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ISSN 2420-997X

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www.ildialogo.org * Domenica 18a per annum – B – 2 agosto 2009 –,a cura di don Paolo Farinella

* Domenica 18a per annum – B – 2 agosto 2009 –

a cura di don Paolo Farinella

* Domenica 18a per annum – B[1]
– 2 agosto 2009 –
Con la domenica 18a del tempo ordinario-B, come abbiamo precisato domenica scorsa, continua il ciclo di cinque domeniche, iniziato domenica scorsa, che interrompono la lettura continua di Mc con una incursione nel vangelo di Giovanni che integra Mc perché troppo corto per coprire l’intero ciclo di 34 domeniche del tempo ordinario-B. In queste domeniche la liturgia prende il capitolo 6 di Gv il «discorso sul pane» come risposta di Gesù al disorientamento e alla dispersione del popolo di Israele: «ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore» (Mc 6,34), riprendendo così la predicazione profetica come giudizio sull’autorità d’Israele che per i suoi interessi abbandona il popolo al suo destino. Gesù al contrario è il «pastore bello» che non esita lasciare le novantanove pecorelle al chiuso, al sicuro dell’ovile e ad andare alla ricerca di una sola pecora perduta (cf Lc 15,1-4). La storia della Chiesa, antica e contemporanea, spesso ci pone di fronte ad un dato inequivocabile: quando chi esercita autorità nella Chiesa, distoglie lo sguardo e il cuore dal volto di Dio e comincia a fare calcoli di convenienza e di prudenza interessata, di solito cammina da solo e non si occupa del popolo, il quale cerca altre vie autonome di religiosità, magari deformate, ma indipendenti come è avvenuto nel Medio Evo con i diversi ordini, aggregazioni laicali e confraternite che hanno costruito una chiesa parallela spesso in conflitto con quella ufficiale.
La 1a lettura riporta un momento della traversata nel deserto degli Ebrei verso la terra promessa. Il racconto è tardivo, del dopo esilio (sec. V/IV a. C.) e quindi è una riflessione omiletica (midràsh) che riflette sulla storia passata, ampliando dati e significati che ormai hanno perso ogni contatto con la narrazione storica. Il brano di oggi quindi non deve essere preso come «storico», ma come teologico. Quante volte noi, di fronte ad una insperata soluzione di un problema, diciamo istintivamente: «E’ un miracolo!», ben sapendo che non c’entra affatto alcun intervento divino, almeno in linea teorica. La «manna» è forma italianizzata dell’ebraico «Man-uh» di cui non conosciamo il significato vero, ma solo l’etimologia popolare: «Che cosa è?». Essa indica la resina di un arbusto del deserto che si forma per essudazione. Forse in un giorno particolare se ne formò così tanta in modo inaspettato che fece gridare anche qui «al miracolo!». La tradizione orale parlava di un prodigio capitato una sola volta, che col passare del tempo si trasformò in uno «schema» narrativo e celebrativo con la manna diventata «cibo quotidiano» permanente.
Nel racconto sono inserite due tradizioni: quella antica del sec. X a.C., detta Yavhista, perché chiama Dio con nome Yavhè, mette in primo piano l’intervento di Dio (Es 16,4) e quella più recente del sec. VI-V a. C., la Sacerdotale, nata durante l’esilio di Babilonia, che integra la precedente aggiungendovi elementi sacerdotali e rituali, tipici di questo movimento come la figura di Aronne posta accanto a Mosè (Es 16,2.6); sottolineando il valore legale del «sabato» e sulla funzione del sacerdote come mediatore (cf Es 16,5 e 7-8, qui assenti); infine sottolineando il carattere quotidiano del pane celeste che è il nutrimento essenziale del popolo nel deserto (Es 16,4b). Un racconto come quello della manna con la sua caratteristica di «evento meraviglioso» o miracoloso, oggi non sarebbe più possibile, ma non per mancanza di fede, quanto piuttosto per una maggiore conoscenza del volto di Dio, rivelato in Gesù, e del suo agire.
Dio non abita nel meraviglioso , anzi dove il meraviglioso eccede o è abituale, è quasi certo che Dio è assente, sostituito da una caricatura di Dio, più vicino alla magia che alla rivelazione nella incarnazione. Dio è una persona seria e spesso ne facciamo un marionetta da baraccone. Per i credenti, Dio agisce nella Storia attraverso la coscienza degli uomini e la loro responsabilità, aiutando con il suo Spirito a capire il nesso tra le «cause seconde» che gli Ebrei del deserto fu la trasudazione inaspettata e abbondante di un arbusto, mentre per l’uomo contemporaneo è la solidarietà concreta dimostrata, per es., nella lotta efficace alla fame e alla sete nel mondo. Nessun miracolo è in grado di convertire perché per capire i miracoli, quando e se avvengono, è necessaria la luce della fede. Gli atei oggi hanno una funzione catartica e semplificatrice dell’immagine che di Dio hanno i credenti, obbligandoli ad interrogarsi sulla loro fede come scelta di vita e di impegno nel mondo.
La seconda lettura è tratta dall’ultima parte delle lettera agli Efesini, quella «parenetica» che significa esortazione (Ef 4-6). Quasi sempre le lettere del NT si chiudono con inviti esortativi adatti a dare fiducia, coraggio, sostegno o mettere in guardia da eventuali pericoli, come qui dove l’autore invita i suoi uditori a considerare il passaggio avvenuto dal paganesimo alla fede (cf Ef 4,17-19) per accettare la verità di Cristo (Ef 4,20-21) con l’invito morale finale a rivestire l’uomo nuovo (cf Ef 4,22-23).
Il vangelo riprende la seconda tappa del lungo discorso del pane che comprende tutto il capitolo sesto di Giovanni. Anche ad una lettura superficiale, chiunque può rendersi conto che qui non ci troviamo di fronte ad un discorso «storico» fatto da Gesù, ma ad una riflessione teologica sviluppata dalla comunità giovannea, ormai in avanzato stato di organizzazione e di sviluppo. In Gv il dato puramente storico si perde di fronte al significato che esso rivela. Cercare qui le parole di Gesù è quindi tempo perso. Gesù ha fatto la moltiplicazione dei pani (cf Gv 6,1-15), riscuotendo un immediato successo da parte della folla (cf Gv 6,22-25). Il brano di oggi mette le distanze tra il pensiero della folla che si accontenta di quello che vede, il pane materiale, il meraviglioso e l’atteggiamento di Gesù che invece si situa ad un livello interiore più profondo perché l’evangelista vuole attraverso il fatto svelare la personalità di Gesù (Gv 7ì6,26-27). Il vero «fatto storico» che conta è seguire Gesù e la sua proposta di salvezza (cf Gv 6,28-29). La folla resta delusa perché gli si rompe il giochino delle apparenze, della scenografia, del miracolo con cui giocare. Il contrasto diventa opposizione e l’opposizione rifiuto anche dell’evidenza: la folla valuta come «banale» la moltiplicazione dei pani che pure ha mangiato e in abbondanza e che mettono in paragone con la manna dei loro padri che invece è considerato, questi sì, un vero miracolo (cf Gv 6,30-31). Gesù è servito, ma non si scompone: egli ribatte di essere lui «il pane di vita» (cf Gv 6,32-35). Le folle osannanti sono pericolose perché come innalzano, così crocifiggono (cf Mc 15,12-15). Gesù non va mai dietro alle folle, ma si difende spesso da esso e fugge (cf Gv 6,15) perché la folla non è popolo e non ha anima, ma solo emotività superficiale che cambia secondo l’umore del momento o in misura di chi grida più forte.
Se si vuole incontrare Gesù bisogna uscire dallo schema della religione che imprigiona la relazione affettiva e sprigiona solo l’adempimento formale, rituale e ripetitivo. Dicendo di essere il «pane disceso dal cielo», Gesù invita ciascuno di noi ad entrare nella logica di Dio che chiede di comunicare con noi: in fondo mangiare insieme è il segno dell’intimità di vita. L’Eucaristia è questo traguardo, ma anche punto di partenza: qui non c’è il miracolo banale o sontuoso perché siamo di fronte alla Parola che viene affidata alla verità dell’ascolto di chi la vuole ricevere e ad un pane talmente povero che deve spezzarsi per farsi nutrimento di molti fino a scomparire. Veramente Dio annienta se stesso per rinascere dentro di noi e stabilire con noi un contatto profondo che solo la coscienza sa decifrare. Con questi sentimenti oggi ci accostiamo alla mensa della Parola e del Pane, invocando lo Spirito che venga in aiuto alla nostra debolezza (cf Rm 8,26). Iniziamo con le parole dell’antifona d’ingresso (Sal 70/69,2.6): «O Dio, vieni a salvarmi, Signore, vieni presto in mio aiuto. Tu sei il mio aiuto e il mio liberatore: Signore, non tardare».
 
 
Testi biblici
Prima lettura Es 16,2-4.12-15. L’esodo è l’evento «fondativo» del popolo ebreo come popolo, prima e come popolo di Dio successivamente. A questo evento ritorna sempre ogni Ebreo per ritrovare la sua identità e la sua speranza. Questo fatto spiega anche come generazione ha interpretato i fatti dell’esodo e li ha incarnati nel proprio vissuto, arricchendo il fatto storico primitivo di particolari spesso con valore simbolico. I brano di oggi narra un momento tragico dell’esodo: lo scoraggiamento degli Ebrei la cui depressioni li porta a rimpiangere la schiavitù (cf Es 16,3). In queste condizioni accade un fatto: una pianta resinosa produce tanto succo da riuscire a sfamare il popolo (cf Es 16,14) che l’autore Yhavista vi legge il segno di un intervento di Dio (cf Es 16,4). Quattro, cinque secoli dopo lo stesso fatto sarà reinterpretato in ambiente sacerdotale con l’aggiunta di nuovi sensi e nuovi simboli: l’importanza di Aronne sacerdote, messo sullo stesso piano di Mosè, il valore del sabato (qui assente) e la soprannaturalità del cibo (cf Es 16,2.4.15). L’elemento comune è che la storia è storia di provvidenza perché Dio non abbandona mai chi cammina nel deserto alla ricerca del senso della vita. La prova che questa provvidenza è ancora attuale è nell’Eucaristia che viene imbandita per noi con il Lògos e il Pane discesi dal cielo.
 
Dal libro dell’Esodo 16,2-4.12-15
In quei giorni, nel deserto tutta la comunità degli Israeliti mormorò contro Mosè e contro Aronne. Gli Israeliti dissero loro: «Fossimo morti per mano del Signore nella terra d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatto uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine». Allora il Signore disse a Mosè: «Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno, perché io lo metta alla prova, per vedere se cammina o no secondo la mia legge. 12 Ho inteso la mormorazione degli Israeliti. Parla loro così: “Al tramonto mangerete carne e alla mattina vi sazierete di pane; saprete che io sono il Signore, vostro Dio”». 13 La sera le quaglie salirono e coprirono l’accampamento; al mattino c’era uno strato di rugiada intorno all’accampamento. 14 Quando lo strato di rugiada svanì, ecco, sulla superficie del deserto c’era una cosa fine e granulosa, minuta come è la brina sulla terra. 15 Gli Israeliti la videro e si dissero l’un l’altro: «[Man hu] Che cos’è?», perché non sapevano che cosa fosse. Mosè disse loro: «È il pane che il Signore vi ha dato in cibo». - Parola di Dio.
 
Salmo responsoriale 78/77, 1-2; 34-35; 36-37; 38. Il salmo 78/77 è molto lungo: si compone infatti di 72 versetti, di cui la liturgia ne riporta solo sei. E’ un salmo di meditazione a scopi didattici perché, ispirandosi allo spirito del Deuteronomio, invita a riflettere sulla storia d’Israele, le sue colpe e i conseguenti castighi di Dio. L’autore mette in evidenza la responsabilità di èfraim, antenato dei Samaritani, l’elezione divina di Giuda e la scelta di Davide come re/pastore d’Israele. Il salmo ha lo scopo d’insegnare che Dio è presente e vicino, anche quando la sua vicinanza non è evidente. I versetti di oggi richiamano la tradizione della manna , definita «pane degli angeli» (v. 24). Proclamando questo salmo nella santa Assemblea eucaristica, noi professiamo la nostra fede nella presenza indefettibile dello Spirito del Signore nella nostra vita e nella Storia dell’umanità.
 
Rit.Donaci, Signore, il pane del cielo.
 


1. 3 Ciò che abbiamo udito e conosciuto
e i nostri padri ci hanno raccontato
4 non lo terremo nascosto ai nostri figli,
raccontando alla generazione futura
le azioni gloriose e potenti del Signore
e le meraviglie che egli ha compiuto. Rit.
2. 23 Diede ordine alle nubi dall’alto
e aprì le porte del cielo;
24 fece piovere su di loro la manna per cibo
e diede loro pane del cielo. Rit.
3. L’uomo mangiò il pane dei forti;
25 diede loro cibo in abbondanza.
54 Li fece entrare nei confini del suo santuario,
questo monte che la sua destra si è acquistato. Rit.


 
Seconda lettura Ef 4,17.20-24. La lettera agli Efesini è uno sviluppo organico di quella ai Colossesi, scritte probabilmente intorno agli anni 52/53 da Efeso, dove Paolo ha soggiornato tre anni e di cui poco sappiamo. Il brano proposto dalla liturgia è tratto dalla seconda parte della lettera (cc. 4-6), definita parenetica, cioè esortativa riguardo ai comportamenti concreti. Paolo aveva illustrato le esigenze dell’unità dei credenti (4,1-16), ora passa ad una serie di esortazioni sparse tra loro[2]L’esito di incontrare «Verità che è Gesù» (Ef 4,21) consiste nell’acquisire un nuovo vestito: a differenza di Adam che deve rivestire pelli di animali morti (Gen 3,21), il credente è chiamato a «rivestite l’uomo nuovo» (Ef 4,24), che una immagine che rimanda al battesimo. L’etica cristiana è mostrare il volto di Dio e renderlo accessibile alle persone del nostro tempo..
 
Dalla lettera di Paolo Apostolo agli Efesini 4,17.20-24
Fratelli, 17 vi dico e vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani con i loro vani pensieri. 20 Voi non così avete imparato a conoscere il Cristo, 21 se davvero gli avete dato ascolto e se in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, 22 ad abbandonare, con la sua condotta di prima, l’uomo vecchio che si corrompe seguendo le passioni ingannevoli, 23 a rinnovarvi nello spirito della vostra mente 24 e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità. - Parola di Dio.
 
Vangelo Gv 6,24-35
L’obiettivo principale, ultimo, della nostra ricerca deve essere non il pane materiale, simbolo dei beni necessari alla vita terrena, ma Gesù, “vero pane disceso dal cielo” per la vita che non finisce. Come la moltiplicazione dei cinque pani d’orzo, l’eucaristia saggia, e al tempo stesso sostiene, la fede.
 
 
 
Dal Vangelo secondo Giovanni 6,24-35
In quel tempo, 24 quando la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafàrnao alla ricerca di Gesù. 25 Lo trovarono di là dal mare e gli dissero: «Rabbì, quando sei venuto qua?». 26 Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. 27 Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo». 28 Gli dissero allora: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?». 29 Gesù rispose loro: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato».
30 Allora gli dissero: «Quale segno tu compi perché vediamo ti crediamo? Quale opera fai? 31 I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: “Diede loro da mangiare un pane dal cielo”». 32 Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. 33 Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo». 34 Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane». 35 Gesù rispose loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!». - Parola del Signore.
 
Spunti di omelia[3]
Se domenica scorsa, i nostri occhi contemplavano il pane dei poveri, i pani d’orzo di Eliseo e della moltiplicazione di Gesù, oggi, la domenica 18a  del tempo ordinario-B, la 2a che la liturgia dedica a Gv 6, ci obbliga alla contemplazione del «Pane (disceso) dal cielo, quello vero» (Gv 6,32-33). Domenica scorsa Gv ha descritto il «fatto» materiale del miracolo, o meglio il «segno del pane» che rinnova e supera quello antico della «manna». Oggi, saltando la seconda unità di Gv 6[4], la liturgia propone la terza unità che impone ai suoi ascoltatori il passaggio dalla esteriorità del fatto all’interiorità del senso. Questo passaggio è rifiutato dalla folla che cambia atteggiamento e diventa ostile: l’entusiasmo per il successo di Gesù, operatore di miracoli, raggiunge il vertice del parossismo, quando lo si vuole fare Re (Gv 6,22-25), ma di fronte alla necessità di dovere scegliere e coinvolgersi sul piano di fede (Gv 6,30-31), la folla denigra lo stesso miracolo e lo contrappone a quello della «manna»: il passato è superiore al presente. Rifugiarsi nel passato è spesso molto più comodo e facile che non affrontare l’incertezza del futuro che esige atteggiamento interiore di ricerca, confronto, decisioni per scegliere, capacità di discernimento. Il passato invece è ripiegarsi su se stessi, è chiusura all’azione dello Spirito che anima la Storia di ogni tempo.
In Gv 6,15 Gesù era rimasto «sul monte, lui da solo», mentre i suoi discepoli erano partiti, ma non Gesù che «non era salito con i suoi discepoli sulla barca » (Gv 6,22). Non sappiamo pertanto in che modo Gesù si trova «al di là del mare», a Cafarnao (vv. 24-25)[5]. Questo via vai sul mare, oltre al richiamo del passaggio del Mare Rosso, mette in evidenza una scena movimentata: gente che si muove, che corre, che si sposta da una riva all’altra; chi parte e chi resta… il lettore è coinvolto, quasi invitato a prendere parte a questo dinamismo che si mette in moto attorno alla persona di Gesù. Ogni volta che c’è Gesù tutto si mette in movimento: la natura, le barche, i discepoli, la gente, gli egoismi, gli interessi, la diffidenza, la fede, l’incredulità, il desiderio di cercare, di trovare e d’incontrare o fallire l’incontro. Anche quando Gesù non c’è, fisicamente, la sua presenza attesa guida dall’una all’altra riva. E’ un modo plastico per dire che Gesù è il Signore della Storia[6].
La folla lo ricerca freneticamente per usufruire ancora dei miracoli che danno pane, ma ben presto, messa di fronte alla scelta, rivela che cercava Gesù non per trovarlo, ma per sfruttarlo in termini di interessi immediati e di spettacolarizzazione: «Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? (= possiamo crederti?). Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto» (Gv 6,30-31), eppure è la stessa gente che domenica scorsa, «visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: “Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!”» (Gv 6,14). E’ evidente che ancora la folla non sa «abbandonare, con la sua condotta di prima, l’uomo vecchio …»  senza potersi rinnovare  «nello spirito della vostra mente e rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità» (2a lettura: Ef 4,22-24).
Possiamo anche «cercare» Gesù, possiamo anche «trovarlo» materialmente, possiamo anche attraversare il mare per andare «dove lui si trova», ma non è scontato che lo incontriamo ed entriamo in intimità con la sua «vera identità»: spesso incontriamo l’immagine che noi ci siamo fatti di Lui, un’immagina gratificante e confortevole, rassicurante come quella di idolo a buon mercato; vediamo la sua caricatura e c’illudiamo di conoscerne il volto, senza preoccuparci che così testimoniamo non il volto di Dio, ma una sua caricatura[7]. Gv usa un vocabolario specifico per indirizzarci sulle tracce del «mistero» della personalità di Gesù: Chi è Gesù per me?
Il verbo «zetèō – io cerco» in Gv si trova 17x su un totale nel NT di 60x; nel vangelo di oggi (Gv 6,24-35) lo si trova 2x (Gv 6,24 e 26), mentre il verbo «eurìskō – io trovo» in Gv si trova 21x su un totale nel NT di 98x (+ 1x nelle lettere e 11x in Ap); nel vangelo di oggi si trova 1x (Gv 6,25)[8]ō eimì» (cf Es 3,14)m versione da cui dipende anche Giovanni come tutto il NT.  Questa espressione traduce il Nome proprio di Dio che non si pronuncia mai, perché ineffabile, indicibile da labbra umane, il sacro Tetragramma[9] L’espressione di auto-rivelazione, complessivamente ricorre 26x nel IV vangelo e 10 immagini, così suddivisa:: «YHWH». Qui è uno dei vertici che dànno le vertigini di tutta la Bibbia: Gv, infatti, identifica Gesù, l’uomo di Nàzaret con YHWH, il Dio dei padri, «il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe» (Es 3,15), il Dio che irrompe nella storia in difesa dei poveri e degli oppressi (cf Es 3,7-8).  Dietro il volto umano dell’uomo si cela il Dio dell’esodo e dell’alleanza, il Dio di Abramo e di Adamo, il Dio dell’alleanza e della creazione, il Dio della promessa e della realizzazione. Per questo Gesù può dire: «Io-Sono il pane disceso dal cielo» (Gv 6,41; cf. Gv 6,58).. Gesù stesso rivela la sua «personalità autentica» con una espressione particolare che ha un fascino e una intensa reminiscenza, perché è la formula di auto-presentazione di Yhwh che si rivela a Mosè sul Monte Sinai: «Io-Sono» che in ebraico suono  «’eheyeh» e che la Bibbia greca della Lxx traduce in greco con «eg
 
Io sono (gr. Egō eimì)                        (4,26; 6,20, 8,24.28.58; 9,9; 13,19; 18,5.6.8) =         10
Io sono il pane                                                (Gv 6,35.41.48.51)                                        04
Io sono il pane della vita                    (Gv 6,35. 48.)                                                02
Io sono la luce                                                (8,12)                                                             01
Io sono il testimone                            (8,18)                                                             01
Io sono la porta                                  (10,7.9)                                                                      02
Io sono il pastore bello                                   (10,11.14)                                                      02
Io sono la risurrezione                                    (11,25)                                                                       01
Io sono la via, la verità e la vita                      (14,6)                                                             01
Io sono la vite (15,5) vera                  (15,1)                                                             02        = Totale 26
 
Applicando la ghematrìa (la scienza dei numeri), che al tempo di Gesù si applicava alla lettura della Scrittura per interpretarla, insieme a tanti altri modi, scopriamo che il n. 26 è la somma delle lettere ebraiche che compongono il Nome di «YHWH». Un ebreo al tempo di Gesù capiva subito: Se Yhwh ha un valore di 26 e 26 sono le formule di auto-presentazione di Gesù «Io-Sono», il risultato è semplice: quel Gesù che parla, insegna, opera segni … non è un uomo, ma è YHWH in persona che è in mezzo a noi. Yhwh ha dato a Israele la «Legge» come opera da compiere, opera che gli ebrei hanno trasformato «in opere»: i 336 precetti che hanno trasformato  il rapporto amoroso dell’alleanza in un giogo pesante da portare, tanto pesante da scadere in una trasgressione continua. Gesù al contrario esige una sola opera, la fede: «Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato» (Gv 6,29).
Gv presenta la fede in Gesù non come una acquiescenza intellettuale, ma come un «lavoro» faticoso[10]Tutto il brano è centrato sulla scoperta della vera personalità di Gesù: i segni che egli opera sono indizi lasciati a noi perché giungiamo al vero e unico segno: l’opera della fede, la sola che possa farci capire la portata e il senso dei segni di Dio (Gv 6,29). che implica impegno, costanza, lavoro, sofferenza: «Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna» (Gv 6,27). Alla fine della nostra giornata di credenti, dobbiamo sentire la stanchezza e la fatica di avere lavorato, il peso della giornata (cf. Mt 20,12). Cercare Gesù, trovarlo, incontrarlo, averne fame, scoprirne il volto e la personalità vera è una fatica, un lavoro che c’impegna il giorno dell’intera vita.
Siamo alla 3a unità letteraria di Gv 6, che comprende i vv. 26-34, la liturgia riporta invece i vv. 24-35 che noi distacchiamo graficamente per aiutare a leggere la struttura (cf nota 4). Inizia il dialogo tra Gesù è la folla, con cui Gesù spiega il senso del «segno» che ha appena operato, contrapponendo il pane che la folla ha mangiato con il cibo che non perisce, ma che dura per la vita eterna (Gv 6,26-27). Infine Gesù invita a credere in lui in quanto inviato su cui il padre ha posto il suo sigillo (Gv 6,29.27). Si mettono in relazione pane e fede perché la seconda senza il primo non si regge in piede: sacco vuoto non sta in piedi, annota la saggezza popolare. La fede deve essere nutrita in modo costante perché vive e muore come una persona.  In questa unità, il v. 29, in cui Gesù invita alla fede, si trova materialmente al «centro» dell’unità, imperniata sul tema del pane. Anche in questa unità vi troviamo una inclusione così da formare un andamento circolare:
 
A  26 Gesù rispose: “In verità, in verità vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni,
ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati.
27 Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo». 28 Gli dissero allora:
B    «Che cosa dobbiamo compiere per fare
C    le opere di Dio?».
C’ 29 Gesù rispose loro: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato».
B’  30 Allora gli dissero: «Quale segno tu compi perché
A’ vediamo e ti crediamo? Quale OPERA fai?
B. 31 I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto:
C. “Diede loro da mangiare un pane dal cielo” (1x)».
C’. 32 Rispose loro Gesù: «In verità, in verità vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo (2x)
B’. ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero (3x). 
33 Infatti, il pane di Dio è colui che discende dal cielo (4x) la vita al mondo».
A’’ 34 Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane».
 [35 Gesù rispose: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà sete, mai»].
 
In A’ l’espressione «pane del cielo»  ricorre ben 4x. Vi osserviamo anche gli stessi fenomeni che abbiamo incontrato domenica scorsa: il continuo passaggio dal singolare al plurale che è una costante in Gv, quasi un invito a leggere i diversi piani del suo messaggio «teologico»: il piano di Gesù è sempre distinto dal piano della folla:
 
A, v. 26: «segni» al plurale (visti dalla parte della folla).
A’ v. 30: «segno» al singolare (visto dalla parte di Gesù).
 
A, v. 27: Gesù parla del «Padre», al singolare.          
A’ v. 31: la folla parla dei «nostri padri», al plurale.
 
B, v. 28: la folla interrogando per sé usa il plurale: «che cosa dobbiamo fare?»
B’, v. 30: la folla interroga Gesù al singolare: «che cosa tu fai?».                  
 
C, v. 28: la folla vuole compiere « le opere di Dio», ancora plurale
C’, v. 29: Gesù risponde al singolare che solo una è  l’«opera di Dio»: la fede nell’Inviato del Padre.
 
Ancora, al v. 32 vi è la contrapposizione «Mosè-Padre» anche con i verbi e una reminiscenza dell’esegesi giudaica, forse segno che il testo era un’omelia giudaica rivista in ambito cristologico: non Mosè ha dato, ma il Padre : Mosè è il passato, il Padre è il presente. La manna finisce, il pane del cielo è perenne; la manna fa morire, il pane del Padre è per la vita.
 
Nota esegetica giudaica. L’espressione intera di Gv 6,32 può essere trasportata in ebraico. «Non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo», se si trasporta in ebraico suona così: «lò’ natàn Moshèhlakèm lèchem min hashammaym, w’abî notèn lakèm lèchem min hashammyim». Il testo ebraico è consonantico (quindi non usa le vocali scritte) per cui può giocare con la radice del verbo «N_T_N» (natàn) e, mettendo vocali diverse, si ha l’assonanza «natàn/notèn – ha dato/dà» per dire la differenza tra passato e presente (v. sotto, nota 11).
Il greco non ha possibilità della lingua ebraica, ma l’autore, che pensa in ebraico/aramaico e scrive in greco cerca di mantenere il rapporto dell’ebraico e della tradizione orale. Egli, infatti, Usa per la manna il verbo «dìdōmi – io do» al tempo perfetto (dèdōken – ha dato) che indica un’azione passata i cui effetti perdurano nel presente, mettendo così in evidenza la necessità fragile della manna che deve essere ripetuta e rinnovata di volta in volta. Per il pane del cielo, invece, usa lo stesso verbo, «dìdōmi – io do», ma al presente (dìdōsin – dà) per dire che il nuovo nutrimento è un pane dato una volta per sempre, per l’eternità: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!».(Gv 6,36)[11].
 
La qualifica del pane dal cielo dato dal Padre è la verità del pane: «quello vero», e trovandoci all’interno di un confronto tra «manna – pane» ci fa supporre che la manna di Mosè non fosse il cibo «vero», ma quello provvisorio, dato nell’attesa che giungesse il pane vero  perché offre la vita per il mondo intero e per questo discende apposta dal cielo. La manna di Mosè nutriva per il tempo della carestia della pane, mentre il pane «quello vero» ha una identità precisa: «Io-Sono il Pane» che ci svela una delle profondità di Dio: il Pane è la Persona del Figlio che vive la missione di inviato per svelare a chiunque lo mangia la propria identità. Non mangiamo il pane per nutrirci e toglierci la fame, ma per conoscere Dio e conoscere noi perché il Pane dato svela «la verità» di Dio e la verità di chi lo riceve perché genera «il segno» per eccellenza: credere in lui.
Dopo il «segno» della moltiplicazione dei pani e dei pesci, la folla reagisce riconoscendo in Gesù «il profeta, colui che viene nel mondo» (Gv 6,14), ma Gesù non può accontentarsi che i suoi interlocutori si fermino al livello della profezia; egli vuole portare i suoi ascoltatori su un altro piano: la rivelazione della sua vera identità. Non basta affermare che Gesù viene da Dio, bisogno instaurare con lui una relazione intima che raggiunga la profondità della comunicazione che porta alla comunione di vita. E’ questo il senso pregnante della formula di auto-rivelazione «IO-SONO» (Gv 6,35). Davanti agli uditori non c’è più solo il profeta Mosè come fu nel deserto, ora c’è il Dio di Mosè, Yhwh, lo stesso che diede la manna a Mosè e che è presente ed agisce nella persona di Gesù di Nàzaret.
Nell’introduzione, abbiamo sottolineato come la ricerca e la familiarità con Gesù sono viste da Gv come un lavoro: datevi da fare, in gr. ergàzesthe (Gv 6,27) e opere/opera  da compiere, in gr. èrga/èrgon (Gv 6,28). Qui in questa contrapposizione si potrebbe una critica alle infinite  opere che esigeva la Legge giudaica (v. i 613 precetti) e l’opera che esige l’Inviato del Padre, che richiama il compendio di tutta la Legge e i Profeti in un solo comandamento: l’amore di Dio e del prossimo (Mt 22,40).
Al tempo di Gesù, tutte le scuole di pensiero discutevano quali fossero le «opere» necessarie per osservare la Toràh e ottenere la salvezza (cf Mc 10,17-22) e questa discussione arrivava anche ad escludere il popolo dalla salvezza, perché i farisei ritenevano che fosse incapace di osservare tutte le prescrizioni della Toràh. Gesù si rifiuta di entrare in questo dedalo senza uscite e invita a rinunciare alle inutili discussioni per assestarsi solo sull’unica opera necessaria: riconoscere che «su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo» (Gv 6,27). Il Figlio è il sigillo della salvezza, la via del regno, la vita del Padre data some «pane disceso dal cielo» cioè la Persona di Gesù. Se comprendiamo questo, allora la mancanza di cibo che c’è nel mondo non è più un problema compiremo «l’opera» per eccellenza: credendo nel pane della vita, andremo a servire condividendo il pane e la vita. La fame del mondo è il segno dei tempi che non crediamo in Dio, ma solo nel nostro egoismo.
In questa dimensione, Gesù si pone in linea con tutto l’AT, che vedeva nella manna il segno della Parola di Dio (Dt 8,2-3) o della Sapienza (Sap 16,26), perché la manna fu la provvidenza di Dio che si prese cura del suo popolo in cammino, formato e educato da Dio stesso. Il pane che offre Gesù è il segno di un alimento nuovo che lo stesso Dio e Padre offre attraverso il Figlio al popolo che vaga in cerca di Dio. Il messaggio è chiaro: superando il «dato» materiale, bisogna entrare nell’intimo del «segno» che rivela e svela il mistero della persona stessa di Dio che solo il Figlio può rivelare. I suoi uditori, però, non sanno andare oltre il «dato materiale» (Gv 6,34) e rimettono in discussione tutto ciò che avevano detto prima: non hanno paura di contraddirsi: colui che prima era il profeta, colui che viene nel mondo, è accusato di fare «miracoli» di seconda categoria a confronto con «i nostri padri» che  hanno mangiato la manna nel deserto» (Gv 6,31), per cui esigono altre prove più «robuste» e più eclatanti. Il popolo conclude che non c’è più sordo di chi non vuol sentire. La folla ha sempre bisogno di un supplemento di sicurezza e di «prove» che non bastano mai…per non mettersi in discussione e per non iniziare un processo di conversione che comincia sempre con un incontro reale, un faccia a faccia con una persona reale e non con un’idea.
Quando noi ci facciamo un’idea di Dio, spesso è con questa che c’incontriamo, non con il volto nascosto e velato del Dio che parla il linguaggio povero e vero dell’umanità e del segno del Pane che si spezza per raggiungere tutti. E’ più facile incontrare un’immagine «strepitosa», sebbene finta, di Dio, che starsene muti e attoniti di fronte ad un Pane che non parla e non svela alcun «miracolo» che non sia la fragilità del suo stesso spezzarsi per chi ha fame e sete di Dio e dei fratelli e sorelle. In un regime di religione superficiale è preferibile la devozione a un padre Pio qualsiasi o a qualche Madonna stravagante che appare e scompare magicamente, invocando i «miracoli» gratificanti che affidarsi al silenzio di Dio che si fa pane da mangiare e «segno» di una realtà che supera il livello dell’apparenza.
La formula «pane di vita» (Gv 6,35) è nuova e non era conosciuta nell’AT. Essa è propria di Gv che l’ha creata come ha creato le altre formule simili: luce del mondo (Gv 8,12), parola della vita (1Gv 1,1), corona della vita (Ap 2,10); libro della vita (Ap 3,5; 20,12; 21,27); acqua della vita (Ap 21,6; 22,1), insieme alle altre 26 formule di auto-rivelazione , «Io-Sono» che abbiamo elencate nell’introduzione. Qui però abbiamo qualcosa in più, perché l’espressione «pane della vita»  istintivamente ci rimanda all’ «albero della vita» che era nel mezzo al giardino di Eden (Gen 2,9), simbolo dell’immortalità infranta dalla ribellione di Adam. La manna, pur venendo dal cielo, non fu in grado di garantire l’immortalità perduta perché la Toràh che nutriva Israele era scritta su tavole di pietra. La durezza della pratica delle «prescrizioni/opere della Legge» (cf Rom 2,26; 3,20.28; Gal 2,16; 3,2.10) aveva indurito anche i cuori a tal punto che Dio stesso è venuto tra noi per fare ai figli di Israele un’operazione cardiaca e togliere il cuore di pietra per sostituirlo con uno di carne (cf Ez 11,19; 36,26).  Solo Gesù può riportare a quella immortalità quanti lo accolgono nella faticosa opera della fede (Gv 6,50.54), nutrendo con un pane che dura per la vita eterna, perché ha in se stesso l’immortalità di Dio, essendo Dio stesso in Gesù di Nàzaret, il Cristo Messia. In questo modo Gv ci obbliga a vedere nell’Eucaristia la dimensione paradisiaca e anche escatologica, dal «principio» della creazione al «compimento» della pienezza del regno per una comunione totale, senza fine: un Pane per l’eternità.
La caratteristica fondamentale del brano odierno è lo stretto nesso che Gv pone tra Eucaristia/incar-nazione e morte/risurrezione, enunciato espressamente: «il pane (7x) di Dio è colui che discende dal cielo (4x) dà la vita (3x) al mondo» (Gv 6,33): pane…discende…dà la vita: il sacramento, la missione, il dono. Il «pane della vita» non può essere mangiato solo con la fede, misticamente, è un pane vero che nutre la vita intera perché impastato con il sangue della morte in croce. Nell’espressione «pane della vita» (Gv 6,48)  il genitivo «della vita» può essere letto anche come genitivo oggettivo: «il pane che è/ la vita» come è detto in Gv 6,33. Nel momento in cui nutre, il pane mette in contatto con la storia di Gesù, il Verbo che carne fu fatto (cf Gv 1,14), proietta lo sguardo della contemplazione nel «giardino» della redenzione, il Calvario, e trasforma quanti accolgono la sfida di «questa» fede in pane di fraternità che cammina per le strade del mondo alla ricerca dei fratelli e delle sorelle a cui distribuire i cesti avanzati, nella condivisione dello stesso cammino e della medesima fede. La mancanza di pane e di acqua per quasi due terzi dell’umanità è la nostra condanna che ancora nulla abbiamo compreso del pane di Dio e forse anche della manna di Mosè. E’ la sfida a cui il «pane disceso dal cielo» ci manda e ci impegna, pena la nostra esclusione dal banchetto finale. Coloro che si fanno mettere in gioco dalla sconvolgente realtà del Signore, possono, nello Spirito e nella Chiesa invocare: «Signore, dacci sempre questo pane» (Gv 6,34), per avere immediata la risposta d’identità: «Che cosa cercate? Io-Sono il pane della vita» (Gv 1,38; 6 35).
 
Applicazione alla vita personale
Gesù si auto-presenta con una formula d’identità inequivocabile: «Io-Sono». Giovanni il Battezzante si presenta con una formula d’identità negativa per non confondere gli ascoltatori: «Io-non-sono … Cristo … Elia … profeta ... (Gv 1,20-21), coerente con la sua missione di «inviato». Pietro, a sua volta, perde la sua identità e la sua consistenza di vita, quando tenta di staccarsi da Gesù per non coinvolgersi nella sua sorte di morte: lo rinnega due volte affermando espressamente: «Io-non-sono» (Gv 18,17.25) e la terza volta giura e impreca di «non conoscere quell’uomo lì» (Mc 14,71). Per Pietro Gesù non è più il Maestro e nemmeno un conoscente o un amico: è solo un poco di buono con cui non ha nulla da spartire: «quello lì». Oggi, anche noi, dalla rivelazione di Gesù siamo messi di fronte a noi stessi con la domanda: Chi sono-io? Gesù può dire: «Io-Sono-il Pane della vita». Io cosa posso dire di me? E’ necessario che sveli il «segno» della mia identità: Qual è il «segno» per cui chi m’incontra può «credere» che «io-sono» chi dico?
La liturgia ci pone in una dinamica di «cercare-trovare», lasciare una riva del mare per andare verso l’altra. Qual è la riva attuale in cui è «adagiata» la mia vita? Forse bisogna che mi fermi un poco per vedere cosa devo lasciare, da cosa devo staccarmi, quali ormeggi devo tagliare per permettere alla barca di andare verso l’altra riva.  Quali sono i legami che mi bloccano? Ho nella mia prospettiva una riva «altra» che vedo e che temo allo stesso tempo? Ho forse paura di avventurarmi in mare aperto? Comodità, sicurezze, idoli, consuetudini mi trattengono per cui mi accontento di «chi-non-sono»? Il profeta Amos consola nel garantirci: «Cercate il Signore e vivrete» (Am 5,6), Isaia c’invita: «Cercate il Signore, mentre si fa trovare» (Is 55,6) e Azaria figlio di Obed pone la condizione: «Il Signore sarà con voi, se voi sarete con lui; se lo ricercherete, si lascerà trovare da voi» (2Cr 15,2). Per «cercare-trovare», bisogna mettersi in movimento e uscire all’inseguimento di indizi e «segni» che conducano alla «scoperta» di lui. La tendenza dell’uomini e delle donne di religione spesso è portata alla acquiescenza di ciò che si vive, dando per scontato che la fede è una vita di rendita: basta limitarsi a fare le cose che si sono sempre fatte, eliminando così non solo la novità della vita che non si attarda mai sulle cose passate, ma la stessa novità di Dio che non parla mai la stessa parola perché il Signore è il Dio del cuore nuovo e dello spirito nuovo (cf Ez 18,31; 36,26).
Paolo c’invita a guardare «il vecchio» che è in noi per vestire «il nuovo» di Cristo. L’immagine del vestito è una metafora della nostra personalità umana e religiosa: il vestito può essere solo copertura «come capita», oppure il «segno» della nostra ascesi e della nostra identità. Un vestito trasandato è segno di un’anima trasandata, un vestito ordinato è segno di una «regola» spirituale che deriva da una «bellezza» interiore. «Che dobbiamo fare?». Spesso siamo consumati dalle «opere» da compiere fino al punto da dimenticare l’«opera» più importante: Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato (Gv 6,29). Mandato: per chi? Inviato: a chi? Penso spesso che il Signore è mandato, inviato «a me/per me»? Cosa comporta questa consapevolezza?
Gv ci presenta la «fede» come «lavoro/impegno/fatica». Spesso aggiriamo l’ostacolo dicendo: il lavoro è preghiera, ma è anche vero il contrario che la preghiera è lavoro, o meglio, i due aspetti non possono essere separati senza distruggere e il lavoro e la preghiera. Senza lavoro, la preghiera rischia l’illusione, senza preghiera, il lavoro rischia l’attivismo fine a se stesso. Pregare ancora una vota può essere solo stancarsi a perdere tempo per la persone amata. La sorgente della preghiera, della ricerca e del ritrovare il Verbo, il Pane della vita, è l’Eucaristia.


[1] I testi liturgici sono tratti dal nuovo lezionario, entrato in vigore con la 1a domenica di Avvento-A (2007).
[2] Interessante il vocabolario tipico della evangelizzazione «imparare, conoscere, ascoltare, istruire» (cf Ef 4,20-21) che testimonia la preoccupazione dell’autore per la crisi il suo vangelo sta vivendo. L’invito a non comportarsi «più come pagani con i loro vani pensieri» (Ef 4,17) è un invito alla conversione dagli idoli. Paolo annuncia la «verità che è Gesù» (Ef 4,21), cioè con l’uomo di Nàzaret e non solo il Cristo della fede (cf 2Cor 4,2), avvicinandosi alla teologia di Giovanni (cf Gv 14,6). Il tema della «verità» è centrale in questa parte finale della lettera, perché vi ricorre sei volte (Ef 4,15.21.24.25; 5,9; 6,14).
[3] Ancora una volta precisiamo che non si tratta di una omelia secondo i canoni, ma di uno studio più approfondito di Gv 6, cogliendo l’occasione che la liturgia lo propone quasi per intero.
[4] La liturgia «salta»la 2a unità (Gv 6,16-23) che descrive Gesù che cammina sulle acque, dominando le forze della natura (vento e acque): il contesto è sempre l’esodo-pasquale con Mosè che sta sul Sinai, la cui cima è avvolta in lampi e tuoni), quasi a dire che la stessa natura partecipa, come un esercito schierato, all’azione di Dio. Nella 3a unità riportata oggi, la liturgia non tiene conto della struttura del testo perché i primi due versetti (Gv 6,24-25) fanno parte dell’unità precedente che qui servono come antefatto per introdurre il discorso di Gesù, mentre l’ultimo versetto (Gv 6,35) appartiene all’unità seguente. E’ il limite del lezionario che non tiene conto nella distribuzione del testo dei risultati dell’esegesi.
[5] In Gv 6,22 e 24 si ripete la stessa notizia, segno che si intersecano e si sovrappongono due tradizioni diverse che l’autore del IV vangelo ha cercato di sintetizzare in uno solo: per Gv 5,28-51a. 61-62 (tradizione più antica) è il Padre che da il pane del cielo, mentre per Gv 6,26-27.51b-59 (tradizione più recente) è Gesù che il pane che è il suo corpo. Tutte e due hanno la stessa struttura, segno dell’ultima mano del redattore finale.
[6] Lo stesso accadrà durante la passione (Gv 18-19), quando Gesù resterà immobile, prigioniero «del mondo» religioso e imperiale, che però si muoveranno come giostre attorno a lui. Sarebbe interessante e rivelatore uno studio sui verbi di movimento che Gv usa nel racconto della passione.
[7] «Per questo nella genesi dell’ateismo possono contribuire non poco i credenti, nella misura in cui, per aver trascurato di educare la propria fede, o per una presentazione ingannevole della dottrina, od anche per i difetti della propria vita religiosa, morale e sociale, si deve dire piuttosto che nascondono e non che manifestano il genuino volto di Dio e della religione» (Concilio ecumenico Vaticano II, Gaudium et Spes, n. 19).
[8] Due volte il verbo «cercare» e una volta il verbo «trovare»: la ricerca impegna di più in impegno, fatica e attenzione dell’arrivo e del godimento di essere giunti.
[9] Da greco «tètra – quattro» e «gràmmata – lettere»: con questa parola si indicano le quattro lettere ebraiche con cui si scrive il santo Nome, impronunciabile, che solo nel giorno di Yom Kippur, il sommo sacerdote invoca nel Santo dei Santi: YHWH. Esse sono: Yod, He , Waw, He, appunto YHWH.
[10] In greco si usa il verbo «ergàzesthe» che non si traduce con lo striminzito«procuratevi» della precedente edizione della Bibbia-Cei (1974), ma con «Datevi da fare» come finalmente traduce la nuova Bibbia-Cei (2008), che esprime meglio l’idea della pesantezza e dell’impegno con fatica che esige la fede. Impegnarsi a credere è un lavoro la vita: «credere in colui che egli ha mandato» (cf Gv 6,27).
[11] Si potrebbe vedere qui una reminiscenza della regola esegetica giudaica (una delle trentadue descritte da Rabbì ben Elièzer) che si chiama «al tiqrà … [elà] … » (- non dire … [ma dici] …): essa consiste nel leggere il testo consonantico di una parola con vocali differenti, per cui la stessa parola acquista significati diversi. In ebraico questa regola è chiara: «al tiqrà notàn[elà] notèn» (- non dire ha dato [ma dici] »; in greco si vede molto meno, nonostante il verbo sia lo stesso (dìdōmi – io do): «ha dato» (perfetto) – «dà» (presente). E’ il tentativo costante del Giudaismo di rendere attuale, palpitante la Parola per chi legge e la vive. Cf anche Gv 45 riportato domenica prossima.

Domenica 18a del tempo ordinario – B – Parrocchia di S. M. Immacolata e S. Torpete
© Nota: L’uso di questi commenti è consentito citandone la fonte bibliografica
Paolo Farinella, prete – 02-08-2009 – San Torpete,Genova
 


Giovedμ 30 Luglio,2009 Ore: 15:58
 
 
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