova, Paolo Farinella, prete 07/02/2010 – San Torpete – Genova


[1] Per la descrizione del tempio v. più sotto Appendice.
[2] In ebr. kapporèt, in gr. hylastèrion chiudeva di sopra l’arca e aveva attorno le scanalature per farvi scorrere il sangue dell’espiazione (Ex 25; Lv 16; Heb 9,4-5). 
[3] In greco il termine «pollòi» ha il valore non di «molti» ma di «tutti», avendo in sé l’idea della «moltitudine» senza numero e confine perché deriva nel suo substrato dall’ebraico «harabbîm» che significa «moltitudine/abbondanza/copiosità» nel senso di totalità innumerabile. La Congregazione vaticana per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, a firma del suo presidente card. Franzis Arinze, invia una lettera ai vescovi datata Roma 17 ottobre 2006 (Prot. n. 467/05/L.) dal titolo «La traduzione dell’espressione “pro multis”», nella quale si invitano le conferenze episcopali a modificare «nei prossimi uno o due anni» le parole della consacrazione del calice «sparso per voi e per tutti» in «sparso per voi e per molti», motivando questa scelta «per essere più fedeli ai testi latini delle edizioni tipiche». E’ evidente a tutti che questa inversione di tendenza non è di poco conto perché fa parte di una strategia del pontificato di transizione di Benedetto XVI, il quale sembra impegnare il papa a sostegno delle tesi teologiche del teologo Joseph Ratzinger nel tentativo di riportare la Chiesa su posizioni preconciliari.
[4] Cf B. Iersel, van, «Saint Paul et la prédication de l’Église primitive», in An Bibl 17-18, I, 433-441.
[5] Cf At 2,22-36; 3,15-26; 4,8-12; 5,30-32; 10,39-43; 13,27-41).
[6] E’ il problema anche del nuovo lezionario, che abbiamo più volte posto e che continueremo a porre perché è in gioco il senso della Scrittura. Il liturgista non può dividere il testo in brani a senso per dare un significato «altro», ma deve tenere conto del contesto e del senso che intende dare l’autore. Diversamente si deforma la Parola di Dio. E’ evidente che qui si voglia mettere in evidenza la caratteristica «spirituale» della vocazione degli apostoli, avulsa dalla sua connessione logica con la sua missione di «liberazione» dalle malattie e quindi di condivisione con la natura umana coloro a cui sono inviati. Bisogna stare attenti perché spiritualizzare troppo può anche significare deformare e negare la realtà, oltre che la Parola.
[7] Cf A. Saint-Exupéry de, Il piccolo principe, Gruppo editoriale Fabbri, Bompiani, Sozogno, Etas S.p.a., Milano 198511, 91-98: v. testo riportato in appendice, più sotto.
[8] Gen 1,21; 7,17-24; Sal 74/73,13.23-24; Gb 38,16-17; Gn 2,2-4; Ap 9,1-3; 13,1; 20,3.
[9] «Il numero preciso è centocinquantatré. Dobbiamo, con l’aiuto del Signore, spiegare il significato di questo numero… Volendo esprimere la legge mediante un numero, qual è questo numero se non dieci? Sappiamo con certezza che il Decalogo, cioè i dieci comandamenti furono per la prima volta scritti col dito di Dio su due tavole di pietra (cf. Dt 9, 10). Ma la legge, senza l’aiuto della grazia, ci rende prevaricatori, e rimane lettera morta. E’ per questo che l’Apostolo dice: La lettera uccide, lo Spirito vivifica (2 Cor 3, 6). Si unisca dunque lo spirito alla lettera, affinché la lettera non uccida coloro che non sono vivificati dallo spirito; ma siccome per poter adempiere i comandamenti della legge, le nostre forze non bastano, è necessario l’aiuto del Salvatore. Quando alla legge si unisce la grazia, cioè quando alla lettera si unisce lo spirito, al dieci si aggiunge il numero sette. Il numero sette, come attestano i venerabili documenti della sacra Scrittura, è il simbolo dello Spirito Santo… E dov’è che per la prima volta nella legge si parla di santificazione, se non a proposito del settimo giorno? Dio infatti non santificò il primo giorno in cui creò la luce, né il secondo in cui creò il firmamento, né il terzo in cui separò il mare dalla terra e la terra produsse alberi e piante, né il quarto in cui furono create le stelle, né il quinto in cui Dio fece gli animali che si muovono nelle acque e che volano nell’aria, e neppure il sesto in cui creò gli animali che popolano la terra e l’uomo stesso; santificò, invece, il settimo giorno, in cui egli riposò dalle sue opere (cf. Gn 2, 3). Giustamente, quindi, il numero sette è il simbolo dello Spirito Santo. Anche il profeta Isaia dice: Riposerà in lui lo Spirito di Dio; passando poi ad esaltarne l’attività e i suoi sette doni, dice: Spirito di sapienza e d’intelletto, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di scienza e di pietà, e lo riempirà dello spirito del timore di Dio (Is 11, 2-3). E nell’Apocalisse non si parla forse dei sette spiriti di Dio (cf. Ap 3, 1), pur essendo unico e identico lo Spirito che distribuisce i suoi doni a ciascuno come vuole (cf 1 Cor 12, 11)? Ma l’idea dei sette doni dell’unico Spirito è venuta dallo stesso Spirito, che ha assistito lo scrittore sacro perché dicesse che sette sono gli spiriti. Ora, se al numero dieci, proprio della legge, aggiungiamo il numero sette, proprio dello Spirito Santo, abbiamo diciassette. Se si scompone questo numero in tutti i numeri che lo formano, e si sommano tutti questi numeri, si ha come risultato centocinquantatré: se infatti a uno aggiungi due ottieni tre, se aggiungi ancora tre e poi quattro ottieni dieci, se poi aggiungi tutti i numeri che seguono fino al diciassette otterrai il risultato sopraddetto; cioè se al dieci, che hai ottenuto sommando tutti i numeri dall’uno al quattro, aggiungi il cinque, ottieni quindici; aggiungi ancora sei e ottieni ventuno; aggiungi il sette e avrai ventotto; se al ventotto aggiungi l’otto, il nove e il dieci, avrai cinquantacinque; aggiungi ancora undici, dodici e tredici, e sei a novantuno; aggiungi ancora quattordici, quindici e sedici, e avrai centotrentasei; e se a questo numero aggiungi quello che resta, cioè quello che abbiamo trovato all’inizio, il diciassette, avrai finalmente il numero dei pesci che erano nella rete. Non si vuol dunque indicare, col centocinquantatré, che tale è il numero dei santi che risorgeranno per la vita eterna, ma le migliaia di santi partecipi della grazia dello Spirito Santo… Questo numero è, per di più, formato da tre volte il numero cinquanta con l’aggiunta di tre, che significa il mistero della Trinità; il cinquanta poi è formato da sette per sette più uno, dato che sette volte sette fa quarantanove. Vi si aggiunge uno per indicare che è uno solo lo Spirito che si manifesta attraverso l’operazione settenaria; e sappiamo che lo Spirito Santo fu mandato sui discepoli, che lo aspettavano secondo la promessa che loro era stata fatta, cinquanta giorni dopo la risurrezione del Signore [cf At 2, 2-4; 1, 4]» (In Iohannem, Hom. 122, 7-8 (CCL, 36, 671). Agostino espone lo stesso concetto, in modo più sintetico, in Sermones, 270,7 (PL, XXXVIII, 1244): «Che cosa significa allora il numero centocinquantatré?…Questo numero è come un albero e sembra svilupparsi come da un seme. E il seme di questo grande numero è un certo numero più piccolo che è il diciassette. Il diciassette genera il centocinquantatré, se conti da uno a diciassette e addizioni tutti i numeri. Se non addizioni tutti i numeri che pronunzi [contando] da uno a diciassette, non avrai che diciassette. Se invece conti così: uno, due, tre; uno più due più tre fanno sei, sei più quattro più cinque fanno quindici; quando arrivi fino a diciassette ti riporterà sulle dita il numero centocinquantatré» (Per una più ampia illustrazione sul valore dei numeri o ghematrìa cf P. Farinella, «Sulla corda ottava incontro al Messia. Simbolismo cristologico del numero «8» nella Bibbia  e nella tradizione giudaico-cristiana», in La Sapienza della Croce [SapCc 21 (2004) 129-171]).
[10] J. A. Romeo, «Ghematrìa and John 21:11 – The Children of God», in Journal of Biblical Literature 97 [1978] 263-264).
[11] Se ne accorge anche la Bibbia della Cei nella revisione del 1997 che più puntualmente traduce Lc 5,10 con «D’ora in poi saranno uomini quelli che prenderai», mentre l’ultima edizione (2008) ritorna al vecchio «sarai pescatore di uomini». Il verbo zōgréō/zōgrô ricorre solo un’altra volta in tutto il NT: in 2Ti 2,26 dove si parla dell’atteggiamento del credente che deve testimoniare in modo tale che gli oppositori prendano coscienza della necessità della conversione e quindi si aprano al vangelo della liberazione: «[gli oppositori] ritornino in sé sfuggendo al laccio del diavolo, che li ha presi nella rete perché facessero la sua volontà» (Bibbia Cei 1974). Le due ultime revisioni della Bibbia-Cei (1997 e 2008) invece traducono: « [quelli che si mettono contro] rientrino in se stessi, liberandosi dal laccio del diavolo, che li tiene prigionieri perché facciano la sua volontà». In tutti e due i testi permane l’idea della caccia a prede vive.
[12] Lv 13 stabilisce la minuziosa casistica a riguardo della lebbra(diagnosi, isolamento e riammissione). Al tempo di Gesù i lebbrosi dovevano portare un campanello legato al piede per impedire eventuali incontri con altri non lebbrosi. Non potevano avvicinarsi all’abitato, ma erano costretti a vivere ai margini in grotte o immondezzai. Il lebbroso di cui parla Lc rompe i divieti e con coraggio si presenta a Gesù, chiedendo la piena liberazione. Il miracolo ha lo scopo di mettere in pratica la missione appena affidata a Cefa e agli altri.
[13] Il rabbino Meshulam Sussja era nato nel 1718 nei pressi di Tarnow, in Galizia nell’attuale Polonia e fu discepolo di Rabbi Dov Bär, il grande Magghid (predicatore) di Mesritsch e fratello di Rabbi Elimelech di Lisensk. Sussja fu uno dei primi maestri del chassidismo. Raccontano che, nonostante frequentasse volonterosamente le lezioni del Magghid, non riuscì mai a seguirne una, perché quando il Maestro prendeva il passo della Scrittura che intendeva commentare e cominciava con le parole: “E Dio disse”, Sussja era subito rapito fuori di sé e cominciava a muoversi e a saltare così selvaggiamente che bisognava condurlo fuori dall’aula, calmandosi solo quando la lezione giungeva alla fine. Tanta era la passione per il solo nome di Dio. Fu sempre uomo semplice, modesto e pieno di misericordia con tutti. Alla morte del Magghìd, fu ad abitare ad Hanipol, dove una cerchia di discepoli si riunì intorno a lui. La comunità si ampliò, quando, alla morte del fratello Elimelech, molti dei discepoli di quest’ultimo lo scelsero come loro rabbi. Alla sua morte, i due figli gli successero come maestri chassidici. I suoi insegnamenti sono raccolti nel Menorat Zahav (Il candelabro d’oro). Lasciò detto: “Nel mondo a venire non mi si chiederà: Perché non sei stato Mosé o Abramo? Mi si chiederà: ‘Perché non sei stato Sussja?”. A significare l’irripetibilità della vocazione a cui ciascuno di noi è chiamato. Morì il 28 gennaio 1800 (2 Shevat 5560 per il calendario ebraico). Sulla sua tomba furono scritte queste parole: “Uno che servì Dio in amore, che si rallegrò delle sofferenze, che strappò molti al peccato”
[14] Era chiamato anche con altri nomi, tra i quali «Libano» perché costruito con i cedri di questi paese.
[15] «Questo Tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?» (Gv 2,20). «Mentre usciva dal tempio, uno dei suoi discepoli gli disse: “Maestro, guarda che pietre e che costruzioni!”. Gesù gli rispose: “Vedi queste grandi costruzioni? Non sarà lasciata qui pietra su pietra che non venga distrutta”» (Mc 13,1-2).
[16] Edizione a cura di Clermont–Ganneau in «Revue Archéologique» XXIII (1872), 214-234. Cf E. Gabba, Iscrizioni greche e latine per lo studio della Bibbia, Casale, 1958, 83-86.


Giovedě 04 Febbraio,2010 Ore: 16:42
 
 
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