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www.ildialogo.org Ridimensioniamoci,di Paolo Farinella, prete

16a Domenica per annum – B – 19 luglio 2009 –
Ridimensioniamoci

di Paolo Farinella, prete

Domenica 16a per annum – B
– 19 luglio 2009 –
Il tema dell’autorità nella Chiesa è il cuore dell’annuncio profetico della Parola in questa 16a domenica del tempo ordinario – B. E’ un tema delicato perché c’è sempre un duplice rischio: se si accenna qualche rilievo al modo di esercizio dell’autorità nella Chiesa, si passa per «ribelli» o peggio «comunisti»; se invece si tace anche di fronte a manifestazioni autoritarie che esulano dal mandato ricevuto prevaricando dalla propria missione, si passa per paurosi e succubi. Per evitare questo cerchio asfissiante, c’è una sola via: entrare dentro la Parola di Dio e lasciarsi liberamente modellare da essa senza pregiudizi e senza secondi fini. Gesù non ha dato un mandato di autorità, ma di «diaconia» (cf Mc 10,40-45) presentandosi come il «Servo di Yhwh» (cf Lc 4,18-19) e principalmente offrendo l’esempio delle sue scelte: mettendosi in fila con i peccatori sulle rive del Giordano (Mc 1,4-9), andando per villaggi alla ricerca dei perduti e dei dispersi (Mc 1,38)  e dei pagani con altre religioni (Lc 4,26-27). Nella Chiesa governare dovrebbe essere il compito più facile del mondo perché dovrebbe essere sufficiente che chi esercita il ministero del servizio faccia come ha fatto Gesù: liberarsi da ogni suppellettile ornamentale che fa apparire papa, cardinali, vescovi, ecc. come satrapi persiani addobbati per un carnevale con uno stile di vita modellato su quello del mondo fasullo e non su quello austero del vangelo. Vi sono episcòpi e case di preti e prelati che sono regge e non possono essere «segni» della povertà di Betlemme o di Nàzaret o del Calvario.
Nessuno che voglia essere fedele alla Parola di Dio, può dichiararsi contro l’autorità nella Chiesa: nel vangelo è della massima evidenza la sua funzione e nessuno può eliminarla senza snaturare il vangelo stesso. Fatta questa doverosa attestazione, per eliminare ogni possibile fraintendimento, rileviamo che Gesù concepisce l’autorità come sacramento della misericordia di Dio in modo specularmente opposto al «sistema mondo» (cf Mc 10,40-45): «Essi sono “nel” mondo … essi non sono “del” mondo» (Gv 17,11.14). Oggi nella Chiesa, esiste una «questione autorità», che ultimamente si trascina dagli anni ’80 fino ai nostri giorni e che potremmo definire così: con il pontificato di Giovanni Paolo II e ancora di più con quello di Benedetto XVI è diminuito lo spazio del laicato e quindi del popolo di Dio e si è esteso quello dell’autorità che ha occupato anche spazi non propri. Si è verificato anche, in questo senso, una trasformazione semantica: il termine «Chiesa», che indica la «convocazione dell’Assemblea»[1], all’interno della quale si diversificano i diversi ministeri e funzioni, è diventato sinonimo di «gerarchia». E’ una mutazione genetica illecita e che non appartiene alla logica e alla lettera del vangelo e del diritto. Sta qui la premessa che porta di fatto all’abolizione del concilio Vaticano II che ha dedicato il capitolo II della Costituzione Lumen Gentium al «popolo di Dio» e il capitolo terzo alla «gerarchia», invertendo l’ordine della commissione preparatoria e operando solo per questo fatto una  rivoluzione copernicana nei confronti della teologia precedente[2].
Durante il pontificato dei due papi sopra citati, è stata espunta l’espressione «Chiesa–popolo di Dio» e sostituita con l’espressione più intimistica e meno compromettente di «Chiesa–comunione». Ciò comporta la distrazione dell’autorità da quelli che sono i compiti suoi propri: la custodia, la formazione e la tutela dell’integrità del popolo di Dio di cui dovrà rendere conto al Dio «pastore d’Israele» (Sal 80/79, 2). Sono scomparse le voci laicali che furono un fermento del dopo concilio, mentre ovunque dilaga e si espande la presenza clericale strettamente intesa: non c’è contenitore tv, anche di bassa lega, che non abbia un prete o un religioso a fare da «opinionista» in un contesto che è solo superficialità e banalità e veline nude con le forme la vento. La gerarchia rifiuta la mediazione culturale laicale e si rapporta direttamente con la politica e i governi, occupando uno spazio che non le compete a norma dello stesso magistero della Chiesa, compendiato nella Dottrina sociale della Chiesa. I laici hanno perso il diritto di parola e nelle cose che sono del mondo gli è stato amputato il dovere della rappresentanza. Per tutti parla il papa o il presidente della Cei. Ai laici resta il diritto di rispondere: «Amen!» in segno di assenso e di sottomissione. Essi sono tollerati come collaboratori dei preti, ma solo se stanno al loro posto[3].
Stiamo assistendo ad uno scisma nella Chiesa visibile, non tanto silenzioso, certamente sommerso e molto più grave di quello che appare in superficie: lo scisma tra chi detiene l’autorità e il popolo che in buona parte va per la sua strada, si dà una struttura religiosa su misura, codifica una morale personale e tutto nonostante le dichiarazioni del magistero, le minacce, i documenti solenni che lasciano il tempo che trovano[4]. Ecco alcune pennellate che la liturgia di oggi ci propone.
Geremia, solo in mezzo ad una folla di adulatori, mette in guardia il re Sedecìa (597-586 a.C.) di non perseguire sogni di vanagloria, ma di leggere gli eventi come comandamenti di Dio per cogliervi il tracciato della storia della salvezza. Il profeta prende atto che il re e i suoi cortigiani si reputano politici dal fiuto straordinario e mentre essi tramano le loro alleanze e si congratulano con se stessi per la loro bravura e capacità,  egli annuncia la disfatta che sarà molto più dura di quanto non si possa immaginare. Sedecìa e i suoi cortigiani da lì a poco verranno letteralmente accecati col ferro rovente da Nabunodònosor, re di Babilonia (637-562 a. C.) che li porterà in esilio da cui non ritorneranno più. Chi aveva fatto del culto della propria personalità l’obiettivo della vita si ritrova schiavo e diseredato fuori dalla terra promessa: muoiono in terra straniera. I capi di governo che usano la religione per i loro fini di potere e il nome di Dio per distrarre dai loro misfatti, sono ripudiati con ludibrio pubblico.
Gesù nel Vangelo di fronte all’entusiasmo dei discepoli che gli narrano del loro successo, si preoccupa di ridimensionarli e li porta in «luogo deserto, in disparte» (Mc 6,32), sottraendoli alla folla che dava loro l’ebbrezza dell’importanza e della loro indispensabilità: «non avevano neanche il tempo di mangiare» (Mc 6,31). Quando il successo fa apparire indispensabili davanti ai propri stessi occhi, è tempo di salire su una barca e di andare altrove, a purificarsi, «in disparte» (Mc 6,32) per ritrovare le proporzioni della propria dimensione, per rimanere in contatto con la realtà e la spiritualità del dovere e della responsabilità (cf Lc 17,10).
E’ questo il senso pastorale e spirituale dell’Eucaristia: è il nostro «luogo deserto», il nostro «disparte» dove formiamo una comunione di persone per prendere coscienza della nostra vocazione e del nostro ministero. Qui la Parola di Dio ci purifica nelle acque dello Spirito e ci restituisce alla verità di noi stessi, l’unica possibile, secondo il metodo di Lc 17,10: «Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”». Questa coscienza rende responsabile ogni battezzato consapevole davanti al diritto innato di parola e di testimonianza. Nessuno, tanto meno l’autorità della Chiesa può privarci di questo diritto. Il cristiano non riceve il mandato di annunciare la Parola, di celebrare l’Eucaristia e di testimoniare dall’autorità, ma gli deriva, sorgiva e autorevole, direttamente dal battesimo, dalla consacrazione che lo innesta nel  «Regno di sacerdoti e nazione santa» (Es 19,6; cf 1 Pt 1,5). In quanto battezzati siamo responsabili della salvezza del papa, dei vescovi, dei superiori e di chiunque esercita un’autorità nella Chiesa: non avvertirli quando, secondo la nostra coscienza, si allontanano dal vangelo, è una colpa di cui dobbiamo rendere conto a Dio. Invochiamo lo Spirito Santo che ci introduca nel Santo dei Santi della Shekinàh/Dimora, liberandoci dalla tentazione demoniaca della vanagloria e della paura perché tutto ciò che siamo lo siamo per il Signore (cf 1Cor 8,6) e tutto ciò che facciamo lo vogliamo fare per la gloria di Lui soltanto[5], in forza di quell’assillo del vangelo che lo stesso Spirito alimenta in noi (cf 2Cor 11,28)  e per il quale ci convoca all’Eucaristia.
 
 
Letture Bibliche
Prima lettura Ger 23,1-6. Nel 597 a.C. il re di Babilonia Nabucodonosor (605 - 562 a.C.) insedia a Gerusalemme come re fantoccio Mattania a cui cambia il nome in Sedecia. I veggenti cortigiani lo convincono a ribellarsi a Nabucodonosor e a ristabilire il nazionalismo alleandosi con l’Egitto. Il re di Babilonia ritorna in Palestina e deporta Sedecia a cui cava gli occhi, dopo avergli ucciso i figli davanti (Ger 39,6-7). Il profeta Geremia è l’unico che si oppone a questa politica e suggerisce di restare sottomessi a Babilonia finché non giungerà l’ora della liberazione che solo il Signore conosce. Egli non è ascoltato e il popolo di Dio paga una conseguenza terribile in vite umane, sangue e distruzione. Dio rinnega i capi e si sostituisce a loro prendendosi cura direttamente del suo popolo. Quando si ha la rettitudine morale si è sempre mercenari e profittatori, ma viene sempre il giorno del rendiconto.
 
Dal libro del profeta Geremia Ger 23,1-6
Dice il Signore: «Guai ai pastori che fanno perire e disperdono il gregge del mio pascolo. Oracolo del Signore. Perciò dice il Signore, Dio d’Israele, contro i pastori che devono pascere il mio popolo: Voi avete disperso le mie pecore, le avete scacciate e non ve ne siete preoccupati; ecco io vi punirò per la malvagità delle vostre opere. Oracolo del Signore. Radunerò io stesso il resto delle mie pecore da tutte le regioni dove le ho scacciate e le farò tornare ai loro pascoli; saranno feconde e si moltiplicheranno. Costituirò sopra di esse pastori che le faranno pascolare, così che non dovranno più temere né sgomentarsi; non ne mancherà neppure una. Oracolo del Signore. 5 Ecco, verranno giorni — oracolo del Signore — nei quali susciterò a Davide un germoglio giusto, che regnerà da vero re e sarà saggio ed eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra. Nei suoi giorni Giuda sarà salvato e Israele vivrà tranquillo, e lo chiameranno con questo nome: Signore-nostra-giustizia». - Parola di Dio.
 
Salmo responsoriale 23/22, 2-3; 4; 5; 6. Salmo poetico di squisita delicatezza che descrive una fiducia totale nel Signore descritto come pastore premuroso delle sue pecore. La freschezza delle immagini, la delicatezza dei sentimenti e la profondità teologica ne fanno una perla di tutto il Salterio. La tradizione ebraica dice che il Salmo fu composto da Davide mentre scappava da Saul ed essendosi rifugiato nel deserto di Giuda, che Dio irrigò con la rugiada rendendo commestibili le foglie e l’erba. Dio nutre Davide nell’aridità di Giuda come aveva nutrito il popolo nel deserto all’uscita dall’Egitto. Il salmo in ebraico si compone di 57 parole che corrispondono al valore numerico della parola ebraica ‘oklàh che significa «nutrimento». Per questo motivi gli Ebrei ancora oggi lo recitano prima di mangiare. Insegna la tradizione ebraica che chi recita questo salmo sarà benedetto con l’abbondanza.
 
 


Rit. Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla.
1. 2 Il Signore è il mio pastore:
non manco di nulla.
Su pascoli erbosi mi fa riposare,
ad acque tranquille mi conduce.
3 Rinfranca l’anima mia. Rit.
2. Mi guida per il giusto cammino
a motivo del suo nome.
4 Anche se vado per una valle oscura,
non temo alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro
mi danno sicurezza. Rit.
3. 5 Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici.
Ungi di olio il mio capo;
il mio calice trabocca. Rit.
4. 6 Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
abiterò ancora nella casa del Signore
per lunghi giorni. Rit.


 
Seconda lettura Ef 2,13-18. Per l’autore della lettera gli Efesini, un frutto importante della redenzione di Cristo è l’unità dei Giudei e dei Pagani nell’unica Chiesa. La pace non è solo un obiettivo umano, ma una Persona viva che da inizio ad una nuova umanità senza differenze e che in se stessa ha fatto pace tra Dio e l’umanità nel segno della croce e dello Spirito Santo (vv. 16-17). Un millennio di pace sarà garantito al mondo quando Israele e i Gentili si riconosceranno figli della stessa redenzione. Nel frattempo noi possiamo pregare e impegnarci affinché ciò accada, nonostante le apparenze.
 
Dalla lettera di Paolo apostolo agli Efesini 2,13-18
Fratelli, 13 ora, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete diventati vicini, grazie al sangue di Cristo. 14 Egli infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, 15 per mezzo della sua carne. Così egli ha abolito la Legge, fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, 16 e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in se stesso l’inimicizia. 17 Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani, e pace a coloro che erano vicini. 18 Per mezzo di lui infatti possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito. - Parola di Dio.
 
Vangelo Mc 6,30-34. Il brano del vangelo di oggi inaugura quella che comunemente viene chiamata la «sezione dei pani» e si estende da metà del cap. 6 a metà del cap. 8[6] e che riporta due racconti di moltiplicazione dei pani. Dei tre sinottici, Mc è quello che ha meglio organizzato questa sezione, scegliendo il tema del «pane» come filo narrativo unificante di racconti diversi. Mc porta Gesù nel deserto (v. 32) dopo il ritorno dei discepoli dalla missione (v. 30) a cui offre un momento di riposo e di riflessione (v. 31). Tutto ha lo scopo di condurci al v. 34, dove incontriamo la folla che vaga nel deserto senza guida e la commozione profonda di Gesù. Ancora una volta egli va incontro agli smarriti per dare loro la consolazione della speranza. E’ ciò che avviene per noi qui nella celebrazione dell’Eucaristia.
 
 
 
Dal Vangelo secondo Marco Mc 6,30-34
In quel tempo, 30 gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. 31 Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare. 32 Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. 33 Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero. 34 Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose. - Parola del Signore.
 
Lode a te, o Cristo. Noi ti riconosciamo Lògos incarnato, Sapienza e lode del Padre. In principio eri presso Dio e sei venuto a noi Luce che illumina le genti. Noi ti accogliamo e ti benediciamo.


Spunti di omelia
Nel libro dei Numeri leggiamo che Mosè, dopo avere guardato la terra promessa e prima di morire, chiede a Dio un successore come guida del popolo e Dio gli dice di scegliere Giosuè:
«15 Mosè disse al Signore: 16 “Il Signore, il Dio della vita di ogni essere vivente, metta a capo di questa comunità un uomo 17 che li preceda nell’uscire e nel tornare, li faccia uscire e li faccia tornare, perché la comunità del Signore non sia un gregge senza pastore”. 18 Il Signore disse a Mosè : “Prenditi Giosuè, figlio di Nun, uomo in cui è lo spirito”» (Nm 27,15-18)[7].
 
In ebraico il nome «Yehosuàh» nella forma lunga, oppure «Yoshuàh» nella forma corta significa tanto «Giosuè» che «Gesù». La Bibbia greca della Lxx, traduce sempre con «Iēsoûs - Gesù». Il nome è come di solito «teofòrico» perché ha il significato di «Dio salva»[8]. Nel libro dei Numeri, Giosuè è successore di Mosè, ma nel libro del Deuteronomio c’è la promessa al popolo e a Mosè di suscitare un profeta «pari a» Mosè, il profeta più grande di tutti i tempi: «Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto» (Dt 18,15). Matteo in modo particolare considera che il compimento di questa profezia si compia nel momento della trasfigurazione, quando proprio davanti a Mosè, rappresentante della Toràh e ad Elia, rappresentante della Profezia e ai tre discepoli, rappresentanti della nuova umanità, la voce invita Israele e i popoli ad «ascoltare» Gesù: «Ed ecco una voce dalla nube che diceva: “Questi è il figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo”» (Mt 17,5). Il successore che Mosè chiede è Gesù  «il pastore bello» (cf Gv 10,11.14)  che si prende cura del gregge, che viene a radunarlo dalla dispersione dove si trova, che mette a rischio la sua vita e non quella delle pecore, che non esita a sacrificare la sua vita per salvare il gregge.
A sua volta il profeta Ezechiele, dalla terra di esilio di Babilonia, sette secoli dopo Mosè e cinque prima di Gesù, descrive le responsabilità e le condizioni dell’abbandono del gregge di Dio: i pastori che avrebbero dovuto curarsi delle pecore le hanno disperse e abbandonate nel deserto, lo stesso dove ora Mc conduce Gesù perché possa sfamarle e recuperale dalla loro desolazione. Dice il profeta Ezechiele:
 
«1 Mi fu rivolta questa parola del Signore: 2 “Figlio dell’uomo, profetizza contro i pastori d’Israele, predici e riferisci ai pastori: Dice il Signore Dio: Guai ai pastori d’Israele, che pascono se stessi! I pastori non dovrebbero forse pascere il gregge? 3 Vi nutrite di latte, vi rivestite di lana, ammazzate le pecore più grasse, ma non pascolate il gregge. 4 Non avete reso la forza alle pecore deboli, non avete curato le inferme, non avete fasciato quelle ferite, non avete riportato le disperse. Non siete andati in cerca delle smarrite, ma le avete guidate con crudeltà e violenza. 5 Per colpa del pastore si sono disperse e sono preda di tutte le bestie selvatiche: sono sbandate”» (Ez 34,1-5).
 
Gesù è la risposta all’invocazione di Mosè e anche alla preoccupazione di Ezechiele. Il vangelo di Gv lo chiama il «Pastore bello» (Gv 10,11.14) perché alimenta la sua bellezza nutrendo il suo sguardo e la sua anima con la familiarità delle sue pecore con le quali forma un tutt’uno. In Mc, come negli altri Sinottici, Gesù si presenta come il vero successore di Mosè e l’erede della profezia d’Israele: egli è in grado di prendersi cura del popolo di Dio, di nutrirlo e di guidarlo ai pascoli verdeggianti descritti nel salmo di oggi (Sal 23/22) che la tradizione ebraica attribuisce al pastore modello, il re Davide. E’ la logica e la prospettiva con cui si deve leggere quella parte del vangelo di Mc, detta «sezione dei pani» (Mc 6,8-8,30) che è costruita attorno a Cristo, nuovo Mosè: offre la vera manna (Mc 6,35-44 e 8,1-10); cammina sulle acque del mare dominandole (Mc 6,45-52) come Mosè per ordine di Dio dominò il Mare Rosso (Es 14,15-31); restituisce alla Toràh la sua dignità offuscata dal legalismo dei Farisei (Mc 7,1-13) e introduce i Pagani nella terra promessa ad Israele (Mc 7,24-37).
Questo il quadro di riferimento dentro il quale bisogna leggere il brano del vangelo di oggi, integrato con il brano di Geremia. Il profeta non si limita ad inveire contro i falsi pastori, ma davanti agli stessi «osa» affermare che Dio in persona li sostituirà, togliendo loro quell’autorità di cui non sono stati degni. Sceglierà capi competenti (Ger 23, 4-5) e li sceglierà dalla dinastia davidica (Ger 23, 5), collocandosi così  sulla prospettiva dinastica di Isaia (Is 7,13). Dal canto suo, Gesù, nel brano di oggi esprime la sua preoccupazione sulla condizione dei discepoli al ritorno dal mondo esterno e sulla situazione disperata in cui si trova il popolo, abbandonato a se stesso. Al loro ritorno, «gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato» (Mc 6,30). E’ qui il modello di Chiesa evangelica: andare nel mondo, tornare, riunirsi attorno a Gesù e riferire parole ed eventi: la comunicazione circolare.
Nella Chiesa spesso predomina il comando, l’ordine ad una unica direzione, la condanna senza giudizio e senza possibilità di difesa: autoritarismo verticale, dall’alto al basso, senza ritorno perché ai credenti è richiesto solo l’obbedienza all’autorità, anche nelle cose in cui l’autorità non ha alcuna competenza e per la quale non ha avuto alcun mandato, come l’impegno nelle realtà terrestri. Mancando la comunicazione circolare che demitizza l’esercizio dell’autorità come storicamente è realizzata, si crea un corto circuito che fa esplodere tensioni, conflitti e paure che chiudono e si risolvono con uno sterile «ritorno al passato», segno di poca fede e scarso discernimento della Storia come «luogo teologico» della Shekinàh/Dimora/Presenza di Dio.
Domenica scorsa abbiamo visto che i discepoli vanno oltre il mandato ricevuto: Gesù li aveva inviati nel mondo perché incontrassero gli uomini e le donne loro contemporanei per imparare a capire quali sono i bisogni dell’umanità lontana da Dio e come li aveva inviati in coppia dando loro «potere sugli spiriti impuri» (Mc 6,7), mentre essi si dedicano alla predicazione della conversione, all’unzione dei malati e alle guarigioni (Mc 6,12) e anche all’insegnamento (v. 30). Di fronte a questo capovolgimento del mandato ricevuto, Gesù non risponde, ma  non approva. Egli però si fa carico della loro stanchezza che comunque c’è stata (Mc 6,31). Li conduce in un luogo appartato per farli riflettere «a caldo» sulla corrispondenza tra mandato ed esecuzione e per sottrarli alla folla che li soverchia e li sommerge: «non avevano più neanche il tempo di mangiare» (Mc 6,31).
Di solito questo atteggiamento di tenerezza di Gesù nei confronti degli apostoli, viene interpretato come «fonte» giustificativa del riposo del clero, o peggio ancora come un corso di esercizi spirituali «ante litteram». Sono le banalità di che legge il vangelo per sentito dire, in modo fondamentalista e non si sforza nemmeno di cercare le intenzioni di Gesù, o quanto meno dell’autore. Non sappiamo con esattezza quali fossero le intenzioni di Gesù nel portarli in disparte, però dall’insieme del contesto possiamo supporre che la sua intenzione di fondo possa essere stata quella di aiutare i discepoli a riflettere sul «mondo pagano» che hanno appena visto e sperimentato; e anche a non montarsi la testa né a sentirsi «indispensabili» per la folla che preme.
Li conduce in un luogo deserto, dove possono stare con lui e con se stessi, lontani dai successi facili e dal gorgoglìo della folla che è una cattiva bestia: può ubriacare e può crocifiggere. La folla non ha un’anima, ma è un umore, non ha la personalità di un popolo, ma è capace di trasformare gli anonimi in eroi del momento, effimeri monumenti della provvisorietà. Gesù diffida sempre delle folle, sia quando vogliono farlo re (Gv 6,15), sia quando vogliono allontanarlo (Lc 8,37) o eliminarlo (Lc 4,29). Quando però, vede che la folla non desiste e lo rincorre, Gesù «ebbe compassione» (Mc 6, 34), cioè si lascia toccare dentro la sua anima e partecipa con tutto se stesso alla condizione di povertà del suo gregge: «erano come pecore che non hanno pastore» (v. 34).
 
Nota esegetica. Il testo greco per descrivere la commozione di Gesù usa il verbo «splanchinìzomai» composto dal sostantivo «splànchna» che significa «viscere» e deriva dall’ebraico «rèchem-grembo/utero» con evidente riferimento alla gestazione materna cioè alla parte vitale più interiore della donna, ad indicare un moto generativo, un processo vitale. E’ anche lo stesso verbo che usa Lc per descrivere la «commozione» del padre nei confronti del figlio prodigo che ritorna a casa (cf Lc 15,20). Il verbo ebraico è radicale e non indica solo «compassione» nel senso moderno del termine (avere compassione  da cum-pàthos, cum passus = avere lo stesso sentimento, patire/soffrire insieme, provare la stessa pena)), ma impregnarsi dell’altro con una profonda condivisione interiore fino a farlo proprio, «compartecipando» cioè «patendo con…/insieme», avendo lo stesso sentimento e facendosi carico della vita e dei pesi dell’altro. In senso ultimo significa «generare l’altro», riconoscerlo come parte di sé[9] (cf Omelia della Domenica 6a per annum B).
 
In che modo Gesù si fa carico fino a generare la folla con un atteggiamento materno di condivisione vitale? Si mette a fare scuola: «si mise ad insegnare loro molte cose» (Mc 6,34), non si preoccupa adesso se hanno fame, ma si preoccupa che abbiano una coscienza, una consapevolezza. Gesù era partito da due obiettivi: mandare i discepoli nel mondo perché apprendessero il linguaggio degli uomini e ne conoscessero l’habitat; con il secondo obiettivo voleva sottrarre i discepoli alla tentazione della folla e quindi della superficialità perché era necessario approfondire ciò che avevano visto e fatto. L’improvvisazione è nemica del vangelo, della fede e della pastorale[10]molti li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero» (Mc 6,33): la folla non è più anonima perché viene dalle città che delimitano l’identità dei suoi cittadini; essa decide, sceglie, li precede, segnando così il passaggio dalla superficialità alla coscienza.  .  La manovra di Gesù non riesce perché la folla da cui vuole scappare se la ritrova di nuovo. Ora la folla non è più anonima perché  «
Gesù e il suo messaggio aiutano la folla a diventare popolo. Quando la Chiesa ha paura del popolo di Dio e lo relega nella categoria della «folla» amorfa, ossequiente «usi ad ubbidir tacendo», non solo priva se stessa del diritto fondamentale di essere soggetto di evangelizzazione, ma frena e impedisce l’avvento del Regno di Dio. L’evangelista dice che si mise ad insegnare «molte cose»: non fece cioè un corso full-time per dare una infarinatura.  perché «molte cose» esigono molto tempo e la disponibilità della propria persona. In altre parole Gesù anticipa l’Eucaristia, simboleggiata nella moltiplicazione dei pani: egli si mette a disposizione fino a farsi consumare, prima come Parola e poi come vita/cibo. Sia la Parola che il cibo devono essere mangiati, ruminati, assimilati e gustati: e per questo ci vuole tempo, secondo il fortunato slogan: «Più Messa meno Messe».
Ricaviamo per noi un insegnamento esistenziale: noi credenti non siamo testimoni di Gesù perché offriamo un buon esempio di vita morale perché la vita morale non è appannaggio dei soli cristiani: anche i non credenti hanno una vita morale che eticamente può anche essere superiore. La testimonianza unica che nessun altro può «rapirci» è solo questa: dire con la vita nostra la vita di Gesù che si lascia consumare e si distribuisce alla folla affamata di Parola e di pane. Quando affrontiamo le provocazioni della vita, la sfida della morte, della fame, della guerra, dell’ingiustizia con lo stesso afflato di Gesù, allora noi stessi diventiamo un «avvenimento» che annuncia e parla del mistero della morte e della risurrezione. Anche a noi oggi Gesù insegna «molte cose»: è l’Eucaristia questa scuola e questo deserto, dove non siamo più pecore senza pastore, ma solo figli e figlie che si nutrono alla stessa mensa con la coscienza di essere nel mondo sacramenti viventi dell’unico Padre.


[1] Sull’etimologia cf Solennità di Pentecoste-Anno-B, nota 9.
[2] Il concetto è espresso fin dall’introduzione, a prova del fatto che esso fu ritenuto decisivo dai Padri conciliari: «Così la Chiesa universale si presenta come “un popolo adunato dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”» (LG 4b/288; in nota la stessa costituzione cita i Padri della Chiesa: S. Cipriano, De Orat. Dom. 23: PL 4,553; S. Agostino, Serm. 71,20,33: PL 38,463-464; S. Giovanni Damasceno, Adv. Iconocl. 12: PG 96,1358 D). Il penultimo schema di discussione nell’assemblea generale, rigettato di sana pianta quello della curia romana, aveva questo schema: 1. La Chiesa come mistero; 2. Costituzione gerarchica della Chiesa e sui vescovi; 3. Il popolo di Dio e i laici; 4. Chiamata alla santità di tutta la Chiesa (cf Storia del Concilio Vaticano II, a cura di Giuseppe Alberigo, vol. 3, Il Concilio adulto, settembre 1963 – settembre 1964, Peeters/Il Mulino, Bologna 1998, 63). Nel documento finale approvato i nn. 2 e 3 sono invertiti: 2. La Chiesa popolo di Dio e 3. La Chiesa gerarchica. La gerarchia nella Chiesa non è avulsa o al di fuori, ma è dentro il popolo di Dio che la contiene.
[3] Gli stessi organi collegiali «giuridici» prevedono per le diocesi e parrocchie il «Consiglio Per gli Affari Econonomici» (CPAE), di fatto un consiglio di amministrazione: tutti i membri sono nominati dal parroco o dal vescovo, ma sono solo «consultivi» (Codice Diritto Canonico, can. 536 §2; can. 537). Si suppone che trattandosi di materia specifica, l’economia, in cui si presume che il parroco e il vescovo non abbiano molta competenza, i laici dovrebbero avere riconosciuto almeno la loro professionalità, mentre invece sono mortificati «a norma del diritto», declassati a «consultivi».
[4] Per un approfondimento puntuale e documentato, cf P. Cappelli, Lo scisma silenzioso. Dalla casta clericale alla profezia della fede, Il Segno dei Gabrielli Editore, San Pietro in Cariano (VR) 2009; M. J. Castillo, La Chiesa e i diritti umani, Il Segno dei Gabrielli Editore, San Pietro in Cariano (VR) 2009; P. Prini, Lo scisma sommerso. Il messaggio cristiano, la società moderna e la Chiesa cattolica, Garzanti, Milano 2002.
[5] J. S. Bach ogni volta che iniziava a scrivere un nuovo  foglio di musica, lo intestava con questa lapidaria dedica: «Soli Deo Gloria – Unicamente per la Gloria di Dio ».
[6] L. Cerfeaux, «La Section des pains», in Rech. Cerfeaux I, Gembloux 1954, 472-485; J. Mateos – F. Camacho, Il Vangelo di Marco. Analisi linguistica e commento esegetico, vol. II, Cittadella Editrice 2002, 48-232.
[7] L’espressione «uscire –tornare» di Dt 27,17 è tipicamente ebraica: si indicano gli estremi di un’azione  per contenerla tutta, descrive cioè la cura totale, completa e radicale con cui il pastore deve governare.
[8] In Mt 1,21 è l’angelo ad imporre a Giuseppe (in Lc 1,31 a Maria) di mettere il nome «Gesù» al bambino che ancora deve nascere e ne spiega anche l’etimologia: «Maria tua sposa … darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati».
[9] Nel NT il verbo/sostantivo ricorre 26 volte, di cui 4 volte ciascuno nei Sinottici (Giovanni è assente), 1 volta in Atti e 13 volte negli altri scritti. Nell’AT «splànchna» e derivati compare 26 volte negli scritti recenti (secc. III-I a.C.) col significato di sacrifici alle divinità (a cui si offrivano le parti scelte degli animali) e avere misericordia.
[10] La causa della scristianizzazione oggi non è imputabile alla mancanza di preti (che sono ancora troppi) o come si suole dire alla mancanza di fede perché la gente è diventata «materialista». La causa sta nella improvvisazione che la maggior parte del personale apostolico nette in atto nel proprio ministero. Termini come professionalità, analisi, studio, preparazione sono esclusi dal vocabolario di molti, tanti preti che arrivano alla domenica impreparati e magari con tre quattro e oltre «Messe da dire», riducendosi a celebrare le «Messe della mutua», frettolose, rituali quanto basta, senza anima e senza serietà.  E’ segno di religiosità, non di fede. Si risponde al bisogno di «religione», senza il mino alito di «evangelizzazione», dando al residuo popolo di Dio l’illusione di avere adempiuto il «dovere» o di «avere messo a posto Dio e la coscienza» con Messe sparate a mitraglia e omelie improvvisate sul posto o leggiucchiate su qualche rivista o sito internet. Finché i preti non tornano a vivere il loro lavoro con criteri di «professionalità» e di «rispetto» della Parola, il declino della Chiesa è assicurato.

 

© Nota: L’uso di questi commenti è consentito citandone la fonte bibliografica
Domenica 16a del Tempo Ordinario – B
Paolo Farinella, prete – 19/07/2009 – San Torpete – Genova


Mercoledì 15 Luglio,2009 Ore: 14:15
 
 
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