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www.ildialogo.org Domenica 17a per annuum – B – 26 luglio 2009 –,

Domenica 17a per annuum – B – 26 luglio 2009 –

A cura di don Paolo Farinella


Domenica 17a per annuum – B
– 26 luglio 2009 –
L’anno B è l’anno del vangelo di Mc, ma esso è troppo corto per potere essere distribuito in 34 domeniche, per cui la liturgia, nello sviluppo del tema del pane, integra il racconto di Mc 6,34-44, con il lungo capitolo 6 di Gv (ben 71 versetti!), distribuito in 5 domeniche: dalla 17a domenica-B che è oggi alla 21a domenica-B[1]Se l’Eucaristia è solo un gesto ripetitivo, un rituale obbligatorio, un tempo che deve passare in fretta perché altre cose premono nella vita, essa diventa frutto scadente e scaduto, una pula che il vento disperde. La «Messa d’ordinanza» per «adempiere il precetto», fino all’aberrazione che se non si «va a Messa si compie peccato» è un delirio proprio del regime di religione che si nutre di rituali, ma è lontano dalla fede che vive di sentimenti e gesti d’amore. Questa logica esprime solo la perdita di senso e di logica: ciò che conta è la presenza fisica, materiale dentro un recinto sacro, per assistere passivi ad un atto di culto che riguarda il prete e Dio. E’ la logica che sta dietro il ripristino della Messa preconciliare, tutta centrata sulla mediazione del prete, mentre l’assemblea «si fa gli affari suoi», spettando solo che finisca e così potere dire «Dio è sistemato», ora passiamo alle cose serie della vita. Questo sistema della «Messa come dovere e obbligo» è più legato alla magia religiosa, l’atto sacro in sé (che una certa teologia ha espresso con la formula «ex opere operato», cioè l’importanza dell’atto in se stesso indipendentemente dalla intenzione del cuore e dalla partecipazione. Si privilegia la «sacramentalizzazione», propria della religione di tradizione sulla liturgia come atto corale, ecclesiale e via privilegiata di «evangelizzazione». Santa Teresa d’Avila (1515-1582)  ne era consapevole e lo insegnava alla sue sorelle con il linguaggio del sec. XVI: . Bisogna tenere presente questo quadro liturgico armonico, altrimenti si perde la connessione dell’insieme e la liturgia domenicale diventa uno spezzatino senza sale.
 
«Sono convinta che se ci accostassimo una sola volta al santissimo Sacramento con grande fede e amore, questa volta basterebbe per farci ricche… Ma sembra che noi ci avviciniamo al Signore solo per cerimonia e per questo ne ricaviamo così poco frutto»(Pensieri sull’amore di Dio III, 13).
 
L’Eucaristia è l’alleanza nuova che unisce due amanti: il popolo nel dono di sé e Dio nel corpo e nella vita di Gesù che si rende garante dell’intima unione tra i due attraverso la garanzia dello Spirito. Come si può tradurre in obbligo tutto questo? L’Eucaristia è un bisogno di vita, una vocazione a cui lo Spirito ci fa rispondere per esercitare la profezia di una Chiesa che dalla diaspora converge e si raduna in una assemblea a proclamare la Parola come benedizione sparsa sul mondo intero e a raccogliere l’anelito del mondo stesso, frantumato e lacerato, che aspira all’unità del genere umano. Tutto questo è grazia, è dono, non può mai essere obbligo, altrimenti diventa una legge di schiavitù. Senza l’Eucaristia non possiamo vivere[2], verità che il popolo ha tradotto nel detto: «sacco vuoto non sta in piedi». E’ l’esperienza del popolo della manna (cf Es 16), è l’esperienza del profeta Elia (1Re 19,5-8). E l’esperienza della Chiesa che ci viene raccontata in Gv 6 che leggeremo in queste domeniche.
Fra quattro domeniche (nella 21a) Pietro esclamerà Signore, da chi andremo? e la domanda ci apre ad una realtà che giudica lo stile di vita del personale apostolico e dei laici. Oggi, i preti, i frati, le religiose e i credenti dovrebbero riflettere sul loro voto di povertà reale per gli uni e di sobrietà strutturale per gli altri. Povertà e sobrietà coinvolgono sia le singole persone che l’istituzione (abitazione, parrocchia, episcopio, curia, chiesa, monastero, mezzi, strumenti ecc.) perché il tema del pane e la povertà disumana in cui è crocifissa la maggior parte dell’umanità lo esige. Uomini e donne di chiesa dovremmo essere, anche esternamente, il segno di questo Pane che nasce nel cielo per venire sulla terra. Al Pane del cielo possono accedere solo coloro che hanno fame, cioè i poveri, come afferma la liturgia stessa di oggi e delle prossime domeniche. Se siamo veramente poveri e affamati abbiamo diritto di mangiare questo Pane; se siamo sazi, ricchi e ciondolanti o se navighiamo nel superfluo, il Pane stesso ci rifiuta (Gv 6,15) perché il pane è la misura della vita, come insegna la Scrittura attraverso il sapiente Siràcide: «Il pane dei bisognosi è la vita dei poveri, colui che glielo toglie è un sanguinario. Uccide il prossimo chi gli toglie il nutrimento, versa sangue chi rifiuta il salario all’operaio» (Sir 34,25-27)
Due terzi dell’umanità oggi vive in stato di povertà alimentare: senza pane sufficiente per vivere una vita sulla soglia della decenza della dignità. Da qui bisogna partire per comprendere la liturgia di oggi, centrata sul tema del pane. In ogni Eucaristia e anche fuori dell’Eucaristia noi siamo soliti pregare «Padre nostro … dacci oggi il “nostro pane quotidiano”», ma spesso lo riduciamo a formula che scivola perché formula muta. Gesù non ci ha insegnato a pregare «Padre mio», ma sempre «Padre nostro», dove l’aggettivo possessivo di 1a persona plurale è il progetto di Dio di cui «il pane nostro di giorno dopo giorno» è la realizzazione concreta «sacramentale» e comprende anche l’Eucaristia, ma insieme e non senza il pane della mensa, dell’acqua, della dignità, della legalità, dell’onorabilità, del sapere, del lavoro, della casa, dell’affettività, della gratitudine, della comunità, della condivisione, della ecclesialità.
Dio non è mai un «Dio privato», ma il Padre «nostro», il Padre di credenti e non credenti, bianchi e neri, occidentali orientali, del nord e del sud. In una parola il Dio di Gesù Cristo, senza confini e senza preferenze. Il pane è «segno dei segni» della Shekinàh/Dimora/Presenza di Dio perché attraverso di esso Dio si rende manducabile, sperimentabile, assimilabile. Il mondo occidentale che si appella a questo Dio fino a farne un baluardo di «valori», non deve, non può tollerare che ancora nel terzo millennio una sola persona possa morire per mancanza di pane e di acqua, di medicine.
 
Nota. Le sfide della fame e della sete sono il banco di prova che i credenti dovrebbero condividere con tutti gli uomini e le donne di tutti i paesi del mondo perché il genocidio per fame e sete è causato dall’ingordigia dei paesi che geograficamente si identificano con quella che pomposamente viene chiamata «civiltà occidentale cristiana»: ancora oggi il mondo occidentale sfrutta i giacimenti di petrolio e gas dell’Africa, senza lasciare nemmeno le briciole ai Paesi interessati, per cui il nostro benessere e l’energia che consumiamo nelle nostre case e città è pagato direttamente dai poveri che con l’immigrazione da esodo biblico vengono a presentare il conto. Noi però pretendiamo anche il diritto di respingerli perché intrusi e clandestini. Noi che rubiamo le loro materie prime non siamo né intrusi né clandestini; loro che noi riduciamo alla fame di morte devono morire, ma non possono venire a turbare la nostra tranquillità.
 
Domenica scorsa avevamo lasciato Gesù «in disparte», in un luogo deserto con i discepoli che erano di ritorno da un giro di perlustrazione nel mondo per imparare dai bisogni degli uomini (Mc 6,31-32). Non fanno in tempo a raggiungere il deserto che «una grande folla» li precede e Gesù «ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore» (Mc 6,34). Gesù si dedica alla formazione della folla per farle prendere coscienza della sua dignità: «si mise ad insegnare loro molte cose» (Mc 6,34). Con la domenica di oggi cambia l’ambientazione geografica: per Gv Gesù «passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè Tiberiade» (Gv 6,1), e di nuovo «lo seguiva una grande folla» (Gv 6,2).
E’ interessante come Gesù cambia «luogo»: dal «deserto all’altra riva», dal luogo dell’aridità al mare della vitalità, ma anche dal «deserto» come spazio della tenerezza di Dio, luogo del fidanzamento basato sulla fiducia (cf Os 2,15) all’altra riva oltre il mare, secondo la cosmogonia orientale, sede del male e degli spiriti maligni: tutto è sotto il segno di Dio perché Dio tutto guida al compimento nell’armonia del creato. Gv sembra dire che non c’è posto o luogo che possa trattenere l’anelito di Dio che corre alla ricerca degli uomini. Gv aggiunge alcune annotazioni che servono da sfondo anticotestamentario: «Gesù salì sul monte» (Gv 6,3) come Mosè salì verso il Signore che lo chiamò dal monte (Es 19,3)[3].  L’evangelista annota che «era vicina la Pasqua dei Giudei» (Gv 6,4), richiamo esplicito alla Pasqua ebraica e all’esodo con tutte le sue implicanze. Nell’espressione c’è anche un’esplicita polemica: «Pasqua dei Giudei» è sprezzante, come dire la «Pasqua di quelli là», che non ha importanza perché è orami una Pasqua superata e forse delegittimata. Questa espressione di disprezzo è segno che ormai la rottura tra Chiesa e Sinagoga è già avvenuta e la frattura è insanabile. Una frattura che avrà conseguenze tragiche lungo due interi millenni, durante i quali il mondo cristiani si è nutrito di antigiudaismo teologico e pratico che ha condotto alla consumazione dell’ignominia dell’umanità: la Shoàh.
            Lo scenario è dunque questo: c’è molta folla, Gesù sale sul monte, è la Pasqua dei Giudei, la folla ha fame, Gesù li sfama col «pane del cielo». Tutti questi elementi si trovano nel racconto dell’Esodo: il deserto, la folla degli Ebrei che lasciano l’Egitto, Mosè sale sul monte di Dio, la folla ha fame, Mosè li sfama con la manna. Per l’evangelista Gesù è il nuovo Mosè che porta a compimento ciò in cui il grande condottiero non è riuscito: condurre Israele alla fedeltà di Dio attraverso il cibo di un pane non perituro perché viene dal cielo. Anche noi viviamo il nostro esodo e sostiamo al pozzo dell’Eucaristia dove troviamo l’acqua e il pane disceso dal cielo. Entriamo in questo santuario, guidati dallo Spirito Santo che ci rende idonei a partecipare al mistero pasquale, facendo nostre le parole del salmista (cf Sal 68/67,6-7.36): Dio sta nella sua santa dimora. A chi è solo fa abitare una casa. Dà forza e vigore al suo popolo.
 
Testi Biblici
Prima lettura 2Re 4,42-44. L’autore del libro dei Re riunisce attorno alla figura di Eliseo, discepolo e successore del profeta Elia, alcuni temi anteriori al sec. VIII a.C., il secolo il secolo che vede la luce dei grandi profeti scrittori, come Amos, Isaia, Osea. Egli è attento a dimostrare che Eliseo non fu inferiore al suo maestro Elia di cui ha lo stesso carisma e la stessa grandezza. Elia aveva fatto una moltiplicazioni di pani in casa della vedova di Zarèpta (1Re 17,1-15) ed ecco che anche Eliseo deve averne una nella sua biografia. Con una differenza: Elia sfama il bisogno immediato dei poveri, Eliso si preoccupa dell’abbondanza e degli avanzi che anticipa già l’èra escatologica del banchetto messianico (cf Is 53,1-3; 65,13 e Pr 9,1-6), a cui noi siamo invitati partecipando all’Eucaristia.
 
Dal secondo libro dei Re 2Re 4,42-44
In quei giorni, 42 da Baal-Salisà venne un uomo, che portò pane di primizie all’uomo di Dio: venti pani d’orzo e grano novello che aveva nella bisaccia. Eliseo disse: «Dallo da mangiare alla gente». 43 Ma il suo servitore disse: «Come posso mettere questo davanti a cento persone?». Egli replicò: «Dallo da mangiare alla gente. Poiché così dice il Signore: “Ne mangeranno e ne faranno avanzare”». 44 Lo pose davanti a quelli, che mangiarono e ne fecero avanzare, secondo la parola del Signore. - Parola di Dio.
 
Salmo responsoriale 145/144, 10-11; 15-16; 17-18. Il salmo è alfabetico, ad ognuno dei ventidue versetti corrisponde una lettera dell’alfabeto ebraico. Esso celebra la grandezza di Dio (vv. 3-7), la regalità (8-13-b), e la fedeltà del Signore (13d-20) con un invito alla lode collocato all’inizio e alla fine (vv 1-2. 21). La liturgia di oggi riporta solo le parti che riguardano la regalità e la fedeltà del Signore. E’ l’ultimo salmo che nella tradizione ebraica è attribuito a Davide. Insegna il Talmud a nome di rabbi Eleazàr che parla a nome di rabbi Abinà: «Chi dice tre volte al giorno: “Lode di David” (Sal 145,1) cioè questo Salmo è sicuro di partecipare alla vita ventura», cioè al tempo del Messia. Il salmo, infatti, contiene tutto l’alfabeto che viene usato lodare  Dio che si prende cura di ogni creatura: «Tu apri la tua mano e sazi la fame di ogni vivente» (cf Talmud b, 4b). Per noi Dio imbandisce la mensa dell’Eucaristia perché possiamo sfamare la fame della Parola e della giustizia del Regno, condividendo con l’umanità intera il pane della mensa e dell’equità nella giustizia.
 
 
Rit. Apri la tua mano, Signore, e sazia ogni vivente.
1. 10 Ti lodino, Signore, tutte le tue opere
e ti benedicano i tuoi fedeli.
11 Dicano la gloria del tuo regno
e parlino della tua potenza. Rit.
2. 15 Gli occhi di tutti a te sono rivolti in attesa
e tu dai loro il cibo a tempo opportuno.
16 Tu apri la tua mano
e sazi il desiderio di ogni vivente. Rit.
3. 17 Giusto è il Signore in tutte le sue vie,
e buono in tutte le sue opere.
18 Il Signore è vicino a chiunque lo invoca,
a quanti lo invocano con sincerità. Rit.
 
Seconda letturaEf 4,1-6. Il tema dell’unità, già anticipato nelle letture delle domeniche precedenti, nel brano di oggi diventa esplicito. Gesù ha manifestato la sua «signoria» non con violenza e autoritarismo, ma con umiltà, mansuetudine e specialmente carità (v. 2) con le quali ha posto le premesse e il metodo per l’unità nella comunione dei credenti e del mondo (vv. 4-6; cf Gv 13,14-16; Mt 1,29; Fil 2,6-11; Col. 3,12-13). La sorgente unificante di questo progetto di unità è la dimensione trinitaria della vita di Dio: lo Spirito che anima il corpo di Cristo, il Signore risorto e il Padre di tutti. Il brano è uno dei testi classici su cui si fonda la dottrina della Trinità.
 
Dalla lettera di Paolo apostolo agli Efesini  Ef 4,1-6
Fratelli, io, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti. - Parola di Dio.
 
Vangelo Gv 6,1-15. E’ costume di Giovanni raccontare un fatto della vita di Gesù e subito dopo farlo seguire da un discorso che ne spieghi il senso (cf. Gv 4; 5; 6; 9; 11; 12-16). Il cap. 6 si compone di due parti: una narrativa (vv. 1-26) e il discorso teologico di approfondimento (vv. 26-68 ). La parte narrativa a sua volta si divide in due racconti: la moltiplicazione dei pani (il brano di oggi: vv. 1-15) e Gesù che cammina sulle acque (vv. 16-25. Un confronto con i racconti Sinottici (Mt 14,13-21 e 15,32-37; Mc 6,35-44 e 8,1-10; Lc 9,10-17) fa emergere immediatamente che Gv attribuisce alla moltiplicazione dei pani un interesse e un significato molto più profondi: in Gv è esplicito l’intento di leggere il fatto in chiave eucaristica. Siamo alla fine del sec. I e le chiese sono strutturate anche liturgicamente. L’autore aiuta la sua comunità a comprendere quello che celebra, alla luce della storia d’Israele: come Mosè procurò una manna che periva, ora Gesù offre un panche avanza e si conserva per le generazioni future, fino alla fine del mondo.
 
 
 
Dal Vangelo secondo Giovanni Gv 6,1-15
In quel tempo, Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei. Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere. Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo». Gli disse allora uno dei discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». 10 Rispose Gesù: «Fateli sedere». C’era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini. 11 Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano. 12 E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». 13 Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato. 14 Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!». Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo. - Parola del Signore.
 
Spunti di omelia
Iniziamo lettura quasi completa di Gv 6 che inizia oggi e proseguirà ancora per altre quattro domeniche. Non intendiamo fare una omelia secondo i canoni liturgici, ma approfittiamo di questa occasione unica della lettura organica del capitolo 6 di Giovanni, che riporta il «discorso del pane» per fare uno studio approfondito, lasciando poi a ciascuno l’utilizzo secondo le necessità. Gv 6 è molto articolato e ha questa struttura di base:
 
1.      vv. 1-25: Parte narrativa che a sua volta comprende due momenti:
a)         vv. 1-15: la moltiplicazione dei pani, riportata nel vangelo di oggi
b)        vv. 16-25: Gesù che di notte cammina sulle acque
2.      vv. 26-68: Parte discorsiva: l’evangelista mette in bocca a Gesù la teologia del fatto dei pani.
 
Tutto il capitolo si suddivide in cinque unità, di cui la liturgia odierna ci offre la prima unità, che riporta la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Per rendersi conto della bellezza del testo (molto più chiaro in greco), è necessario vederlo strutturato nella sua armonia interna anche letteraria che cerchiamo di rendere possibile nella traduzione ufficiale italiana, disponendola nella struttura a chiasmo o a incrocio. Ecco la divisione:
 

A
Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei.
 
B
Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere. Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo».
 
 
C
Gli disse allora uno dei discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?».
 
 
 
D
10a Rispose Gesù: “Fateli sedere”.
 
 
 
 
E
10b C’era MOLTA ERBA in quel luogo.
 
 
 
D’
10c Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini.
 
 
C’
11 Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano.
 
B’
12 E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». 13 Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato.
A’
14 Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!». Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo.

 
Questa inclusione (le stesse parole all’inizio e alla fine) hanno il senso di enunciare il tema principale[4]Che senso ha in Gv questo passaggio dai segni (plurale)  di Gv 6,2 al segno (singolare) di Gv 6,14, perché in Gv nulla è casuale?  I Giudei per essere fedeli al Dio della Toràh, dovevano osservare 613 precetti e i Farisei pensavano che il popolino non potesse essere in grado di osservarli tutti, per cui ne deducevano che la salvezza era appannaggio di pochi. Gesù, al contrario, come ha fatto con i comandamenti che ha ridotti ad uno, cioè a comandamento dell’amore di Dio e del Prossimo (Mt 22,36-40), allo stesso modo riduce i «segni» richiesti dei Giudei ad un solo segno: il segno del Pane, cioè della sua identità[5]. : la moltiplicazione del pane è un segno (tema fondamentale in tutto il vangelo di Gv). Gv però vuole sottolineare due elementi importanti: l’atteggiamento della folla e la risposta di Gesù.  La folla cerca molti segni eclatanti, mentre Gesù ne offre uno solo: il pane.
Tutto il contesto suggerisce da un lato il clima pasquale (Gv 6,4: «era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei») e dall’altro il clima dell’alleanza richiamata sia dall’accenno al monte (Gv 6, 3.15) sia dal tema del pane che è il tema centrale del racconto. Gesù è il nuovo Mosè, il suo successore  che egli stesso aveva annunciato, prima di morire al confine della terra promessa (Dt 18,18). Mosè guida il popolo nella traversata del Mar Rosso[6] e sale da solo al Sinai, il monte di Dio; Gesù va in mezzo alla folla, ma sale sul monte con i suoi discepoli. Mosè procura la mamma, mentre Gesù dona il pane. Mosè ha dato al popolo la Toràh, il Messia dell’alleanza nuova dona ora la nuova Toràh della sua carne: «la Parola carne fu fatta» (Gv 1,14)[7]. Altri elementi di parallelismo tra Gv 6 e l’Esodo sono espressi o sottintesi. Ne evidenziamo alcuni:
 

Gv 6
Esodo
v. 1
Gesù andò all’altra riva del mare di Galilea
14,21-31
Gli Ebrei attraversarono il Mar Rosso
v. 2
Una grande folla lo seguiva(cf anche v. 5)
12,37
Una folla di 600.000 Ebrei lasciò l’Egitto
v. 2
«Vedendo i segni che faceva»
4-12
Mosè infliggeall’Egitto i segni: piaghe/colpi
v. 3
Gesù salì sul monte
19,16-25
Mosè salì sul monte del Sinai
v. 4
Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei
12
L’Esodo è l’evento pasquale per eccellenza
v. 6
Diceva così per metterlo alla prova
32
Gli Ebrei furono tentati nel deserto
v. 10
C’era molta erba in quel luogo…5.000 uomini
12,37
In 600.000 vagano nel deserto dell’esodo
v. 11
Gesù prese i pani… rese grazie, li distribuì
16,35
La manna nutre l’intero popolo
v. 12
Raccogliete i pezzi avanzati
16,5.22-27
La manna raccolta anche per il sabato (v. 32,1)
v. 13
Raccolsero e riempirono dodici canestri
24,4; 28,21
come dodici sono le tribù d’Israele.
v. 14
La gente, visto il segno…: «Questi il profeta»
15,22-25
Gli Ebrei mormorano contro Mosè e Aronne
v. 15
Gesù… si ritirò sul monte, tutto solo
32,31-35
Mosè fu solo tra Dio e il suo popolo (v. 34,2-3)

 
C’è anche un gioco simbolico dei numeri come i 5 pani a cui corrispondono 5.000 uomini; 2 pesci che richiamano i 200 denari (= 6 mesi di stipendio di un operaio). Applicando la ghematrìa (la scienza dei numeri) vediamo che due numeri ricorrono con frequenza: il 7, il numero della totalità e il 12 il numero dell’integrità d’Israele antico, radunato nelle 12 tribù, e dell’Israele nuovo, la Chiesa, che poggia sulle «colonne» (Gal 2,9) dei 12 apostoli (Gv 6,67). Se scomponiamo e ricomponiamo i numeri del brano, abbiamo queste combinazioni: 5+2 = 7 (pani e pesci): 7 = l’abbondanza del banchetto (cf. Rt 2,14.18; 1 Re, 17,16; 2Re 4, 6.42-44). Per la tradizione giudaica e cristiana, l’era messianica sarà caratterizzata da una abbondanza straordinaria, qui sottolineata dalle 12 ceste di pani raccolti dopo che la folla enorme è stata saziata come nell’apocrifo Libro di Enoc del sec II a.C. del genere delle apocalissi, si prefigura come un tempo di abbondanza imponente, descritta come una inondazione di vino[8] Ancora: i 5 pani, i 2 pesci, le 5.000 persone, i 200 denari non sufficienti, le 12 ceste possono essere lette anche alla luce della scienza dei numeri o ghematrìa:.
- 5 + 2 + 5000 + 200  = 5.207 = (5 + 2 + 0 + 7)         = 14  (7 + 7).
- 12 + 12 + 12 – 12   = 48 = (4 + 8) = 12 (12 tribù + 12 apostoli + 12 citati due volte in Gv 6,67 e 70)
- 7 x 12 = 84 =            (8 + 4) = 12. Il pane del cielo è il pane che Gesù dà per il mondo intero (numero 12).
Moltiplicando il pane, Cristo integra l’antico col nuovo e forma una umanità nuova che introduce nella nuova terra promessa dell’umanità di Dio, dove non si mangerà più la manna, ma il pane del suo corpo e il vino del suo sangue. Il simbolismo del numero 12 è confermato da un altro parallelo importante: quando Giosuè deve entrare nella terra promessa, sceglie 12 uomini (Gs 4,9.20) per portare 12 pietre, ciascuna simbolo di una tribù. Nella Tenda del convegno nel deserto e nel Tempio di Gerusalemme dopo, vi era un altare su cui ogni sabato dovevano essere posti 12 pani in due file di sei, simbolo di comunione delle tribù con il loro Dio. Sono chiamati «pani della presentazione» o alla lettera «pani della Faccia» (Es 25,30; 35,13) perché sono i pani della Presenza in quanto stanno sempre davanti a Dio, segno visibile della comunione di alleanza. E’ un pane sacro e possono mangiarne solo i sacerdoti. In qualche modo il pane posto sulla tavola dell’offerta indica la Presenza di Dio. Qui possiamo avere un anticipo antico-testamentario dell’Eucaristia.
In Gv il tema del numero 12 è espressamente menzionato al v. 67 (“Gesù disse ai Dodici…”) e al v. 70 (“non ho forse scelto io voi, i Dodici?”. Con questo tema, Gv intende mettere in evidenza che Gesù è il nuovo Giosuè che introduce il nuovo popolo nella nuova terra promessa, non più una terra materiale, ma la terra della natura umana di Gesù e della sua carne[9]«Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati» (Is 25,6). . Il popolo dei redenti non dovrà spartirsi porzioni di terra, ma potrà accedere alla mensa dell’abbondanza, conservata per le generazioni future: le 12 ceste di pane avanzato (v. nota 3). Il profeta Isaia aveva prefigurato il banchetto messianico della fine dei giorni come una mensa abbondante preparata dal Signore stesso sul monte. Ora il banchetto è pronto e il Signore invita a prendere posto l’umanità in attesa, senza esclusione di popoli e di individui:
La manna del deserto (Es 16,13-20) è un nutrimento che sostiene solo il popolo d’Israele nella traversata dalla montagna di Dio, l’Oreb, fino alla Terra Promessa. E’ proibito raccoglierne per conservarla e chi disobbedisce fa un’amara esperienza: la manna si corrompe e non più mangiabile.  Il Pane che è Cristo è il cibo della volontà del Padre ed è per la vita eterna, un pane che «è necessario» raccogliere e conservare anche per le generazioni future. Noi non possiamo vivere oggi pensando solo a noi, noi seguiamo altri che ci hanno preceduto e precediamo altri che verranno dopo di noi: di essi siamo responsabili non solo genericamente, ma in modo diretto. Dobbiamo pensare a lasciare il cibo per loro che significa lasciare un ambiente vivibile, non degradato, risorse sufficienti non lapidate. Il tema della manna/pane lo abbiamo riportato molte volte per ritornarci ancora, ma qui è interessante riportare il testo del Targum che commenta Es 16,4 e 15[10]:
 

Es 16,4.
Targum (j I)
v. 4
Allora il Signore disse a Mosè : “Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno, perché io lo metta alla prova, per vedere se cammina secondo la mia legge o no.
Allora Yhwh disse a Mosé: “Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo conservato per voi fin dal principio. Il popolo uscirà a raccoglierne la razione di ogni giorno per metterli alla prova e vedere se osservano i miei comandamenti.
v. 15
Gli Israeliti la videro e si dissero l’un l’altro: “Man hu: che cos`è ?”, perché non sapevano che cosa fosse. Mosè disse loro: “E` il pane che il Signore vi ha dato in cibo”.
Essi si dissero l’un l’altro: Che cosa è? Essi non sapevano che cosa fosse. Mosè disse loro: è il pane che è stato conservato in alto nei cieli per voi fin dal principio e che adesso Yhwh vi dona.

 
Nel Targum il Pane conservato è il pane dei comandamenti e quindi dell’alleanza: il Pane della parola di Dio che nella Toràh nutre e vivifica il popolo santo. Da ciò possiamo dedurre che il Giudaismo del sec. I fosse in attesa del tempo del Messia come un tempo in cui Dio avrebbe rinnovato il miracolo della manna (2Bar 29,8; Or Sib 7,148-149; Rut R. 2,14) che non è solo un cibo per sfamare, ma principalmente il cibo che nutre l’obbedienza ai comandamenti del Padre, che Gesù metterà al centro del suo vangelo riducendo i 613 precetti della tradizione giudaica nell’unico comandamento dell’amore[11]. Infine, la manna è la Parola di Dio che si incarna nei comandamenti che nutrono chi li vive, come insegna anche la Sapienza (16,20-21.26):
Raccogliendo le 12 ceste di pane avanzato, Gesù ci affida la sostenibilità del futuro. Un altro elemento suggerito da Gv è il seguente: se la nuova manna è eterna, essa rivela un aspetto della personalità di Gesù. Chi capisce il significato del pane comprende la vera natura di Gesù, mentre da coloro che non vogliono capire perché si fermano alla superficie (è un semplice profeta), Gesù si allontana e si ritira in solitudine (v. 15). La mensa eucaristica è, al contempo, l’anticipo della speranza escatologica, la realizzazione del mistero pasquale e la rivelazione della Persona di Gesù.
Un altro parallelo del pane moltiplicato per la folla si trova nel libro dei Re  nel ciclo di Eliseo. La 1a e la 2a lettura di oggi hanno alcune corrispondenze:
 

Eliseo (2Re 4,42-44)
Gesù (Gv 6,1-15)
un uomo offre pane al profeta
un ragazzo offre pochi pani con pesciolini
i 20 pani offerti al profeta sono d’orzo
i 5 pani offerti a Gesù sono d’orzo
all’uomo di Dio, vengono offerte le primizie
Gesù opera mentre «era vicina la Pasqua dei Giudei»
Eliseo sfama 100 persone
Gesù sfama 5.000 uomini
avanza del pane
avanzano 12 ceste di pane e vengono raccolti
Eliseo in ebraico ’Elishà‘, significa Dio è misericordia
Gesù, in ebraico Yehoshuà‘, significa Dio è salvezza

 
Rinnovando il gesto di Eliseo, Gesù riapre il tempo della profezia di cui rinnova la portata: la misericordia (amore, tenerezza) moltiplica il pane perché la salvezza nutra ogni vivente. L’Eucaristia è il «luogo» dove noi incontriamo la misericordia che salva e di cui siamo chiamati ad essere un segno visibile, un sacramentale. La sproporzione numerica tra i due racconti da sola ci dice che il tempo di Gesù è il tempo dell’universalità: Dio supera i confini del nazionalismo giudaico e si appropria dei confini del mondo. Tutti gli uomini e le donne hanno diritto al loro pezzo di pane che noi ancora oggi dobbiamo consegnare in nome e per conto di Gesù che ne ha messo da parte 12 ceste. Compito della Chiesa (= 12 apostoli e folla saziata) è sfamare l’umanità che Cristo ha redento con il suo sangue, quell’umanità a cui Gesù stesso offre «il Pane disceso dal cielo» (Gv 6,41).
Ancora una volta Giovanni usa per il pane la formula dell’auto-rivelazione «Io sono» che ha usato per il pastore, per la, luce, per la vite, per la vita, per la via: «Io-Sono il pane della vita» (Gv 6,35)[12]. I 5 pani del ragazzo con cui Gesù sfama 5.000 uomini nel racconto di Gv sono pani d’orzo come d’orzo sono i 20 pani con cui Eliseo sfama i cento uomini. Questo riferimento esplicito all’«orzo» può essere un richiamo pasquale perché secondo Lv 23,10 il giorno dopo la Pasqua gli Ebrei devono salire al Tempio portando e agitando un covone d’orzo: «Quando sarete entrati nel paese che io vi dò e ne mieterete la messe, porterete al sacerdote un covone, come primizia del vostro raccolto».
Un’altra figura che si può confrontare con Gesù è Elia il maestro di Eliseo: Elia è sfamato da una vedova pagana e neppure ebrea con l’ultimo pane che le resta prima di morire di fame, ma il profeta annuncia da parte di Dio che chi sfama chi ha fame vedrà il miracolo dell’abbondanza: la farina non si esaurì e l’orcio dell’olio non calò (1Re 17,10-16). Lo stesso Elia per scappare dalla furia e dall’odio della regina Gezabele ripercorre a ritroso il tragitto  dalla Terra Promessa verso la montagna di Dio, l’Oreb, ma è senza forze e non può continuare il cammino. Si ferma per morire. Un angelo lo sveglia o la fa mangiare tre volte pane e acqua (1Re 19,3-8) e «con la forza datagli da quel cibo, camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb» (v. 8).
Nell’AT spesso la «parola di Dio» è paragonata al nutrimento. Dt 8,2-3 è esplicito: «…ti ha nutrito di manna… per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca di Dio» (cf Mt 4,4 e Lc 4,4). Il profeta Amos lo aveva già annunciato nel sec. VIII a.C.: «Ecco, verranno giorni, - dice il Signore Dio - in cui manderò la fame nel paese, non fame di pane, né sete di acqua, ma d’ascoltare la parola del Signore. Allora andranno errando da un mare all’altro e vagheranno da settentrione a oriente, per cercare la parola del Signore, ma non la troveranno» (Am 8,11-12). Gesù risolve l’enigma di Amos: alla Samaritana offre l’acqua «viva» che elimina la sete per sempre e ora a coloro che errano da un mare all’altro e vagano da nord a sud (cf «erano come pecore senza pastore» di Mc 6,34) offre se stesso come «Pane del cielo» che toglie ogni fame e apre alla condivisione con gli altri perché consegna anche il pane della speranza, il pane dell’umanità futura.
Il libro della Sapienza 16,26 fa l’equiparazione tra nutrimento, parola e fede: «…non le diverse specie di frutto nutrono l’uomo, ma la tua parola conserva coloro che credono in te». La stessa Sapienza (Pr 9,1-6), come una vera madre, costruisce una casa con sette colonne…«ha imbandito la tavola» e manda le ancelle per la città a raccogliere quanti hanno fame…«venite, mangiate il mio pane… Abbandonate la stoltezza e vivrete…» come anche Gesù invierà i suoi per le strade a raccogliere ciechi, storpi, zoppi, poveri e affamati per introdurli al banchetto nuziale (cf Mt 22, 2-14; Lc 14,15-24)[13].
Con questo contesto sapienziale della moltiplicazione dei pani di Gesù , Gv vuole dare al suo discorso un valore universale, cosmico, perché la Sapienza riceve l’ordine di posare la tenda in Giacobbe direttamente dal «Creatore dell’universo» (Sir 24,8). In questo contesto, la tradizione giudaica non esita a identificare la Toràh (la Legge scritta, quindi la Parola) con la Sapienza creatrice[14].
            Anche nella prospettiva di Giovanni, la nuova legge di Gesù, la sua Parola, Egli stesso, è fin dal principio, modello e redentore di tutta la creazione (cf. Gv 17,5). L’idea del mangiare la Parola e quindi l’idea del nutrimento con la vita divina non è estranea alla tradizione biblica. Il profeta Ezechiele riceve una visione in cui è costretto a mangiare il rotolo della parola:
 
«Mi disse: “Figlio dell’uomo, mangia ciò che hai davanti, mangia questo rotolo, poi va e parla alla casa d’Israele”. Io aprii la bocca ed egli mi fece mangiare quel rotolo, dicendomi: “Figlio dell’uomo, nutrisci il ventre e riempi le viscere con questo rotolo che ti porgo”. Io lo mangiai e fu per la mia bocca dolce come il miele» (Ez 3,3; cf anche Sir 24,20-21; Am 8,11; Ger. 15,16; Sal 119/118; 103/104).
 
Il pane moltiplicato da Gesù è seguito dal discorso sul «Pane del cielo» e ciò è il segno che la sua Parola e il suo insegnamento sono il cibo della alleanza nuova, la nuova manna che toglie la fame e la sete di giustizia per entrare nel Regno: «Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati» (Mt 5,6) e apre al mistero della Pasqua come dimensione della nuova alleanza. Gv infatti fa compiere Gesù la benedizione del pane con la formula che i Sinottici riservano per la l’ultima Cena: «Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li distribuì» (v. 11; cf Mt 26,26; Mc 14,22; Lc 24,30; At 27,35; 1Cor 11,23-24), facendo del miracolo della moltiplicazione un riferimento al memoriale della Pasqua che dà la vera prospettiva dell’Eucaristia: la Pasqua unica di Cristo che celebriamo nel tempo e riviviamo nel nostro oggi.[15]
Il Sal. 78/77,25 nel testo ebraico parla di «pane dei forti/potenti – lèchem ’abirim» che la Lxx traduce in greco con «pane degli angeli – àrton anghèlōn» come anche il libro della Sapienza (scritto solo in greco) in usa l’espressione «nutrimento/cibo degli angeli – anghèlōn trophên» (Sap 16,20). La tradizione giudaica al tempo di Gesù aveva preparati il terreno alle affermazione «forti» di Gesù che quindi non facevano scandalo, ma erano comprese come ovvie, all’interno di un patrimonio culturale e religioso che era diffuso nelle sinagoghe[16].
Abbiamo lasciato per ultimo la spiegazione del significato della «molta erba» del v. 10b e che abbiamo individuato come il punto centrale, il cuore della prima unità letteraria (vv.1-15). La domanda è: qual è il significato dell’erba? In Gv nulla è scontato. Viene spontaneo dire che Gesù era in aperta campagna in primavera, nel mese di Nisan (corrispondente a marzo-aprile) perché lo stesso evangelista annota che «era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei» (Gv 6,4). Gv non indulge mai ad annotazioni colorite, ma ha sempre un significato esplicito o nascosto. Abbiamo visto che egli intende presentare Gesù come nuovo Mosè, nuovo profeta, ma manca la figura che in tutta la tradizione ebraica è il re-pastore ideale, il modello dell’autorità sotto le sembianze di un pastore,, dalla cui stirpe doveva nascere il Messia: è la figura di Davide. Davide fugge da Saul (1Sa 21,4) si presenta al sacerdote Achimelech nella cittadina di Nob, «la città dei sacerdoti» a km 2 a nord di Gerusalemme e chiede «cinque pani», ma riceve «il pane sacro» (1Sa 21,5.7), il pane riservato ai sacerdoti (Lv 24,5-9; Mt 12,4; Mc 2,26). L’erba è un esplicito riferimento al Sal 23/22,1-2.5: «1 Salmo. Di Davide. Il Signore è il mio pastore non manco di nulla 2 Su pascoli erbosi il Signore mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce… 5 Davanti a me tu prepari una mensa ». Il salmo descrive Dio stesso come pastore che nutre le pecore/Israele con erba e alle quali prepara una mensa di riscatto. Se la manna dunque rimanda a Mosè, l’erba richiama Davide il pastore scelto personalmente da Dio (cf 1Sam 16,12; Ez 34,23; 37,24). Gesù è il nuovo condottiero e il nuovo pastore, anzi il «Pastore bello» (cf Gv 10,11.14): in lui si uniscono le funzioni di profeta e di pastore.
L’idea dei prati erbosi richiama  anche Gen 1,11-12 quando Dio crea l’erba sulla terra (sia nel salmo che in Genesi in ebraico si usa lo stesso termine: dèshe’verdura/erba), mentre l’idea della mensa/tavola richiama il banchetto messianico (c f Is 25,6). La «molta erba» di Gv 6,10b sono un richiamo dei pascoli erbosi procurati da Dio stesso, il pastore che non esita a lasciare il gregge nell’ovile per andare a cercare la pecora che si è smarrita nel deserto (Lc 15,4). Con la semplice annotazione dell’«erba» Gv ci dice che Gesù prepara i pascoli erbosi descritti dal suo antenato Davide e quindi lo paragona al re che fu il pastore modello di tutti i re d’Israele. La tradizione ebraica aveva presentato anche Mosè come pastore d’Israele[17] (cf Es 3,1) che aveva procurato al popolo d’Israele i pascoli abbondanti della Parola di Dio scritta sulle tavole di pietra. Gesù si pone sulla stessa linea, superandola: egli, la Parola di Dio, il Lògos che nutre da sé il popolo è venuto a radunare dalla dispersione.
Concludendo: la prima unità del capitolo 6 di Gv (vv. 1-15) potrebbe essere un midrash cristiano con cui la comunità giovannea rileggeva l’AT attraverso il tema del pane-eucaristia, adombrando nelle figure del passato, l’immagine di Gesù che ora realizza ciò che quelli avevano prefigurato: Mosè, Eliseo, Elia, Davide. Nella persona di Gesù tutto l’AT si compie e giunge a maturazione con una quantità tale che non solo sazia i contemporanei, ma ne resta anche per le generazioni future (Mt 5,17).
Celebrare l’Eucaristia non è adempiere ad un precetto o compiere un dovere: principalmente è celebrare la profezia che noi abbiamo in custodia il cibo di Dio a cui hanno diritto tutte le genti. Quando nella preghiera del Padre nostro chiediamo «il pane quotidiano» non chiediamo solo o esclusivamente l’Eucaristia, ma c’impegniamo perché ogni mensa abbia il pane necessario, il pane sufficiente. Con l’aiuto di Dio.
 
Applicazione attualizzante
Quale posto occupa nella nostra vita l’Eucaristia?
A guardarci intorno, a volte, non abbiamo l’impressione che nelle nostre comunità (parrocchie, chiese, conventi e monasteri, cattedrali, ecc.) l’Eucaristia sia un rito tra tanti, un’abitudine quotidiana da fare e alla quale non si presta più la massima attenzione che esige?
Molti stanno a guardare l’orologio e spesso i ministri offrono celebrazioni «a tempo»: facciamo presto perché devo andare … perché oggi abbiamo tante cose da sbrigare … Quante comunità collocano l’Eucaristia al mattino con la motivazione … così mettiamo a posto il Signore e abbiamo la giornata libera? In un giorno vi sono 24 ore, in una settimana vi sono 168 ore: un tempo enorme che non è nostro, ma è regalato dalla misericordia di Dio. Su 168 ore che Dio regala e che noi possiamo usare come vogliamo, quante gliene restituiamo? In questa logica dobbiamo comprendere il rimprovero di Gesù agli apostoli nell’orto degli ulivi: «Non avete saputo vegliare un’ora con me» (Mt 26,40). La proporzione settimanale è 168 ore per noi e, di norma, meno di un’ora per il Signore del Tempo e dell’eternità.
Quale senso e posto l’Eucaristia occupa nella nostra vita? Che qualità di tempo noi le dedichiamo? L’Eucaristia è il metro della maturità di una persona credente e il livello d’intimità di una comunità.
A volte sarebbe preferibile stare senza Eucaristia, piuttosto che «dire Messa» (notare le parole che a volte usiamo!!!!) come fosse un piccolo diversivo per occupare un po’ del nostro tempo.
In questa chiesa, come sappiamo, noi applichiamo la legge di Mt 26,40: L’Eucaristia si prende il tempo di cui ha bisogno, circa un’ora e mezza, perché volgiamo essere seri con il Signore che è una persona seria.
 
Ognuno di noi
-    sente e vive se stesso come pane d’orzo, pane povero che si spezza, segno visibile della chiesa intera, immersa nel cuore del mondo che è strangolato dalla fame dei suoi figli più deboli;
-    riceve e accoglie il pane, ne conserva con cura gli avanzi  nel cuore come promessa del mondo futuro;
-    viene dalla sua casa all’altare dell’Eucaristia, incarnando l’esodo di liberazione, simbolo dell’andare dall’Egitto alla Terra Promessa della fedeltà e dell’amore totale e indiviso a Lui che ci ama per primo;
-    va dall’altare dell’Eucaristia all’Eucaristia della vita, perché il tempo e lo spazio che viviamo diventino «luoghi» privilegiati di comunione e di condivisione, sapendo che ogni Eucaristia potrebbe essere l’ultima.
-    sta davanti all’altare come se stesse sulla montagna del Sinai e sulla montagna con Gesù e gli apostoli, da cui riceve non più le tavole di pietra, ma la Persona stessa di Gesù nella garanzia del Suo Spirito che si concretizza nella scelte di vita;
-    vive l’Eucaristia come Pasqua perenne, principio e fondamento di comunione e di servizio;
-    porta nel cuore, la povertà e la fame del mondo… i poveri con cui Gesù si identifica (Mt 25, 31-40);
-    si carica delle ceste avanzate, distribuendole all’umanità affamata con i sacrifici che la vita comporta, vivendolo con amore totale nel Cuore di Dio, là dove, nella solitudine che è la compagnia di Dio, può incontrare i fratelli e le sorelle che chiedono il pane della mensa e il Pane della vita;
-    si mette a servizio del Signore, ponendo il proprio pane e il proprio pesciolino a servizio della Provvidenza e della Missione, vivendo la preghiera come appuntamento in Dio con tutta l’umanità assetata di redenzione;
-    gestisce il suo tempo come pane e pesci da moltiplicare per crescere in sapienza e conoscenza del Signore che chiama al suo banchetto che sfama per la vita eterna;
-    si fa pane spezzato con Cristo, consumandosi d’amore totale fino all’ultima briciola per essere solo respiro pasquale e segno vivente di armonia sponsale.


[1] Lo schema delle domeniche è il seguente: 17a dom.: vv. 6, 1-15: il miracolo del pane materiale moltiplicato in abbondanza; 18a dom.: vv. 6,24-35: dal pane materiale al pane che dura per la vita eterna; 19a dom.: vv. 6,41-51: solo la fede apre all’accoglienza del «Pane del cielo»; 20a dom.: vv. 6,51-58: «il Pane del cielo» è comunione eucaristica d’intimità con Lui; 21a dom.: vv. 6,60-68: «questo» Pane impone una sceltadi coscienza : Volete andarvene anche voi? (v. 67).
[2] «Se noi veniamo a cercare nell’Eucaristia una consolazione sentimentale o per compiere un dovere necessario perché vi siamo obbligati dalla «legge», noi siamo ancora nel vecchio mondo, anzi siamo morti e restiamo incapaci di cogliere la novità della storia e cioè che «il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù» (At 3,13). Oggi siamo qui per un atto d’amore libero e gratuito: un bisogno interiore che ci fa dire come i martiri di Abitene “senza la domenica noi non possiamo vivere” (Atti dei Martiri, XII) perché qui è la Parola, il Pane, il Vino, il perdono, la fraternità. In un soffio: qui è il Cristo condiviso» (cf P. Farinella, Domenica 3a di Pasqua-C, introduzione).
[3] Nei momenti cruciali della sua vita, Gesù sale sempre sulla montagna: beatitudini (Mt 5,1), preghiera (Mt 14,23), trasfigurazione (Lc 9,28).
[4] La struttura presentata nel testo si chiama chiasmo o incrocio o uncino perché il brano è concepito in modo che il 1° elemento (A) corrisponda l’ultimo (A’), il 2° elemento (B) al penultimo (B’), il 3° (C) al terzultimo (C’), il 4° (D) al quartultimo (D’) per giungere all’elemento centrale del racconto che è il punto E: la MOLTA ERBA. Apparentemente ad un lettore superficiale questa conclusione potrebbe apparire fuori posto e senza senso. Che senso ha tutta questa struttura per mettere in evidenza che «c’era molto erba»? Se però vogliamo capire il messaggio dell’autore dobbiamo cogliere il significato della molta erba del v. 10b, che solo apparentemente è un elemento secondario, mentre per l’autore è la chiave per capire l’insieme del capitolo. Le sottolineature in grassettoindicano le corrispondenze, mentre quelle in grassetto-corsivo indicano le corrispondenze contrapposte in qualche elemento: se confrontiamo A e A’ vi troviamo elementi simili (folla/uomini; vedendo/visto; Gesù salì/Gesù si ritirò; sulla montagna/sulla montagna), ma anche due elementi contrapposti: segni/segno e con i discepoli/solo:
-    vv. 1-3:             la folla…             vedendo i segniGesù salì sulla montagna…           con i suoi discepoli
-    vv. 14-15:         gli uomini…        visto       il segnoGesù si ritirò… sulla montagnatutto solo.
[5] Anche la scienza dei numeri ci viene in aiuto a questa interpretazione: i precetti sono 613 cioè 6+3+1 cioè 10 che da come risultato 1. L’opera della fede, l’Eucaristia è il segno per eccellenza dell’Inviato/Shaliàh del Padre (cf Mc 12,29-31).
[6] La domenica 18a sviluppa il tema del «mare/acque» nel brano di Gv 6,16-21: in esso l’evangelista ci presenta Gesù che come Yhwh creatore domina le acque del mare e raggiunge i suoi discepoli. Gv 6,16-25 forma la 2a unità letteraria.
[7] I rabbini del dopo esilio avevano codificato la Toràh in una serie sconfinata di 613 precetti[7] che un buon giudeo era tenuto ad osservare. Il Talmud babilonese (trattato Makkòth 23b: tradizione di Rav. Simlai, amoraita del III sec. d.C.) insegna che la Toràh contiene 613 mitzvòt o precetti, dei quali 248 sono mitzvòt asèh (comandamenti/precetti positivi, prescrizioni) e corrispondono alle parti di cui si compone il corpo umano che sono in totale 248 (ossa, nervi, ecc.); 365 sono invece mitzvòt taasèh (comandamenti/precetti negativi, divieti) e corrispondono ai giorni dell’anno solare che sono 365. La Toràh deve essere osservata con tutta la persona (248 ossa) e questo impegno deve durare tutto l’anno (365 giorni). Il numero 613 si ricava dalla ghematrìa: la parola Toràh in ebraico (T_W_R_H) ha un valore numerico di 611 (400_6_200_5) a cui devono essere aggiunti i due pronomi personali «Io» (in ebraico si usa la forma lunga «Anokî» e quella corta «Aní») con i quali Dio si presenta nel consegnare l’intera Toràh a Mosè sul Sinai (Es 20,2-3; Dt 5,6-7). La somma di 311+2 dà il risultato di 613. E’ l’estensione a dismisura della legge morale che non lascia nulla al caso o alla determinazione della libertà personale, ma tutto è previsto, stabilito. codificato. Al tempo di Gesù l’osservanza di tutti i precetti della Torah (Sir 51,26; Ger 2,20; 5,5; Gal 5,1) erano considerati un giogo pesante da portare; le donne erano obbligate ad osservare i comandamenti positivi, ma erano dispensate da quelli negativi. In questo contesto, i farisei pensavano che il popolo non potesse salvarsi perché incapace di osservare tutti i precetti prescritti. Quando un non ebreo chiedeva di convertirsi all’ebraismo gli si spiegava come fosse duro portare il giogo della Toràh per scoraggiarlo (Talmud, Berakòt 30b). Il giogo però indicava anche la fatica quotidiana dello studio della Toràh che equivale all’osservanza di tutti i comandamenti presi nella loro totalità (Mishnàh, Pèah/Angolo, 1,1; Talmud, Shabàt 127a.). Giovanni nel prologo parla di «Lògos» al singolare che è una magnifica contrapposizione all’inflazione delle «parole» che dominava il suo tempo. La «pienezza del tempo» si caratterizza per il fatto che la Parola per eccellenza, la Toràh, la creazione e i comandamenti non sono altro che anticipi, prolessi dell’unica Parola che è il Figlio di Dio, il quale non ha più bisogno di molte parole per manifestare il volto di Dio, ma ora è Lui stesso il Figlio prediletto che diventa Parola. Per questo sul monte Tàbor, la voce celeste ordinerà di ascoltarlo (cf Mt 17,5; Mc 9,7; Lc 9,35).
[8] «La terra darà i suoi frutti diecimila volte tanto e in una vite saranno mille tralci e un tralcio farà mille grappoli e un grappolo farà mille acini e un acino farà un kor di vino [350 litri, ndr]. E coloro che avevano avuto fame saranno deliziati e, ancora, vedranno meraviglie ogni giorno. Venti infatti usciranno da davanti a me per portare ogni mattina odore di frutti profumati e, al compimento del giorno, nubi stillanti rugiada di guarigione. E accadrà in quel tempo: scenderà nuovamente dall’alto il deposito della manna e in quegli anni ne mangeranno perché loro sono quelli che sono giunti al compimento del tempo. E accadrà dopo ciò: quando il tempo della venuta dell’Unto sarà pieno ed egli tornerà nella gloria, allora tutti coloro che si erano addormentati nella speranza di lui risorgeranno. E accadrà in quel tempo: saranno aperti i depositi nei quali era custodito il numero delle anime dei giusti ed esse usciranno e la moltitudine delle anime sarà vista insieme, in un'unica assemblea di un'unica intelligenza, e le prime gioiranno e le ultime non si dorranno. Sapranno infatti che è giunto il tempo di cui è detto: è il compimento dei tempi. Le anime degli empi, invece, quando vedranno tutte queste cose, allora soprattutto si scioglieranno. Sapranno infatti che è giunto il loro supplizio ed è venuta la loro perdizione» (2Baruc XXIX,3-XXX,5: traduzione di P. Bettiolo, in P. Sacchi (a cura di), Apocrifi dell’Antico Testamento, I, Milano, TEA 1990, 302-203).
[9] In ebraico il nome «Yehosuàh» nella forma lunga, oppure «Yoshuàh» nella forma corta significa tanto «Giosuè» che «Gesù». La Bibbia greca della Lxx, traduce sempre con «Iēsoûs - Gesù». Il nome è come di solito «teofòrico» perché ha il significato di «Dio salva».
[10] Per un approfondimento maggiore, cf Domenica 19a–Ord.–B, da cui riportiamo il testo del Targum.
[11]«Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi» (Gv 15,12). «Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui» (Gv 14,21). «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34). «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti»(Gv 14,15).  «E io so che il suo comandamento è vita eterna. Le cose dunque che io dico, le dico come il Padre le ha dette a me» (Gv 12,50). «Carissimi, non vi scrivo un nuovo comandamento, ma un comandamento antico, che avete ricevuto fin da principio. Il comandamento antico è la parola che avete udito» (1Gv 2,7). «E ora prego te, o Signora, non per darti un comandamento nuovo, ma quello che abbiamo avuto da principio: che ci amiamo gli uni gli altri» (2Gv 5). «Questo è l’amore: camminare secondo i suoi comandamenti. Il comandamento che avete appreso da principio è questo: camminate nell’amore» (2Gv, 6). «In questo infatti consiste l’amore di Dio, nell’osservare i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi» (1Gv 5,3). «In questo conosciamo di amare i figli di Dio: quando amiamo Dio e osserviamo i suoi comandamenti» (1Gv 5,2). «Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato» (1Gv 3,23). «Da questo sappiamo d’averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti» (1Gv 2,3). «Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore» (Gv 15,10).
[12] Sulla formula «Io-Sono» cf. Omelia della Domenica di Pentecoste-B e l’omelia della domenica 4a dopo Pasqua-B in cui sono riportati i 26 testi giovannei in cui ricorre l’espressione auto-rivelatrice «Io-Sono (greco: egō eimì).
[13] Sull’equivalenza manna = Parola di Dio si sofferma anche la tradizione ebraica secondo la quale nel Tempio di Gerusalemme, nel Santo dei Santi, erano conservate tre ampolle: una piena di manna, una piena di acqua del pozzo di Miriam e una piena d’olio per l’unzione. Queste tre ampolle furono nascoste dal re Giosia quando si seppe che il Tempio sarebbe stato distrutto e saranno ritrovate e riportate alla luce nel tempo messianico dal profeta Elia che precederà il Messia come precursore (cf L. Ginzberg, Le leggende degli Ebrei, IV. Mosè in Egitto, Mosè nel deserto, Adelphi Milano 2003, 172). Al profeta Geremia che lo esortava a studiare la Toràh, il popolo d’Israele replicava che se avesse studiato la Parola di Dio non avrebbe tempo per procurarsi da mangiare. Il profeta indicando la manna conservata nel Tempio, rispose: «“O generazione! guardate la parola del Signore!” (Ger 2,31). Guardate qual è stato il cibo dei vostri padri quando si applicavano allo studio della Torah! Dio vi sosterrà nello stesso modo, se vi dedicherete alla Legge» (Id., 172). Questa tradizione ne fonda un’altra: Dio fece prolungare il pellegrinaggio nel deserto per 40 anni per permettere agli Ebrei di studiare la Toràh e lo studio della Parola dispensava dal procurarsi il cibo perché Dio stesso nutriva il popolo con la manna (Id., 137). 
[14] Rabbi Hoshaya (amoraita sec. IV-V d.C.) commentando Pr 8,22 («Il Signore mi ha creato all’inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, fin d’allora»), dice: «Il Santo, benedetto egli sia, consultò la Torà per creare il mondo. La Torà dice: “Con un ‘principio’ Dio creò [ebraico: Gen 1,1: Bereshit barà Eloim] e principio non è altro che la Torà, secondo quanto è detto: Yhwh mi ha acquistato/creato, principio della sua via [Pr 8,22 ebraico: Yhwh qanàni reshitdarkò]» (Genesi Rabbà I,1), in E.E. Urbach, Les sages d’Israël, conceptions et croyances des maîtres du Talmud, Paris 1996, 208.
[15] Anche i pani d’orzo sono un accenno alla dimensione pasquale della moltiplicazione dei pani (v. a pagina 4).
[16] Secono il Talmud (Yoma 75a) il grande Rabbì Aqivà sosteneva che questo pane fosse il nutrimento degli angeli e secondo il trattato Pikrqè Avot – Le Massime dei padri (V, 6) la manna è stata creata al crepuscolo del sesto giorno della creazione e immediatamente prima del primo Sabato (cf Sifre Dt 355; Pesahim 54a; PRE 19; Targum Yertushalmì a Nm 22,18, ecc. Tutti questi testi pur differendo nel numero sono concordi nell’affermare che la manna fu creata insieme ad altri oggetti «prima della creazione del mondo» per sottolinearne l’importanza.
[17] Filone d’Alessandria, Liber Antiquitatum Biblicarum (LAB), 19,3; cf i testi della tradizione rabbinica in R. Bloch, «Quelques aspects de la figure de Moise dans la tradition rabbinique», Cahiers Sioniens (CS) 8 (1954) 137-158.
 
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Domenica 17a del tempo ordinario – B – Parrocchia di S. M. Immacolata e S. Torpete
© Nota: L’uso di questi commenti è consentito citandone la fonte bibliografica
Paolo Farinella, prete – 26-07-2009 – San Torpete,Genova
 


Mercoledμ 22 Luglio,2009 Ore: 14:52
 
 
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