- Scrivi commento -- Leggi commenti ce ne sono (0)
Visite totali: (295) - Visite oggi : (1)
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori Sostienici!
ISSN 2420-997X

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito

www.ildialogo.org Domenica 25a per annuum – B – 20 settembre 2009,di Paolo Farinella, prete

Domenica 25a per annuum – B – 20 settembre 2009

di Paolo Farinella, prete

Domenica 25a per annuum – B
– 20 settembre 2009 –
Il brano del vangelo di Mc che la liturgia propone oggi (Mc 9, 30-37) e quello di domenica prossima (Mc 9, 29-36 + i vv. 38-50) corrispondono al 4° discorso programmatico di Gesù che Mt organizza più dettagliatamente nel capitolo 18: «il discorso sulla comunità ecclesiale». Sia Mc che Mt da prospettive diverse descrivono le relazioni all’interno della comunità credente che non è un’assemblea d’interessi economici o politici o sociali e nemmeno una riunione di individui omogenei appartenenti a «gruppi corporativi». La comunità ha una sola caratteristica: è stata convocata dallo Spirito Santo che riunisce i «singoli» attorno al Cristo che tutti insieme riconoscono come loro Signore, Creatore e Redentore. E’ lui il fondamento, è lui la ragione (il Lògos), è lui la prospettiva o la speranza. I gruppi o le comunità umane si basano o si dovrebbero basare sul principio della democrazia, in forza della quale la maggioranza legittima decide. Alla comunità ecclesiale non si possono applicare i criteri dei raggruppamenti sociologici perché essa si fonda sul principio della «comunione nella verità» per cui, dopo ampia discussione può prevalere il parere della minoranza oppure anche della singola persona se essi sono più consoni al criterio evangelico. Una comunità cristiana si fonda sul criterio del discernimento per scoprire la densità dello Spirito in essa presente.
La prima lettura riflette le difficoltà della testimonianza in un mondo ostile come poteva essere Alessandria d’Egitto, animata dallo spirito filosofico greco che l’ebreo Plotino cercò di integrare con la «sapienza» ebraica attraverso la filosofia di Platone. Il tema del «Lògos», p. es., è un tentativo di incarnare nel pensiero greco la teologia ebraica del «Dabàr – Parola/Fatto». Oggi pensiamo ai cristiani che nel mondo musulmano hanno difficoltà non solo a testimoniare la loro fede, ma anche (in alcuni paesi) a celebrare la Messa. Basta portare una croce per morire di morte violenta. Le stesse cose succedevano in Unione sovietica che perseguiva i credenti come nemici della patria. Pensiamo ai cristiani in Cina dove la persecuzione ideologica è contro ogni diritto fondamentale della persona. Pensiamo a molti cristiani occidentali che sono tali sono di nome e per i quali credere o non credere o passare da una religione all’altra è ininfluente. In un contesto di «religioni-fai-da-te»  è come cambiare vestito.
L’autore della lettera di Giacomo ci dice che la fede è una questione d’interiorità e ciò che appare e viviamo all’esterno è solo un sintomo e una conseguenza della nostra vita interiore. La fede non è una mano di vernice per apparire, al contrario, essa è il fondamento della pace che genera la giustizia e sconfigge le guerre. Le religioni fanno le guerre che, bestemmiando, chiamano «sante» o «di religione», mentre la fede sconfigge le guerre e i sentimenti negativi come la gelosia, la contrapposizione per interesse. Vogliamo un mondo di pace, senza guerre? Ecco la ricetta. Ognuno combatta le passioni che popolano il suo cuore, perché ognuno individualmente è parte responsabile di un popolo o di una nazione. Le guerre non sono forse strumenti di dominio economico? Si fa la guerra per avere più petrolio e quindi più energia e quindi più ricchezza e quindi più spreco: che importa se il prezzo del nostro benessere lo pagano i poveri, i deboli, gli affamati e i bambini? Dice Giacomo: «Bramate e non riuscite a possedere e uccidete» (4,2)  Il possesso delle materie prime, dell’acqua, dell’aria sono oggi motivi di guerra e di morte. Il possesso degli strumenti della comunicazione, come la telefonia e le tv sono motivi sufficienti per ricattare un intero Paese e anche uccidere. Non c’è futuro su questa strada e infatti tutti sappiamo che stiamo camminando velocemente verso la nostra auto-distruzione. Dio, dicevano gli antichi, confonde e fa impazzire coloro che vuole perdere.
Nel vangelo Gesù continua ad ispirarsi al profeta Isaia: l’espressione «esser consegnato» (v. 31; cf Is 53, 6.12) appartiene al vocabolario del 4° carme del Servo di Ywhw (Is 52,13-53,12). Sullo sfondo c’è anche il profeta Geremia che ritroviamo nell’espressione «nelle mani degli uomini» (v. 31; cf Ger 26,24 del testo ebraico e 33,24 del testo greco della Lxx). Gesù si confronta con i due perseguitati più illustri dell’AT per dirci che la sua via non sarà affatto diversa dalla loro. Per questo diventa ridicola la discussione degli apostoli sulla distribuzione dei posti nel nuovo Regno: Cristo si presenta come Servo sofferente ed essi discutono di carriera. Sembrano gli ecclesiastici di oggi nella Chiesa dei nostri giorni, dove ciò che conta, a quanto è dato di vedere, sono le insegne, i titoli e la sontuosità delle vesti come simboli di carriera ecclesiastica. Un prete non può parlare di povertà e di poveri, se poi si barda come un satrapo persiano con vesti sontuose: bisogna essere credibili non solo nell’essere, ma anche nell’apparire. E’ l’esatto contrario della logica del mondo che privilegia solo l’apparire e deforma ciò che è reale. Non c’è proporzionalità. Per entrare nel Regno bisogna essere splendenti della nudità di un bambino che si abbandona preoccupandosi solo di ciò che è essenziale: essere amato ed essere sfamato. La misura del Regno di Gesù è la disponibilità di un bimbo. Tutto il resto viene dal maligno. Lo Spirito Santo ci introduca in questo mistero di verità. Saliamo al monte dell’Eucaristia con le parole dell’antifona d’ingresso: «Io sono la salvezza del popolo», dice il Signore, «in qualunque prova m’invocheranno, li esaudirò, e sarò il loro Signore per sempre».
 
 
Prima lettura Sap 2,17-20. Il brano di oggi tratto dal libro della Sapienza e databile sec. I a.C., riflette la condizione degli Ebrei della diaspora che sono messi in ridicolo per le loro usanze alimentari e per la loro concezione religiosa della vita e dell’«oltre-vita». Il mondo greco di Alessandria che si vanta di possedere la «sapienza» difficilmente può accettare la conoscenza di Dio come la praticano e vivono gli Ebrei. Da questo confronto/conflitto ne nasce una contrapposizione che l’autore sintetizza come una lotta tra «giusto» e «avversari» (v. 18). La lettura è impressionante perché realizza alla lettera la descrizione della vita di Gesù che si è dichiaro «Figlio di Dio» ed è stato messo alla prova fino alla morte violenta.
 
Dal libro della Sapienza 2,17-20
[Dissero gli empi:] 17«Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo e si oppone alle nostre azioni; ci rimprovera le colpe contro la legge e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione ricevuta. Vediamo se le sue parole sono vere, consideriamo ciò che gli accadrà alla fine. 18 Se infatti il giusto è figlio di Dio, egli verrà in suo aiuto e lo libererà dalle mani dei suoi avversari. 19 Mettiamolo alla prova con violenze e tormenti, per conoscere la sua mitezza e saggiare il suo spirito di sopportazione. 20 Condanniamolo a una morte infamante, perché, secondo le sue parole, il soccorso gli verrà». - Parola di Dio.
 
Salmo responsoriale 54/53, 3-4; 5; 6.8. Supplica semplice, il Salmo 54/53 è anche un capolavoro letterario con una ripartizione classica: appello a Dio per la protezione da empi aggressori (vv.3-4), esposizione del pericolo (v. 5), fiducia in Dio (vv.6-7) e rendimento di grazie (vv. 8-9). Nulla di strano se non fosse per due elementi: al v. 3 s’invoca la protezione «per il tuo Nome»: il nome è la Persona stessa di Dio; al v. 8 la preghiera di lode è equiparata al «sacrificio» del cuore, da cui rileviamo la straordinaria teologia che la preghiera ha valore sacrificale ed espiatorio se fondata sul Nome stesso di Dio, cioè sulla sua intima identità.
 
Rit.Il Signore sostiene la mia vita.
 


1. 3 Dio, per il tuo nome salvami,
per la tua potenza rendimi giustizia.
4 Dio, ascolta la mia preghiera,
porgi l'orecchio alle parole della mia bocca. Rit.
 2. 5 Poiché stranieri contro di me sono insorti
e prepotenti insidiano la mia vita;

 
non pongono Dio davanti ai loro occhi. Rit.
3. 6 Ecco, Dio è il mio aiuto,
 il Signore sostiene la mia vita.
8 Ti offrirò un sacrificio spontaneo,
loderò il tuo nome, Signore, perché è buono. Rit


Seconda lettura Gc 3,16-4,3. L’autore della lettera di Giacomo è un individuo molto concreto: più che dei principi si preoccupa dei criteri pratici per distinguere la vera dalla falsa sapienza. E’ lo stesso criterio che ha usato per definire la bontà o la cattiveria del parlare, cioè della parola. Egli evidenzia ben otto qualità delle vera sapienza (v. 17) il cui obiettivo finale è aiutare a vivere relazioni autentiche, fondandole sull’agàpe. In questo modo «donna Sapienza» è proiettata a costruire la pace come dimensione propria della condizione umana. In tutto ciò non c’è posto per la gelosia, le liti e le guerre che sono frutto dell’egoismo insano che produce morte. Colui che ha saputo dimenticare totalmente se stesso per donarsi agli altri è il Cristo che oggi proclamiamo nella Parola e condividiamo nel Pane, spezzato dall’Assemblea.
 
Dalla lettera di Giacomo apostolo Gc 3,16-4,3
Fratelli miei, 16 dove c'è gelosia e spirito di contesa, c'è disordine e ogni sorta di cattive azioni. 17 Invece la sapienza che viene dall'alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera. 18 Per coloro che fanno opera di pace viene seminato nella pace un frutto di giustizia. 4,1 Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostre membra? 2 Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra! 3 Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni. - Parola di Dio.
 
Vangelo Mc 9,30-37. Domenica scorsa avevamo lasciato Gesù in terra pagana, «in pieno territorio della decàpoli» da cui si diresse in Galilea, la sua regione, dove oggi lo ritroviamo. Dopo avere abbandonato le folle, viaggia con i suoi discepoli (v. 30) e per la seconda volta annuncia la sua prossima passione (v. 31). Se le folle non capiscono, i discepoli capiscono ancora meno:  nessuno vuole accettare un Messia diverso da quello immaginato. E’ la tentazione perenne ebraico-cristiana di farsi sempre un «dio su misura» (cf Es 32). Ancora una volta Gesù descrive se stesso con il vocabolario del Servo sofferente di Yhwh (Is 52,13-53,11: 4° canto), ma i discepoli che pur conoscono la Scrittura non sanno capirlo. L’incredulità porta come conseguenza la deformazione delle relazioni per cui ognuno pensa alla propria carriera anche nel Regno di Dio che dovrebbe essere solo il campo del servizio gratuito per amore sull’esempio di Gesù che regala la sua vita al Padre e all’umanità e che noi riviviamo nell’Eucaristia.
 
 
Dal Vangelo secondo Marco Cf Mc 9,30-37
In quel tempo, 30 Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. 31Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell'uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». 32Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo. 33Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». 34 Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. 35 Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l'ultimo di tutti e il servitore di tutti». 36 E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: 37 «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato». - Parola del Signore.
 
Spunti di omelia
Domenica scorsa abbiamo lasciato Gesù a Cesarea di Filippo, quasi ai confini con il Libano, dove si era contrapposto a Pietro. Questi dopo averlo riconosciuto come Messia/Cristo, aveva cercato di distoglierlo dalle conseguenze della missione: la solitudine e la morte violenta. Pietro aveva dimostrato di avere un’idea sua del Messia e di essere incapace di aprirsi al «pensiero di Dio». Siamo rimasti esterrefatti della risposta di Gesù: alla dichiarazione di fede di Pietro («Tu sei il Cristo») risponde: Tu sei satana. Da ciò abbiamo imparato che il cammino di fede è un capovolgimento radicale del modo di pensare e non un confronto di opinioni. Credere è lasciarsi educare ad illimpidirsi lo sguardo per vedere ogni cosa con gli occhi di Dio. E’ un cammino lento che l’assiduità alla Parola di Dio porta fino in fondo perché la Parola purifica e trasforma.
Nel brano del vangelo di oggi, ci troviamo in Galilea, la regione nord della Palestina, a sud del Libano, dove Gesù risiede con la sua famiglia e il parentado. Gesù visita i villaggi e lungo il cammino impartisce agli apostoli l’ultima istruzione prima di morire. E’ necessario legare insieme il vangelo di oggi con quello di domenica scorsa, se vogliamo coglierne la portata e la profondità. Tre sono i temi che si possono cogliere: a) l’incredulità degli apostoli; b) la voglia di carriera degli apostoli nel nuovo Regno e c) il modello di vita proposto da Gesù: l’atteggiamento del bambino.
            Abbiamo già visto domenica scorsa che la professione di fede di Pietro è in linea con il messianismo ebraico, ma non va oltre, non coglie la novità che Gesù porta. Gli apostoli si limitano a riferire le opinioni della folla, ma non trasudano entusiasmo nell’esprimere la loro fede e convinzione. In fondo sono molto più vicini alla folla che a Gesù. Non capiscono perché il Messia debba soffrire. Secondo la tradizione ebraica, il Messia sarebbe stato preceduto dal profeta Elia che come precursore avrebbe dovuto preparare tutto per cui al Messia non sarebbe rimasto altro che salire sul trono glorioso e governare Israele (cf Mc 9,9-13). Quale posto e quale senso ha la sofferenza in tutto questo? Dal loro punto di vista gli apostoli sono logici, il loro limite è non essere in grado di accostarsi ad una conoscenza più profonda della vita del Messia. Quando ci fermiamo alle apparenze non sbagliamo sempre valutazione e giudizi perché non sappiamo cogliere i movimenti profondi, le correnti interiori che dirigono e conducono la vita.
            Gli apostoli avevano gli strumenti per capire la novità e rivedere la loro idea di Messia. Ogni volta infatti che Gesù ha parlato della sua passione lo ha sempre fatto ricorrendo alle Scritture, assumendone il vocabolario e fornendo così agli apostoli e ai cristiani di tutti i tempi il criterio fondamentale per conoscere i pensieri di Dio e uniformarvisi. Gesù durante la formazione degli apostoli, per tre volte parla loro della sua passione e morte violenta:
 

1° annuncio
Mc 8,31
E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere
2° annuncio
Mc 9,31
Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma una volta ucciso, dopo tre giorni, risorgerà».
3° annuncio
Mc 10,33-34
Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai cai dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani, 34 lo derideranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno, e dopo tre giorni risorgerà.

 
Questi tre annunci sono una miniera di citazioni che i primi cristiani coglievano immediatamente, mentre noi oggi abbiamo bisogno di schemi per poterne cogliere la ricchezze: abbiamo smarrito la familiarità con la Scrittura. Esaminiamo le parole e le frasi:
 

v.
Mc 8,31
v.
AT
8,31
doveva molto soffrire
Is 53,4
egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori
Is 53,6
8,31
essere riprovato
Sal 118/117,22
8,31
venire ucciso
Is 53,8
Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua posterità? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per la colpa del mio popolo fu percosso a morte.
9,31
lo uccideranno
10,33
lo condanneranno a morte
9,31
essere consegnato
Is 53,3
Is 53,12
è stato annoverato fra gli empi
9,31
nelle mani degli uomini
Ger 26,24
(Lxx 33,24)
10,33
lo consegneranno ai pagani
10,34
lo scherniranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno
Is 53,2-7
Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi … uno davanti al quale ci si copre la faccia … Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca.

Tutti questi testi che Gesù aveva loro citato, svelandone il senso nuovo non sono bastati a fare capire agli apostoli che il Messia «doveva» essere nella linea del Servo Sofferente e di Geremia. Accettando questo mandato, Gesù fa una scelta radicale: egli sceglie il metodo della non violenza come criterio costante della sua vita di uomo e della sua natura di Dio. Gesù subisce la violenza piuttosto che darla, accetta la morte piuttosto che infliggerla, diventa «uomo dei dolori» piuttosto che fare soffrire gli altri. E’ il metodo di Dio che si lascia inchiodare sulla croce, si abbandona nelle mani degli uomini, ma non si difende mai con la violenza. 
Questo tema è di grande attualità oggi nel rapporto tra Islam e Cristianesimo. L’Islam accetta Gesù come profeta perché non può accettare l’idea stessa di un Dio che soffre nelle mani dell’uomo: un «dio» in balia della volontà degli uomini è una bestemmia per coloro che affermano l’assoluta lontananza di Dio dal mondo umano. Ci dispiace per l’Islam, ma questa è la caratteristica di fondo e inalienabile del cristianesimo: un Dio incarnato che subisce violenza e muore per e nelle mani degli uomini.
Non si può dire che gli apostoli non conoscessero le Scritture per comprendere la portata nuova degli eventi. La Scrittura non è bastata. Non è sufficiente conoscere «materialmente» la Scrittura per capire «il comandamento» di Dio che essa rivela. Tutte le persone che hanno rifiutato Gesù erano persone religiose, cresciute in ambiente religioso e con buon livello di conoscenza della Scrittura (Farisei, Scribi, Dottori della Toràh, persone semplici del popolo, ecc.). Un biblista può conoscere a memoria la Bibbia, può citarla in tutte le connessioni possibili, ma può essere ateo e lontano dalla Parola: un ateo rispettabile che conosce la Bibbia e nulla di più. Si può essere cristiani atei, preti atei, monaci atei, missionari atei, vescovi atei, cardinali atei e papi atei. Non si crede per dna, ma unicamente per una «seduzione» a cui si cede con la volontà, la libertà e tutta la propria dignità: «Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre» (Ger 20,7). Solo chi ama sa compiere atti e fare scelte che in altri contesti «normali» apparirebbero lesivi della dignità personale.
            Il secondo tema che il vangelo ci offre è la maledizione del «carrierismo» nata ancora prima che cominciasse l’avventura della Chiesa e che resta in essa come la sventura di ogni tempo, la piaga che infetta il cuore stesso dell’annuncio del vangelo. Gli apostoli intravedono la possibilità di un Regno imminente e si preoccupano di riservarsi uno strapuntino comodo con posti di ministri e consiglieri del Messia: «Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse il più grande» (v. 34). Il problema è serio perché ritorna anche più avanti e Gesù deve fare una vera e propria lezione sulla «autorità»:
 
35 Gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». 36 Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: 37 «Concedici di sedere nella tua , uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». 38 Gesù disse loro: «Non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati  nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». 39 Gesù disse loro: «Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e del battesimo in cui  io sono battezzato anche voi sarete battezzati. 40 Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato». 41 Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono ad indignarsi con Giacomo e Giovanni. 42 Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. 43 Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, 44 e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. 45 Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,35-45).
 
In Matteo è la stessa madre che viene direttamente da Gesù a chiedere di sistemare i figli in «un posto fisso»:
 
20Allora gli si avvicinò la madre dei figli di Zebedèo con i suoi figli e si prostrò per chiedergli qualcosa. 21 Egli le disse: «Che cosa vuoi?». Gli rispose: «Dì che questi miei due figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno» (Mt 20,20-21).
 
L’occasione è propizia per Gesù che spiega le condizioni per fare parte del suo Regno: non solo il Messia dovrà attraversare il tunnel della sofferenza e della morte, come qualsiasi altro essere umano, ma anche coloro che vorranno diventare suoi discepoli, non potranno esimersi dalla stessa esperienza. Credere non è una garanzia di sicurezza sul versante della vita e della morte, ma è la capacità per grazia di dare senso a ciò che potrebbe non averlo e affrontare le situazioni dell’esistenza dal punto di vista della resurrezione. Con tutto questo contrasta l’atteggiamento carri eristico del personale ecclesiastico o apostolico. La carriera che un cristiano deve rincorrere è solo quella della conduce ai piedi della croce, alla cui ombra compiere le proprie aspettative e i propri desideri.  
Nella chiesa non può esserci posto per il carrierismo che è il più grave peccato che una persona votata al vangelo possa commettere; ma vi deve essere spazio solo per i «servi», coloro cioè che hanno talmente regalato la loro vita da non poterne più disporre. La sindrome della carriera è l’esaltazione della propria persona ad un tale parossismo da immaginarla indispensabile al bene intrinseco della Chiesa e della comunità. La psicologia spiega che molti uomini ecclesiastici si attaccano alla carriera o alle vesti sgargianti come sostitutivi subliminali della loro sessualità repressa perché irrisolta o della loro vanità che identificano con la «gloria di Dio».  Un uomo può vivere da celibe e una donna da nubile, ma devono sceglierlo con consapevolezza e comunque devono avere interessi talmente alti da non avere bisogno di sostitutivi altrettanto devianti.
Il terzo momento del vangelo, che è anche un criterio di accesso al Regno, è la figura del bambino preso da Gesù come modello e misura. Bisogna subito fugare il sottile retro pensiero che il cristianesimo sia una religione infantile o un momento necessario nella vita dell’uomo che si risolve crescendo. Lo vediamo sotto i nostri occhi con il «modello» di catechismo che viene impartito nelle nostre parrocchie. Esso è modellato sullo schema della scuola, per cui smessa la scuola, si smette anche il catechismo. E’ ancora strutturato in funzione non della formazione, ma della 1a  comunione e della cresima. Una volta ricevuta la prima e a volte anche l’ultima comunione, si diventa «adulti» e come gli adulti si smette la frequenza e con questa anche la formazione. La catechesi ridotta a catechismo «sacramentale», cioè a scuola pratica di ateismo certo.
Il catechismo dovrebbe essere il prolungamento della Bibbia e i testi dovrebbero costituire il commento alla Scrittura che contiene la rivelazione scritta, il codice per potere leggere la storia e la vita, un equipaggiamento quindi che dovrebbe accompagnarci per tutta la vita. Invece ci limitiamo a preparare ad alcuni sacramenti che lasciano il tempo che trovano perché si offre solo una verniciatura scadente del messaggio cristiano. Ci si preoccupa più dell’integrità dei principi dogmatici che di aprire la vita all’anelito della Parola e di Dio. La preoccupazione verte quasi esclusivamente sulle cose da «sapere» che sulla vita da vivere. Il catechismo come è fatto oggi è una autentica scuola di «atei per domani» e tutte le indagini socioreligiose lo attestano, ma non abbiamo il coraggio di tagliare il nodo che sta alla radice.  
Costruiamo sul vuoto, comunichiamo il nulla e poi abbiamo paura di essere invasi dai musulmani e inneggiamo «ai valori cristiani» e alla «identità nazionale cattolica». Siamo fuori storia, fuori posto, fuori fede perché ci accontentiamo di una religione da quattro soldi, uan «religione dei valori», merce avariata fatta di esteriorità, di titoli, di liturgie impossibili dove non domina il «mistero di Dio», ma sono una sciarada di cappelli, di anelli, di bastoni dorati, di vestiti sgargianti che non onorano Dio, ma mettono solo in ridicolo chi li indossa. E’ urgente un ritorno all’essenzialità, alla austerità, alla povertà assoluta che ci rende strumenti della onnipotenza di Dio e cultori della sua Provvidenza. Come farebbe un bambino che non ha preconcetti strutturali, ma si abbandona con fiducia e confidenza. Oggi la chiesa crede più nella previdenza che può garantire lo stato ateo, attraverso vantaggi economici e politici, che nella Provvidenza del Dio di Gesù Cristo che parla di uccelli del cielo, di gigli del campo e capelli sul capo (cf Mt  6,25-34; 10,29-30).
Il modella del bambino è significativo per diversi motivi: il bambino in quanto tale nella società ebraica è una nullità, non ha nemmeno esistenza giuridica: egli è proprietà di qualcuno fino alla maggiore età; in secondo luogo il bambino per vivere e sopravvivere deve dipendere da qualcuno, non è autonomo. In questo contesto per fare parte del Regno di Dio, le condizioni sono evidenti:
-    bisogna farsi «servi» di tutti (Mc 9,35): «Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». Gesù si siede cioè assume la postura del maestro autorevole e l’evangelista vuole sottolineare che ciò che dice agli apostoli è fondamentale. E’ un insegnamento stabile, valido per sempre.
-    bisogna stare dalla parte dei disprezzati (Mc 9,37): «E, preso un bambino, lo pose in mezzo e, abbracciandoselo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato». Stare dalla parte del bambino, che non aveva validità giuridica, significa contestare la struttura sociale del tempo e mettersi contro il potere costituito[1] perché schierarsi dalla parte degli ultimi è sempre una contestazione del potere che fa sempre gli interessi dei forti.
-    Se proseguiamo la lettura del vangelo fino al Mc 9,42 troviamo anche la terza condizione per stare nel Regno, ma questa è riservata ai capi, cioè ai responsabili: «Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare». Nel contesto i piccoli sono i credenti che, a loro volta, sono digiuni della casistica e delle sottigliezze della Legge o della morale; la loro fede, infatti, potrebbe vacillare a causa di discussioni troppo astratte riservate agli specialisti (cf Rm 14,1-15.18).
In conclusione, «essere come bambini» significa vivere nella semplicità delle relazioni, nella disponibilità dell’incontro, aperti alle novità come solo i bambini sanno fare, ma principalmente essere liberi da ogni prevenzione e preconcetto perché ciò che conta per il bambino è vivere. Se si accetta il modello del bambino, si sarà disprezzati nella società e nel mondo e questo disprezzo sarà il modo per accompagnare Gesù nella sua salita a Gerusalemme dove il disprezzo si tramuterà in dolore e morte (cf Mc 9,30-32). Ancora una volta ciò che la liturgia propone è la revisione del nostro modo di pensare e di essere, sottoponendoci ad una processo di conversione per vivere e pensare secondo i criteri di Dio, espressi nel vangelo e non secondo le categorie della logica mondana che spesso si annida e travolge anche le persone di chiesa e i loro sistemi di riferimento come valori, religione, carrierismo e morale opportunista. La Gerusalemme celeste, descritta da Ap 21, ora ne siamo certi, sarà una città a misura di bambini.
 
 
Dopo la comunione
Da Romano Guardini, Il Signore
L’uomo che obbedisce alla natura accoglie soprattutto ciò che si è dimostrato valido, ciò che è utile e importante. Il bambino non possiede nulla di tutto questo. Non ha fatto ancora nulla. Non rappresenta granché. È un debuttante, è ancora tutto una speranza. Il bambino non può costringere l’adulto a prenderlo sul serio, perché è ancora “piccolo”. I veri uomini sono i grandi. Il bambino è ancora solo candidato all’umanità. Quest’atteggiamento non è proprio solo delle persone cerebrali ed egoiste, ma anche di quelle amabili, materne, soprattutto educatori, che non cercano altro che impegnarsi socialmente. Esse conferiscono al comportamento dell’adulto nei riguardi del bambino una sfumatura di disistima amabile o burbera che traspare anche nel tono artificiale e scherzoso con cui l’adulto crede di dover parlare al bambino. Allora Gesù dice: Voi non accogliete veramente il bambino, perché è incapace di imporsi. È troppo insignificante per voi. Ebbene, ascoltate: Io mi trovo là dove si trova chi è incapace di farsi valere. Un animo cavalleresco si leva là dove si trova chi non ha ancora dimostrato nulla e dice: Me ne faccio garante.
 
Dal Talmud babilonese, trattato Shabat 31a:
«Un giorno due uomini scommisero che chi avesse fatto perdere la pazienza a Hillel, avrebbe guadagnato 400 zuzim dall’altro. Era venerdì pomeriggio e Hillel stava facendo il bagno. Uno degli uomini bussò alla sua porta e gridò: “Dov’è Hillel, dov’è Hillel?”. Hillel si avvolse in un mantello e uscì chiedendo cosa volesse. L’uomo disse: “Ho una domanda da farti: perché i babilonesi hanno la testa rotonda?”. “Questa è una domanda profonda”, rispose Hillel. “È perché le loro levatrici non sono sufficientemente preparate”. L’uomo se ne andò e tornò più tardi. Di nuovo gridò: “Dov’è Hillel, dov’è Hillel?”. Hillel apparve sulla porta, avvolto nel suo mantello. La domanda questa volta era: “Perché gli abitanti di Palmira hanno occhi a mandorla?”. “Anche questa è una domanda profonda”, rispose Hillel. “È perché vivono in una regione sabbiosa e il solco stretto formato dalle loro palpebre impedisce che la sabbia entri loro negli occhi”. L’uomo se ne andò di nuovo, ma presto voltò. Questa volta, la domanda era: “Perché gli africani hanno i piedi grandi?”. “Anche questa è una domanda profonda”, rispose ancora Hillel. “È perché vivono in regioni paludose” (Essendo grandi, i piedi non vi affondano così facilmente). L’uomo disse: “Ho molte altre domande da fare, ma temo che tu ti possa irritare. Hillel si avvolse meglio nel mantello, sedette e disse all’altro di fare tutte le domande che volesse. L’uomo allora esclamò: “Tu sei Hillel, che tutti chiamano il principe d’Israele?”. “Sì”, rispose Hillel. “Se è così, voglia il cielo che non esistano più persone come te in Israele!”. Hillel disse: “Ma perché, figlio mio?”. L’uomo raccontò allora della scommessa e disse: “Per causa tua ho perso 400 zuzim!”. Hillel replicò: “È meglio che tu abbia perduto 400 zuzim e, se è il caso, ne perda altri 400, piuttosto che Hillel perda la sua pazienza”».
 
Preghiamo. Guida e sostieni, Signore, con il tuo continuo aiuto il popolo che hai nutrito con i tuoi sacramenti, perché la redenzione operata da questi misteri trasformi tutta la nostra vita. Per Cristo nostro Signore.
 
 
 
_________________________
Domenica 25a Tempo Ordinario-B, 20-09-2009– Parrocchia di S. M. Immacolata e S. Torpete
© Nota: L’uso di questi commenti è consentito citandone la fonte bibliografica
Paolo Farinella, prete – 20-09-2009 – San Torpete – Genova


[1] In greco per dire «bambino» si usa il termine «tò paidìon» che è neutro: il bambino fino alla maggiore età non ha una identità sessuale, è una cosa. Nel testo greco però c’è un indizio particolare: per dire che Gesù lo abbraccia si usa la coniugazione «media» (le altre sono l’attiva e la passiva) che è una caratteristica del verbo greco, difficile spesso da rendere in italiano, per cui non bisogna tradurre Mc 9,36 come fanno tutte le versioni: «E preso un bambino, lo pose in mezzo e, abbracciandolo, disse loro …», ma è necessario rendere il senso del verbo medio che esprime un’azione che il soggetto compie da sé e/o a suo vantaggio, esprimendo in questo caso tutto l’interesse affettivo ed emotivo che Gesù mette nel gesto. La giusta traduzione è: «E, preso un bambino/figliolo, lo pose/collocò in mezzo e, abbracciandoselo/mentre se lo abbracciava [= avvolgendolo tra le braccia e carezzandolo = mentre se lo strusciava], disse loro …».


Giovedμ 17 Settembre,2009 Ore: 16:56
 
 
Ti piace l'articolo? Allora Sostienici!
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori

Print Friendly and PDFPrintPrint Friendly and PDFPDF -- Segnala amico -- Salva sul tuo PC
Scrivi commento -- Leggi commenti (0) -- Condividi sul tuo sito
Segnala su: Digg - Facebook - StumbleUpon - del.icio.us - Reddit - Google
Tweet
Indice completo articoli sezione:
Il Vangelo della domenica

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito


Ove non diversamente specificato, i materiali contenuti in questo sito sono liberamente riproducibili per uso personale, con l’obbligo di citare la fonte (www.ildialogo.org), non stravolgerne il significato e non utilizzarli a scopo di lucro.
Gli abusi saranno perseguiti a norma di legge.
Per tutte le NOTE LEGALI clicca qui
Questo sito fa uso dei cookie soltanto
per facilitare la navigazione.
Vedi
Info