- Scrivi commento -- Leggi commenti ce ne sono (0)
Visite totali: (363) - Visite oggi : (1)
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori Sostienici!
ISSN 2420-997X

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito

www.ildialogo.org Domenica 23a tempo ordinario – B – 6 settembre 2009,a cura di Paolo Farinella, prete

Domenica 23a tempo ordinario – B – 6 settembre 2009

a cura di Paolo Farinella, prete

* Domenica 23a tempo ordinario – B[1]
– 6 settembre 2009
La liturgia odierna è complessa nella sua composizione, ma semplice nel contenuto. In genere in ogni domenica, la 1a lettura fa sempre riferimento al vangelo, secondo il principio biblico-teologico che Gesù, per noi cristiani, è la chiave di lettura dell’unità della Scrittura: la Prima Alleanza trova il suo compimento nella Seconda. Oggi, la 1a lettura, tratta dalla lettera di Giacomo[2] è intimamente connessa al vangelo così intimamente che possiamo considerarla come un commento anticipato al vangelo[3]. Gesù infatti si ispira direttamente a Is 35 per il suo intervento. Si può dire che il vangelo è la realizzazione della profezia di Isaia. A sua volta la 2a lettura ne è una attualizzazione morale: se Dio privilegia i poveri, i credenti non possono fare preferenze di persone e non possono valutare con i criteri del mondo che sono la ricchezza e l’apparenza. L’assemblea liturgica di conseguenza deve essere lo specchio di questa nuova prospettiva di vita[4]. La ricchezza come fine della vita e non come strumento di condivisione porta inevitabilmente al possesso del potere come strumento di difesa del ricco a danno sempre del povero.
L’apparenza a sua volta è l’altra faccia della ricchezza e del potere perché il ricco che non ha sudato il suo guadagno ama ostentarlo per essere accolto nel mondo - egli pensa - di coloro «che contano». Il mondo parla di «alta società» e s’inchina di fronte a coloro che fanno sfoggio di ricchezze quasi sempre accompagnate da vuota e immorale sfrontatezza. Non esiste una ricchezza onesta perché chi vive onestamente non può accumulare in modo spropositato beni spropositati. Chi accumula ricchezza oltre misura ruba. Nessun ricco ha prodotto ricchezza con il sudore della sua fronte, cioè con il proprio lavoro onesto vissuto nella legalità. Ogni ricchezza nasce dalla corruzione, dall’empietà, dalla falsità; dove infatti c’è un ricco, di norma vi sono nove poveri sfruttati e/i vittime. Questo mondo spensierato è dominato da «mammona iniquitatis» (Lc 16,9) che oggi si chiama mafia, corruzione, uso privato del potere, ruberie, droga, commercio di persone, pedofilia, traffici di lavoro nero, sfruttamento degli operai, conflitti d’interesse, ecc. Dietro i crimini più efferati e le organizzazioni delinquenziali organizzate, di norma, vi sono persone mimetizzate dietro un paravento di perbenismo sociale e ritenute «onorevoli», schierati con la religione ufficiale di cui si servono per mascherare i loro traffici turpi. Di norma fanno anche beneficenza, sfruttando ancora una volta i poveri per farsi pubblicità.
Ciò che conta oggi sono i titoli esibiti come insegne, non il valore delle persone e la qualità dei contenuti da esse espresse. Più le persone sono vuote e ridicole più ostentano titoli e medaglie; più sono malate e più si attribuiscono meriti che non hanno. Questa malattia che dilaga come una piaga ha invaso anche la Chiesa e devasta lo spirito del personale ecclesiastico che spesso e volentieri corre dietro alla vanità della corriera e delle onorificenze, alle vesti sgargianti e ai cappelli impossibili e ridicoli. La Chiesa è devastata dalla mentalità pagana. Il 29 giugno 1972, nell’omelia della Messa per il suo X anniversario di pontificato, Paolo VI disse che «da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio». A distanza di anni oggi non esitiamo a dire che questo fumo di Satana oggi è la piaga del carrierismo ecclesiastico che si nutre di futilità, di mondanità e di apparenze effimere. La seconda piaga è il culto della personalità che spesso prevale sulla verità e si trasforma in cortigianeria ossequiosa senza testa e senza spina dorsale. Queste cose allontanano le persone pensanti dalla Chiesa.
Il brano odierno della 2a lettura è importante non solo per il contenuto lineare, semplice e pungente su cui tutti si soffermano, ma anche per l’espressione che qui c’interessa del v. 1: «nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria»[5]ýrios thês dòxēs» è molto arcaica e riflette la primitiva teologia della comunità giudeo-cristiana, la stessa che troviamo in Lc 24,26: «Non doveva forse il Cristo patire tutto questo ed entrare nella sua gloria?». Gesù stesso invoca dal Padre la condivisione con i suoi discepoli di questa «gloria-dòxa-kabod» che egli aveva «prima della creazione del mondo» (Gv 17,24)[6]Sinottici che guardano al ritorno conclusivo del Cristo alla fine della storia (Mt 16,27; 19, 28; 24,34; 25,31; Mc 8,38; 10,37; 13,26), mentre Gv la usa per indicare il rapporto tra la morte e la risurrezione/esaltazione di Gesù la cui «gloria» coincide con la rivelazione della sua «ora» (Gv 2,11; 11,40; 17,5; 2,4; 12,27; 13,1; 16,21). Ora siamo sul nuovo Sinai, da cui non discende più la Toràh scolpita nella pietra, ma lo stesso Signore che dona lo Spirito (Gv 19,30). L’espressione intera «Gesù Cristo, Signore della gloria» potrebbe essere una formula tecnica di fede molto primitiva (cf Gv 20,28).. L’espressione antica «Signore della gloria» in Gc è connessa al giudizio della fine dei tempi (cf Gc 5,7-8) sulla stessa linea dei L’espressione «Signore della gloria – k
Il vangelo ci dice che non dobbiamo, non possiamo farci imprigionare dalle apparenze perché la liturgia deve essere lo spazio dell’uguaglianza dei figli di Dio. Essere uguali non significa essere appiattiti su uno schema o un canovaccio, ma accettarsi e accogliersi nella verità della dignità: ogni persona è unica e irripetibile. Tra credenti non conta il titolo o la funzione, le capacità o il successo, il casato o la dinastia. I credenti accolgono le persone con la verità del cuore: carne e sangue di Dio e quindi sangue e carne propria. Nessuno è estraneo alla nostra umanità, al nostro amore, alla nostra fede. Solo i diversi possono essere uniti nella ricchezza della diversità. Uguali nella dignità, diversi nella funzione, identici nella natura. Vestire tutti allo stesso modo è essere uniformi nell’apparire esteriore, ma essere un cuore solo ed un’anima sola significa dare corpo e visibilità al dono di ciascuno nella condivisione gioiosa e non gelosa, nella comunione dello Spirito che unisce e conforma alla volontà di Dio. Noi partecipiamo all’Eucaristia per imparare a vedere le cose e noi stessi con altri occhi, con lo sguardo profondo di Dio che conosce noi più di noi stessi: «Io, il Signore, scruto la mente (in ebr.: cuore) ed saggio i cuori (in ebr.: reni), per dare a ciascuno secondo la sua condotta (in ebr.: sue vie), secondo il frutto delle sue azioni» (Ger 17,10)[7]  
 
Mensa della Parola
Prima lettura Is 35,4-7a. Il libro del profeta Isaia è opera di tre autori singoli o collettivi vissuti in secoli diversi. Il profeta storico, del sec. VIII a.C. è autore dei primi 39 capitoli. In fase di redazione finale però un discepolo compose un poema, detto anche «piccola apocalisse» (cc. 34-35) e che inserì  tra gli scritti del primo Isaia in modo maldestro. Dagli studiosi è detta «piccola apocalisse» per distinguerla dalla «grande apocalisse» dei cc. 24-27. Il testo di oggi appartiene a questa inserzione. Il brano di oggi come tutto il poema della «piccola apocalisse» descrive la fine del mondo come un ritorno al paradiso terrestre con conseguente capovolgimento delle situazioni: ciechi/vedenti; sordi/udenti e deserto/sorgente d’acqua. L’Eucaristia è la scuola dove apprendiamo il metodo del capovolgimento del male in bene attraverso la luce della Parola, la forza del Pane, l’energia del Vino, la comunione della Comunità. Dall’Eucaristia riceviamo la forza che Dio ci dà per trasformare il mondo in un nuovo giardino di Eden, dove ogni persona potrà vivere in pienezza la propria vita.  
 
Dal libro del profeta Isaia Is 35,4-7a [+ 1-3, assenti nel lezionario]
 [1 Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa. 2 Come fiore di narciso fiorisca; sì, canti con gioia e con giubilo. Le è data la gloria del Libano, lo splendore del Carmelo e di Saron. Essi vedranno la gloria del Signore, la magnificenza del nostro Dio. 3 Irrobustite le mani fiacche, rendete salde le ginocchia vacillanti.]
 
Dite agli smarriti di cuore: «Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi». Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto, perché scaturiranno acque nel deserto, scorreranno torrenti nella steppa. 7a La terra bruciata diventerà una palude, il suolo riarso sorgenti d'acqua. - Parola di Dio.
 
Salmo responsoriale 146/145, 6b-7; 8-9a; 9bc-10. Il salmo odierno è il primo degli ultimi cinque che compongono il Salterio . Celebra Dio, sostegno del povero e del giusto e si conclude con una acclamazione alla regalità di Dio (v. 10). L’autore conosce Isaia da cui attinge e per noi che conosciamo il Vangelo, questo salmo ha il sapore del Magnificat di Myriam di Nàzaret, l’inno per eccellenza alla regalità di Dio che viene in soccorso di quanti invocano il suo aiuto, capovolgendo le situazioni e i criteri di giudizio per ristabilire la verità dell’essere contro la futilità dell’apparire. Immaginando che anche Gesù ha pregato con questo salmo, preghiamolo anche noi come un sacramento che ci conduce a lui.
 
Rit. Loda il Signore, anima mia.
 


1. 6 Il Signore rimane fedele per sempre
7 rende giustizia agli oppressi,
dà il pane agli affamati.
Il Signore libera i prigionieri. Rit-
2. 8 Il Signore ridona la vista ai ciechi,
il Signore rialza chi è caduto,
il Signore ama i giusti,
9 il Signore protegge i forestieri. Rit.
3. Egli sostiene l'orfano e la vedova,
ma sconvolge le vie dei malvagi.
10 Il Signore regna per sempre,
il tuo Dio, o Sion, di generazione in generazione. Rit.


 
Seconda lettura Gc 2,1-5. Domenica scorsa Giacomo ci aveva lasciato con il gusto della giustizia di Dio che non fa preferenze di persone, ma vuole essere incontrato in una «religione pura»: assistere chi è nel bisogno come vedove e orfani (1,17). La lettura di oggi estende questa prospettiva alle assemblee liturgiche che devono essere lo specchio della vita e non l’occasione della vanagloria. Il culto che celebriamo è strettamente connesso alla vita che viviamo: l’uno e l’altra camminano insieme. La vita dà contenuto al rito e il rito esprime lo spessore della vita. L’assemblea eucaristica è il sacramento della verità sia della vita che della qualità del rito.
 
Dalla lettera di Giacomo apostolo 2,1-5
Fratelli miei, 1 la vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria, sia immune da favoritismi personali. 2 Supponiamo che, in una delle vostre riunioni, entri qualcuno con un anello d'oro al dito, vestito lussuosamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro. 3 Se guardate colui che è vestito lussuosamente e gli dite: «Tu siediti qui, comodamente», e al povero dite: «Tu mettiti là, in piedi», oppure: «Siediti qui ai piedi del mio sgabello», 4 non fate forse discriminazioni e non siete giudici dai giudizi perversi? 5 Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del mondo, che sono ricchi nella fede ed eredi del Regno, promesso a quelli che lo amano? - Parola di Dio.
 
Canto al Vangelo Mc 7,37
Alleluia. Gesù annunciava il vangelo del Regno / e guariva ogni sorta di infermità nel popolo. Alleluia.
 
Vangelo Mc 7,31-37. Il racconto della guarigione del sordomuto è costruito sullo stesso schema della guarigione del cieco (cf Mc 8,22-26) e tutti e due sono inseriti nella «sezione dei pani»: hanno quindi la stessa lezione morale e la medesima funzione eucaristica. Sono coinvolti tre sensi dell’uomo: l’udito, cioè l’ascolto; la lingua cioè la parola e gli occhi cioè la vista. Secondo la concezione del tempo, sordità e mutismo erano castighi di Dio (cf Mc 4,10-12; 8,18) perché toccano i due funzioni essenziali della vita religiosa: l’ascolto della Toràh e la lode nell’assemblea. La guarigione da questi castighi è segno della salvezza che diventa un modello per la iniziazione alla fede in ogni tempo, di cui una piccola traccia è rimasta nel rito del battesimo. Gesù è colui che viene a spezzare la sordità e a restituire la parola per aprire l’umanità alla visione del volto di Dio che noi ora gustiamo in anticipo nella celebrazione dell’Eucaristia. Ascoltare, parlare e vedere tre conseguenze della fede fondata sul mistero dell’incarnazione, che, a sua volta, si realizza nell’incontro sperimentale, di cui nell’Eucaristia ne sperimentiamo l’intensità. Imparare ad ascoltare, a parlare e a vedere è l’inizio della vita nuova, di ogni vita.
 
Dal Vangelo secondo Marco Mc 7,31-37
[(Gesù si trova in Galilea) 24 Partito di là, andò nella regione di Tiro e di Sidone… (segue il racconto della guarigione della figlia della donna sirofenicia: Mc 7,24-31)]
 
31 In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. 32 Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. 33 Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; 34 guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». 35 E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. 36 E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano 37 e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!». - Parola del Signore.
 
Spunti di omelia
Mc colloca il miracolo del sordomuto dentro una cornice geografica molto precisa, evento molto strano nei vangeli che normalmente sono generici. E’ un invito ad una maggiore attenzione. Gesù si trova in territorio pagano, a Tiro, nell’attuale Libano (antica Fenicia) sul mare Mediterraneo. Tiro è a km 50 circa a nord di Hàifa, la più importante città della Galilea ovest. Gesù vuole tornare in Galilea est, a Cafàrnao, nella sua patria sul lago di di Tiberiade, detto «mare di Galilea».  Per fare questo tragitto, Gesù fa un percorso strano, contro ogni logica: invece di andare a sud-est si dirige a nord verso Sidone, sempre in Libano, distante circa km 20 da Tiro. Dopo un lungo inspiegabile giro, come dice la versione Cei, giunge «in pieno territorio della Decàpoli» (Mc 7,31). Il testo greco è suscettibile di una variante: «Essendo uscito dai territori di Tiro, attraverso Sidòne, giunse di nuovo al mare della Galilea attraverso il centro dei territori della Decàpoli», nell’attuale Giordania[8]. Sembra che l’evengelista si voglia preoccupare di dirci che è andato proprio lì: nel «centro dei territori della Decàpoli», cioè nel cuore di una zona pagana, e senza alcun nesso con «la terra d’Israele». Un viaggio strano[9] che dietro il non senso logico contiene un significato teologico. La liturgia, come al solito, spezzetta il testo senza tenere conto dei problemi stilistici e letterari per cui facilmente non aiuta a capire, ma confonde di più le idee. Il v. 31 deve essere collegato con il v. 24 con cui fa corpo perché tutti e due fanno riferimento a Tiro e Sidòne, formando così una inclusione che chiude il viaggio con un cerchio.
Il percorso a forma di semicerchio in senso orario (Tiro, Sidone, Decàpoli, Galilea) che compie Gesù ha lo scopo di comunicare al lettore che Gesù proviene dal territorio pagano, ma non entra nella Terra promessa che invece circumnaviga passando così dalla terra pagana del Libano alla terra pagana della Decàpoli. La Palestina è tagliata fuori. Egli arriva da ovest, dalla costa del Mare Mediterraneo via terra alla sponda orientale del mare di Galilea, nella regione di Geràsa (attuale Giordania) dove l’indemoniato liberato da Gesù ne aveva divulgato la fama (5,20). Questo lungo viaggio ha un scopo preciso: evitare di entrare nella terra di Israele.
La situazione è capovolta: Gesù che era venuto per le «pecore disperse d’Israele» (Mt 15,24; cf 10,6), ora è fuori i confini d’Israele e percorre le regioni pagane, ed evita accuratamente Eretz Israella terra d’Israele. Il puro diventa impuro e l’impuro puro. E’ un modo per giustificare e spiegare l’Troviamo qui in un semplice versetto geografico, apparentemente innocuo e illogico la teologia paolina del vangelo ai Gentili che non hanno bisogno della circoncisione per accedere alla fede in Gesù Cristo (cf 1Cor 7,19). Il versetto è la testimonianza della tensione che vi fu tra i primi cristiani di origine giudaica nell’accettare i nuovi credenti provenienti dal paganesimo. Marco, discepolo di Paolo, ci consegna il mandato missionario di un vangelo aperto ad ogni popolo il quale ha diritto di accesso alla fede senza condizione preliminare. Chiarito questo contesto, il resto è più facile, Gesù compie in territorio pagano gli stessi miracoli che compie in terra d’Israele, con le stesse modalità e alle stesse condizioni. Israele e Pagani per Gesù di Nazareth sono sullo stesso piano e nessuno può vantare diritti superiori a quelli degli altri. A tutti e due chiede solo la fede in Dio e nel Figlio dell’uomo (Gv 9,35-37).
Il racconto della guarigione del sordomuto è particolare perché è molto simile a quello del racconto del cieco (Mc 8,22-26) con il quale ha una serie di analogie che conviene osservare:
 
Mc 7: sordomuto
Mc 8: cieco
Analogie
1.
2.
3.
31  …in pieno territorio della Decàpoli
22 Giunsero a Betsàida,
Territorio: 1. pagano; 2. giudaico
gli portarono un sordomuto,
gli condussero un cieco
Stesso movimento della folla
e lo pregarono di imporgli la mano
pregandolo di toccarlo.
Stessa richiesta della folla
33a  Lo prese in disparte, lontano dalla folla,
23a Allora prese il cieco per mano, lo condusse fuori del villaggio e,
Stesso comportamento di Gesù: evita la folla
33c e con la saliva gli toccò la lingua
23b dopo avergli messo saliva sugli occhi,
Stesso rituale di esorcismo
33b gli pose le dita negli orecchi
23c gli impose le mani e gli chiese:
 
«Vedi qualcosa?».
 
34a guardando quindi verso il cielo,
 
Gesù si rivolge al Padre
34b emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè «Apriti!».
 
Formula liturgica «tecnica» aramaica.
 
24 Quello, alzando gli occhi, diceva:
Il cieco guarda il cielo
 
«Vedo la gente, perché vedo come degli alberi che camminano».
 
 
25 Allora gli impose di nuovo le mani sugli occhi
 
35 E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente.
ed egli ci vide chiaramente, fu guarito e da lontano vedeva distintam. ogni cosa.
Stesso risultato:
1. sordomuto: udito e lingua
2. cieco: vista
36 E comandò loro
26 E lo rimandò a casa dicendo:
Stesso comando di mantenere il segreto (= messianico).
di non dirlo a nessuno.
«Non entrare nemmeno nel villaggio».
Ma più egli lo raccomandava, più essi lo proclamavano 37 e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!». 
 
 
 
Gli elementi comuni sono sette:


 

1.      partecipazione della folla che porta il malato
2.      Gesù opera in disparte
3.      l’esorcismo dell’insalivazione
4.      contatto fisico con le mani
5.      sguardo al cielo
6.      imposizione del silenzio
7.      guarigione.


 

 
Questo schema sembra risentire del substrato di una liturgia di esorcismo e di guarigione consolidata perché si dà importanza a due sensi che sono essenziali per la fede: l’udito con la parola (e la vista in quella del cieco). L’ascolto con la lode e la visione. La Parola e il Volto. La relazione vitale. Non udire, non parlare e non vedere sono castighi di Dio (cf Mc 4,10-12; 8,18), probabili colpe dei padri scontate dai figli, per cui guarire da questi malanni significa ricevere la salvezza da Dio. Chi riceve la salvezza è chiamato a fare una scelta di rottura con il mondo circostante, qui identificato in un soggetto plurale impersonale (gli portarono) con un riferiemnto indistinto alla « folla»  (Mc 7,31; 8,22). Non si può servire due padroni. Per udire, parlare e vedere bisogna allontanarsi dalla folla perché questa non solo ne è incapace, ma può essere un impedimento. La folla ama le urla e le «sensazioni», la persona sapiente s’immerge nel silenzio d’ascolto e nella visione.
Nella massa, specialmente se condizionata dai mezzi di comunicazione controllati dal potere o da qualcuno senza scrupoli, l’individuo perde la propria capacità di valutazione e vive attraverso la mediazione di altri che ne determinano la mente, la coscienza e lo riducono a puro esecutore. La Chiesa deve essere lo spazio del disinquinamento, dove la coscienza ritrova la sua lucidità e il pensiero la sua libertà. Se la Chiesa si adegua alla mentalità corrente, viene meno al suo mandato che è quello di difendere «la libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,21). Ascoltare, parlare e vedere sono attività irrinunciabili per ogni persona: si può essere ciechi fisicamente, ma non si può non vedere la realtà che ci circonda; si può essere muti, ma non si può rinunciare alla comunicazione; si può essere sordi per una menomazione, ma non si può venire meno all’esigenza di ascoltare col cuore e con gli occhi i segni della vita e della vita di comunione.
Osserviamo da vicino il racconto. Gesù prima di guarire il sordomuto alza gli occhi al cielo (Mc 7,34), compiendo il gesto che nei vangeli sinottici è ricordato solo per la moltiplicazione dei pani (Mc 6,41; Mt 14,19; Lc 9,16), quindi in un contesto eucaristico. Potrebbe essere l’indizio che ci troviamo di fronte ad un rito liturgico di esorcismo nell’ambito dell’iniziazione cristiana che è basata sul rapporto «parola-ascolto-fede»[10]. A ciò si deve aggiungere l’insalivazione che ha un significato proprio perché la saliva è il respiro vitale solidificato e quindi «insalivare» significa trasmettere il soffio vitale (cf Gv 9,6) dello Spirito che genera la creazione e la rinnova (Gen 2,7; 7,20; Sap 15,15-16). La parola «Effatà» è un residuo aramaico (Ephphatàh) conservato da Mc (Mc 7,34) perché a lui preesistente. Questo testo dovrebbe essere approfondito all’interno di tutto il contesto e potrebbe costituire un buon fondamento dei sacramenti dell’iniziazione cristiana: battesimo, confermazione ed eucaristia. Noi non possiamo farlo qui nello spazio di una meditazione sulla Parola.
Se ci domandiamo qual è il senso della liturgia della Parola di oggi, non sbagliamo a dire che il senso riguarda l’iniziazione alla fede: sappiamo infatti che tutto il vangelo di Mc è scritto per i catecumeni, coloro cioè che per la prima volta si affacciano alla fede attraverso un lungo percorso di formazione, di sperimentazione e di condivisione che, nella Chiesa dei primi secoli durava anche tre anni. L’iniziazione alla fede nella Scrittura è quasi sempre illustrata come guarigione dal mutismo. Acquistare la parola significa iniziare a credere. Tutti i chiamati da Dio devono fare i conti con la parola e quindi con la loro balbuzie, con la paura di parlare la Parola di Dio (Es 4,10-17; Is 6; Ger 1). Se Mosè e Geremia si sentono inadeguati a possedere parole che possano esprimere la Parola, Ezechiele e l’autore dell’Apocalisse addirittura devono mangiare il rotolo/libro della Parola (Ez 2,8-3,3; Ap 10,8-11)), cioè identificarsi con la Scrittura per essere «profeti» e non padroni della Parola. Diventare la Parola è l’obiettivo del catecumeno che così entra nella dimensione profetica della sua vita: l’esempio più chiaro e più genuino si ha con Maria di Nàzaret che non solo non si oppone all’irruzione del Lògos/Parola che in lei diventerà carne e sangue umani, ma si offre con slancio di abbandonarsi totalmente alla nuova identità e personalità che la Parola opera in lei: «Oh, sì! Eccomi, sono la serva del Signore: che accada a me secondo la tua parola»[11].
Gesù resta fuori della Palestina per abbattere il muro della separazione (Ef 2,14) tra Israele e gli altri popoli, tra la Chiesa e tutte le nazioni, tra il vangelo e tutte le culture, tra l’Eucaristia e tutte le speranze umane. Quando Israele si allontana da Dio, uno dei castighi più gravi è il mutismo: tacciono i profeti e muore l’ascolto (1Sa 3,1; Is 28,7-13; Lam 2,9-10; Ez 3,22-27; Am 8,11-12; cf Gen 11,1-9). Essere muti significa non avere fede. Al contrario quando abbonda la Parola è segno che lo Spirito di Dio scorre come un fiume in piena perché sono iniziati i tempi del Messia e la fede scorre come un fiume (Lc 1,65; 2,17.38). Non a caso l’annuncio che tutto il popolo è un popolo di profeti (Gioe 3,1-2) si compia nel giorno di Pentecoste il giorno che rivede la riapertura del cielo per mostrare a tutti i popoli il volto di Dio Padre (At 2,1-3).
Se dovessimo fare una applicazione alla situazione storica attuale, dobbiamo constatare che assistiamo ad un tempo di decadenza che coinvolge la Chiesa nel suo insieme. Oggi anche il silenzio è stato sostituito dal «tacere» che domina incontrastato, per viltà o opportunismo. A volte si ha la sensazione che il mutismo da cui i cristiani sono colpiti sia quasi un castigo di Dio, una forma di esilio per richiamare alla conversione, al ritorno alla fede. Oggi abbondano forme religiose neopagane, ma langue la fede e la sua essenzialità che trova nel «silenzio orante» la sua massima espressione. Si può stare in silenzio davanti a Dio o davanti ad una tragedia, ad un dolore indicibile, mai e poi mai il cristiano può «tacere» di fronte all’ingiustizia, al sopruso, alla sopraffazione del ebole, specialmente se di altre culture e paesi perché è doppiamente povero: in quanto povero e in quanto straniero in terra altrui. Come poi si possa essere stranieri nella terra che è Dio e che tutti dobbiamo lasciare, al momento della morte, è uno dei drammi della nostra «inciviltà» occidentale e cristiana che mentre con il suo sistema economico perverso crea la povertà e i poveri, li espelle anche e li rifiuta come escrescenze patologiche. Anche nel deserto dell’indifferenza, il credente deve gridare come il Battista: «Voce di uno che grida nel deserto» (Is 40,3; Mc 1,3; Gv 1,23).  I cristiani sono «afoni» e appiattiti alla logica del mondo, dove regna il caos, dove tutti parlano e nessuno ascolta; intanto i poveri e i non poveri cercano le risposte della vita nell’occultismo, nella magia e nello spiritismo che sono l’emblema osceno del mutismo e della superficialità ignorante[12].
Di fronte alle guerre, ai soprusi dell’economia dei forti, allo sfruttamento, alla violenza dei sistemi, all’illegalità scelta come criterio etico, molti cristiani, anche nella gerarchia, non reagiscono perché assuefatti al «sistema mondo». Stare dalla parte della profezia è rischioso e chi vive di fede deve rischiare e pagare di persona compromettendo anche interessi personali legittimi perché il tempo che viviamo è contemporaneamente tempo di silenzio davanti a Dio e tempo di parola davanti agli uomini. «Effatà – Apriti!» è l’invito che facciamo nostro nella coerenza della fede per essere capaci di dire agli smarriti di cuore di non temere i pericoli della vita perché il Signore è vicino attraverso di noi: Siamo noi che dobbiamo dire ai ciechi di vedere, agli zoppi di camminare e ai sordi di udire perché se non siamo capaci di compiere i miracoli della solidarietà, quale fede possiamo testimoniare? Dio con Isaia promette un capovolgimento anche della natura, noi quale capovolgimento della vita offriamo agli occhi del mondo sempre più distratto e più banale?
San Giacomo ci offre un criterio infallibile per verificare se i nostro cammino di credenti è autentico oppure se sta in piedi come un francobollo senza colla: il nostro atteggiamento di fronte ai poveri e ai ricchi che diventa la nostra condanna oppure la nostra salvezza. I cristiani cominciarono già da subito, nel sec. I, a deviare dalla «Via» (At 19,9; 24,16; 16,17) e a fare preferenze di persone: è una tentazione sempre in agguato e per questo dobbiamo vigilare per non cadere in tentazione (cf Lc 22,40.46). «Effatà – Apriti!» è l’invito a spalancare il nostro udito e la nostra mente ai pensieri e alle parole di Dio per essere in grado di percepire le parole di vita e i sussurri di aiuto che provengono dal cuore degli uomini e delle donne del nostro tempo, ai quali dobbiamo parlare di Dio attraverso la nostra testimonianza perché possano ascoltarlo e contemplarlo. Con l’aiuto di Dio vogliamo aprirci all’azione di novità dello Spirito Santo, vogliamo aprirci al mondo che Dio ama, all’amore e alla misericordia per annunciare con la nostra vita che vale la pena vivere, nonostante tutto, perché Dio ci ama e ci manda ad amare. «Effatà – Apriti!» è sconfinamento, immensità: l’opposto esatto e contrario di chiusura e grettezza.


[1] I testi liturgici sono tratti dal nuovo lezionario, entrato in vigore con la 1a domenica di Avvento-A del 2007.
[2] La lettera ha un percorso progressivo, conosciuta da Orìgene come Scrittura ispirata, è contestata da altri come afferma apertamente Eusebio di Cesarea. Non è consociuta da Tetulliano e Cipriano. Non compare nemmeno a Roma (canone di Muratori, attribuito a Sant’Ippolito (circa 200 d.C.). Nel sec. IV fu accolta nel loro canone dalle Chiese siariache e infine lungo il corso del secolo da tutte le Chiese d’oriente e d’occidente. Per le questioni inerenti l’autore, che la tradizione riconosce in «Giacomo, fratello del Signore» (Mc 6,3 Mt 13,55, ecc.), l’attribuzione della lettera e altre questioni, cf Bibbia di Gerusalemme, edizione Cei 2008, 2872-2876.
[3] Il brano odierno della 1a lettura, appartiene al blocco formato dai capp. 34 e 35 di Isaia detta «piccola apocalisse» per distinguerla dai capp. 24-27 che costituiscono la «grande apocalisse». Le due apocalissi descrivono il giudizio di Dio sulla storia nel giorno del Messia: un giorno di «verità» compiuta, in cui ognuno svelerà le intenzioni del suo cuore perché il giorno del giudizio sarà contemporaneamente giorno di salvezza e di condanna. Non sarà consentito essere diversi da quello che veramente si è e si è stati. Nessuno potrà barare. Il giudizio di Dio è la condanna alla verità di noi stessi su noi stessi e quindi alla conoscenza della verità di Dio. Il giudizio di Dio è il compimento definitivo del cammino verso la maturità e la pienezza come realizzazione dell’unità del nostro «io» a cui abbiamo aspirato per tutta la vita. In quel giorno non vi saranno più differenze e fratture tra quello che pensiamo e quello che diciamo, tra quello che diciamo e quello che preghiamo, tra quello che preghiamo e quello che facciamo, tra quello che facciamo e quello che speriamo, tra quello che speriamo e, tra quello che amiamo e quello che viviamo. In quel giorno sperimenteremo l’ecumenismo personale.
[4] Il brano odierno prosegue la lettura della lettera di Giacomo, iniziata domenica scorsa. Abbiamo già conosciuto il giudizio sprezzante di Lutero che la definì «lettera di paglia», influenzando pesantemente gli studi successivi. Oggi la lettera è rivalutata anche in campo protestante. Per una panoramica generale, tematico ed esegetico, cf G. C. Bottini, Giacomo e la sua lettera, Franciscan Printing Press, Jerusalem 2000.
[5] Il titolo «Signore» applicato anche a Dio Padre ricorre appena 6x in tutta la lettera (Gc 1,1; 2,1; 5,7-8. 14.15) mentre il titolo «Cristo» appare solo 2x: qui e in Gc 1,1. In tutta la lettera inoltre non si parla mai di «morte e risurrezione» di Gesù. Già queste informazioni ci mettono di fronte ad una lettera che non si può leggere superficialmente, ma esige un approfondimento particolare.
[6] Gesù, come spesse volte abbiamo sottolineato si ispira in questa affermazione alla tradizione giudaica che parlava di dieci/sette «cose» create «prima» della stessa creazione (cf Dom. 19a ordinaria B p. 7 dove è riportato il testo del trattato di Pirqé Avòt-Massime dei Padri del Talmud; cf. anche Appendice 5 a Dom. 21a ordinaria B pp. 14-15, nota 13).
[7] Il «cuore» è la coscienza, sede della vita e dei sentimenti nobili (amore, amicizia, benevolenza, ecc.), mentre i «reni» sono l’inconscio, sede dei istinti negativi (abbrutimento, violenza, sessuomania, ecc.); cf Sant’Agostino: «Intimior íntimo meo – più intimo [a me] della mia [stessa] intimità» (Conf. 3, 6, 11).
[8] La Decàpoli  è un territorio situato prevalentemente nella parte nord-orientale della Palestina a sud del Mare di Galilea. Prende il nome da una confederazione di dieci città (decàpoli) di cui nove (Pella, Dione, Gadàra, Ippo, Filadèlfia, Geràsa, Rafàna, Damàsco, Canata) si trovano ad est del Giordano (nell’attuale Giordania), e una (Scitopoli) ad ovest del fiume. I Greci vi abitavano dal 200 a.C., e dopo la campagna di Pompeo (65-62 a. C.) i Romani liberarono alcune città dai Giudei, organizzandole a difesa dell’espansionismo romano contro le popolazioni semitiche circostanti. Nel 1 d.C. le dieci città formarono un patto per commercio e difesa contro i Giudei ed altri popoli semitici. Folle dalla Decàpoli seguivano Gesù all’inizio del suo ministero pubblico Mt 4:31. Gesù vi si recò almeno due volte (Mc 5,1.20; 7,31: la presenza di porci indica una zona di non giudei). La chiesa di Giudea durante la persecuzione riparò nella città di Pella nella Decàpoli prima della guerra del 66 d.C. che si concluse con la distruzione di Gerusalemme nel 70 d.C.
[9] Come dire che volendo andare da Genova a Firenze si diresse a Milano da qui a Brescia per poi dirigersi a sud verso Firenze. Questo percorso «impossibile» si giustifica solo letterariamente per il messaggio che nasconde.
[10] I rituali più antichi prevedevano un rito specifico per i sensi: occhi (At 9,18), naso e orecchi (Tradizione di Ippolito, n. 20, ecc.). Anche il rituale prima della riforma conciliare prevedeva l’esorcismo con la saliva sulle orecchie, sugli occhi e sulle labbra del battezzando. La riforma del rito del battesimo di Paolo VI (29 giugno 1970) ha mantenuto solo una traccia: il rito dell’Effetà: «Il celebrante tocca, con il pollice, le orecchie e le labbra dei singoli battezzati, dicendo: “Il Signore Gesù, che fece udire i sordi e parlare i muti, ti conceda di ascoltare presto la sua parola, e di professare la tua fede, a lode e gloria di Dio Padre”» (Rito del battesimo, n. 74): il riferimento al vangelo odierno è diretto.
[11] La nostra traduzione è più corrispondente al contesto della narrazione dell’Annunciazione (Lc 1,26-38) ed esprime meglio e più intimamente i sentimenti di Maria in modo attivo e partecipe e non passivo e quasi rassegnato come sembra essere il clima della traduzione ufficiale: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (Bibbia Cei 2008). L’interiezione «Idù» che normalmente viene tradotto con l’incolore «Ecco!», deriva dalla radice «id» del verbo «horàō – io vedo/osservo/scruto» e deriva dalla forma dell’imperativo aoristo medio: riflette cioè l’azione sul soggetto che la compie e si potrebbe tradurre con «Guarda/osserva/scruta nel mio interno» e contempla quello che accade. Maria invita l’angelo a guardare «dentro la sua anima» per vedere la corrispondenza con la Parola appena annunciata che è già incarnata.
[12] Davanti a noi si staglia l’accusa della Storia che nasce dal fatto che il «tacere» del mondo occidentale e in modo particolare del mondo cattolico davanti allo scempio orrendo e vergognoso del nazifascismo ha prodotto come effetto la Shoàh del popolo ebraico insieme alla distruzione totale di moltissime altre persone. Tutti sapevano e tutti tacettero, girandosi dall’altra parte: salvarono al vita, forse, ma perdettero l’anima e anche qualcosa in più: l’onore e la dignità.

 

Domenica 18a del tempo ordinario – B – Parrocchia di S. M. Immacolata e S. Torpete
© Nota: L’uso di questi commenti è consentito citandone la fonte bibliografica
Paolo Farinella, prete – 06/09/2009 – – San Torpete,Genova


Mercoledì 02 Settembre,2009 Ore: 17:01
 
 
Ti piace l'articolo? Allora Sostienici!
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori

Print Friendly and PDFPrintPrint Friendly and PDFPDF -- Segnala amico -- Salva sul tuo PC
Scrivi commento -- Leggi commenti (0) -- Condividi sul tuo sito
Segnala su: Digg - Facebook - StumbleUpon - del.icio.us - Reddit - Google
Tweet
Indice completo articoli sezione:
Il Vangelo della domenica

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito


Ove non diversamente specificato, i materiali contenuti in questo sito sono liberamente riproducibili per uso personale, con l’obbligo di citare la fonte (www.ildialogo.org), non stravolgerne il significato e non utilizzarli a scopo di lucro.
Gli abusi saranno perseguiti a norma di legge.
Per tutte le NOTE LEGALI clicca qui
Questo sito fa uso dei cookie soltanto
per facilitare la navigazione.
Vedi
Info