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www.ildialogo.org Profezia e missione vanno di pari passo,a cura di don Paolo Farinella

XV Domenica per annum – B – 12 luglio 2009 –
Profezia e missione vanno di pari passo

a cura di don Paolo Farinella

* Domenica 15a per annum – B[1] 
– 12 luglio 2009 –
La liturgia prosegue nella lettura semicontinua del Vangelo di Marco che è il secondo nell’ordine dei vangeli tramandati dal canone (Mt, Mc, Lc e Gv), ma è il primo in ordine cronologico di composizione, allo stato dei fatti. Si parla di un precedente Mt aramaico, di cui non possediamo nulla e nulla sappiamo. Il vangelo di Mc è preso come modello da Mt e Lc per i loro rispettivi vangeli, conservandone la struttura del canovaccio che poi integrano secondo le loro personali prospettive e le altre fonti orali e forse scritte a loro disposizione: su circa 630 versetti, ben 600 si trovano in Mt e Lc. Per questo motivo si chiamano «sinottici» perché se messi in colonne parallele si possono leggere insieme «syn-opticòs [dalla radice op-] – con un colpo d’occhio/d’insieme».
Mc scrive per i cristiani catecumeni, che muovono i primi passi sulla via della conoscenza di Gesù; Lc scrive per i catecumeni diventati discepoli e quindi devono fare un percorso di approfondimento in conoscenza e sperimentazione, dopo il catecumenato fatto con Marco;  a sua volta, Mt scrive per i catechisti, cioè per i formatori, i maestri che educano i discepoli ad annunziare il vangelo. Accanto ai vangeli sinottici, si situa Gv che può essere considerato il vangelo del presbitero, colui che ormai contempla la Gloria rivelata nel volto di Gesù di Nàzaret. Gv è la storia che diventa pura teologia, anzi «alta teologia» che attraverso «i segni» svela la personalità profonda di Gesù: il Figlio unigenito che rivela il volto del Padre (cf Gv 1,18).
La prima lettura di questa 15a domenica per annum-B ci propone la vocazione del profeta Amos, vissuto nel sec. VIII e contemporaneo di Osea e Isaia. Egli è di Tekòa, sobborgo a 10 km a sud di Betlemme, dove svolgeva un umile lavoro: raccoglitore e tagliatore di sicomori (una specie di more di poco prezzo che maturano se incise). Il profeta abbandona il suo lavoro, emigra dal sud al nord e s’insedia nel cuore stesso del regno di Geroboàmo II (786-746; cf Am 1,1) che aveva portato il regno del nord, Israele, ad un nuovo sviluppo economico. La corte del re pullula di «veggenti» a libro paga che predicono tutto quello che loro pensano che il re voglia sapere. Sono gli adulatori fissi di ogni sistema di potere, coloro che si vendono o si offrono gratis pur di appartenere alla casta dei potenti o più modestamente di avere accesso alla corte, anche dalla porta di servizio. Questa tragedia è sviluppata anche nella Chiesa, che dovrebbe essere il Regno del servizio per amore e reso gratuitamente: quando non si crede in Dio o lo si trasforma in un idolo, si persegue la carriera, si aspira a cariche di prestigio, si mettono in moto macchinazioni e dipendenze pur di fare valere «le proprie qualità» che naturalmente vengono sempre messe a disposizione «per spirito di obbedienza e di sacrificio». Quando qualcuno pronuncia queste parole, è segno che ha speso la vita per comprarsi la carica, il titolo, l’ufficio. Non sarà mai un ministro libero e fedele.
I «veggenti» che predicono un futuro glorioso, oroscopi antesignani, si vendono per poco pur di avere il pane assicurato; come sempre accade: «tengono famiglia». Tra questi c’è Amasìa (Am 7,12), che è riuscito a diventare il capo dei veggenti. Mentre tutti predicono felicità, prosperità e benessere p e il re, al sua corte e il popolo, all’improvviso spunta un profeta giudeo del sud che viene ad annunciare una catastrofe imminente: non ingannatevi, il tempo dei gaudenti sta per finire. Il profeta non è un veggente di corte, ma uno che rischia la sua vita per portare un messaggio impellente che non è suo, ma che deve consegnare come lo ha ricevuto. Amos non si sognava di diventare profeta, ma quando la forza della Parola lo afferra e lo strappa alla sua vita ordinaria, egli non esita a cambiare vita, stile, patria e a mettersi in cammino per una mèta che non conosce, ma verso la quale lo guida la Parola che lo ha afferrato. Come Abramo, si mette al seguito della Parola di cui diventa discepolo e responsabile: il profeta è il nuovo Abramo che parte alla volta di un futuro che appartiene al cuore di Dio (cf Gen 12,1-4). Per questo non può compiacere il potente e le autorità, non può contrabbandare la sua coscienza perché egli ha regalato al sua libertà a Colui che lo ha chiamato, scegliendo di diventare schiavo del messaggio che deve portare. Il profeta è un tutt’uno con Parola che lo porta.
Il profeta è «strabico» per vocazione: egli non vive per sé, ma è lacerato tra due esigenze uguali e contrarie: egli ha un occhio a Dio da cui dipende per la vita e la morte e deve avere un occhio verso il suo popolo di cui è scudo e speranza. Senza la sua parola il popolo è cieco; senza il suo popolo il profeta è muto; senza il profeta Dio è assente, ma senza Dio il profeta è un disastro perché annuncia solo se stesso o la ditta da cui dipende.  Quale lezione per il personale apostolico della Chiesa! Chi lavora per affermarsi in vista della carriera fino a diventare così prudente da non esporsi mai, immergendosi nel «silenzio del tacere» somiglia al veggente cortigiano Amasìa, non al profeta Amos che abbandona ogni sicurezza per andare incontro al suo ministero.
Chi è così succube dell’autorità fino a deformare la verità in base al principio che al superiore bisogna riferire quello che lui vuole sapere, somiglia ad Amasìa e non al profeta che non è portatore di interessi, annunciatore di libertà. Chi spegne l’anelito profetico che lo Spirito ha seminato nel suo cuore per non avere grane con l’autorità, in nome della prudenza o dell’opportunità, è solo un trafficante nel cortile del tempio e non sarà mai un celebrante del mistero di Dio e della Gloria della Parola. Chi antepone il suo tornaconto e si serve del suo ministero per esporre se stesso all’ammirazione e alla lode del mondo, ha già avuto la sua ricompensa perché anche pagani agiscono allo stesso modo (cf Mt 6,2.5.16). Purtroppo oggi la struttura della Chiesa cerca e alimenta sovente i veggenti che sono funzionari della mediocrità e in quanto tali funzionali al potere che alimenta solo se stesso. Se il profeta Amos vivesse ai nostri giorni, sarebbe considerato un sovversivo, un inaffidabile, un non allineato e quindi un antagonista del potere da mettere a tacere: sarebbe un catto-comunista o un «profeta rosso». E’ la storia triviale dentro la quale spesso annegano anche gli uomini di Chiesa che credono solo in se stessi e nel loro potere che esercitano in nome di Dio come se Dio fosse loro proprietà esclusiva. Questa è la vera piaga della Chiesa di oggi che alimenta personale immaturo, non adulto e spesso disposto a mettersi in vendita
Nel Vangelo invece ci troviamo di fronte ad un metodo particolare: i discepoli non hanno ancora capito l’anelito universale della missione di Gesù e sono chiusi nella visione di una religione angusta e ristretta: pensano che Dio sia solo «giudeo» e che quindi debba ragionare come loro e in favore di loro, abbandonando gli altri al loro destino. Gesù decide di inviarli in missione «come sono»: con la loro chiusura e i loro limiti. Non li cambia con una predica, ma li immerge nell’esperienza. Non capiscono che nel mondo non esistono solo i Giudei e che il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe è anche il Dio di Adamo, cioè del genere umano? Niente paura! Non c’è che un metodo: mandarli a conoscere il mondo «dall’interno», andando per le sue strade, incontrando i diversi, i non giudei, la parte migliore di sé. Li vuole mettere a confronto diretto con la vita: quello che lui non è stato in grado di fare capire, lo capiranno camminando con gli uomini e le donne che incontreranno. E’ il principio della formazione in itinere.
Gesù non ha paura dell’esito, se resteranno scioccati o schiacciati, non si preoccupa di proteggerli da se stessi o dal condizionamento della loro religione angusta, perché sa che senza il popolo in carne ed ossa non può esserci formazione alcuna per chi è chiamato ad esercitare l’autorità: è il popolo di Dio il vero maestro che insegna ai pastori il metodo della pastorale[2]. I discepoli infatti ritorneranno trasformati (Mc 6,30) ed entusiasti e ancora volta Gesù deve prendersi cura di loro perché non si montino la testa di effimero e di vanagloria (Mc. 6, 31: vangelo di domenica prossima 16a tempo ord.-B).
Quando l’autorità accetterà di farsi educare anche dal suo popolo, quel giorno sarà un grande giorno per la Chiesa e per la missione. Quel giorno avremo un’autorità autorevole, ma non autoritaria, umile e fiera, orante e in ascolto. Un profeta, Amos, va’ perché «afferrato» dalla Parola (cf Fil 3,12), i discepoli vanno perché mandati a scoprire il senso della universalità del Regno e ritornano contaminati da quell’umanità che hanno sperimentata oltre i confini del loro particolarismo. Nei due casi vi sono resistenze e opposizioni: gli opportunisti di regime come Amasìa e i tranquilli di professione che non accettano di essere messi e di mettersi in discussione: rifiutano Dio e non accolgono la Pace che in suo Nome gli inviati portano. Per gli uni e per gli altri non resta che la polvere dei calzari, muta e silente testimone di un mondo che cambia, ma che Dio ama perché non è ancora stanco dell’umanità: gli uomini possono tradire, Dio non può venire meno alla fedeltà a se stesso e alla sua promessa. La condanna di Dio è salvare il mondo. Immergiamoci nello Spirito Santo che ci introduce nelle profondità di Dio (cf 1Cor 2,10), facendo nostre le parole del salmista (Sal 17/16,15): «Ma io nella giustizia contemplerò il tuo volto, al risveglio mi sazierò della tua immagine».
 
Testi biblici
Prima lettura Am 7,12-15. Amos vive nel sec. VIII a.C. La terra d’Israele è divisa in due regni: dieci tribù formano il regno del Nord con capitale Samarìa e un santuario a Betel[3] in concorrenza con il tempio ufficiale di Gerusalemme e due tribù formano il regno del sud o di Giuda con capitale Gerusalemme. Il profeta è un contadino del Sud  di Gerusalemme che emigra a Betel, dove annuncia la fine imminente del regno di Geroboamo. In questo periodo vi sono profeti di Dio come Amos e veggenti di corte mantenuti dal re. Il capo dei veggenti scaccia Amos perché profetizza contro il re. Amos però non si lascia intimorire perché egli non veggente di professione (v. 14), ma un «afferrato» dalla forza della Parola che lo ha strappato al suo lavoro per inviarlo in nome di Dio. Il profeta è libero di portare la Parola di Dio perché non è schiavo del re terreno e perché vive la sua vocazione come fonte e sorgente di libertà religiosa e politica.
 
Dal libro del profeta Amos Am 7,12-15
In quei giorni, 12 Amasìa, sacerdote di Betel, disse ad Amos: «Vattene, veggente, ritìrati nella terra di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, 13 ma a Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno». 14 Amos rispose ad Amasìa e disse: «Non ero profeta né figlio di profeta; ero un mandriano e coltivavo piante di sicomòro. 15 Il Signore mi prese, mi chiamò mentre seguivo il gregge. Il Signore mi disse: Va’, profetizza al mio popolo Israele». - Parola di Dio.
 
Salmo responsoriale 85/84, 9abc-10; 11-12; 13-14. Il salmo è una lamentazione pubblica ispirata alla predicazione dei profeti. Si divide in due parti. La prima (assente dalla liturgia di oggi) comprende i vv. 1-8 che individuano nei peccati di Israele il motivo dell’esilio e della distruzione del primo Tempio. La seconda parte, che preghiamo adesso, prospetta un futuro rigoglioso e promette pace e prosperità agli esiliati liberati. Tre termini sono importanti la Giustizia, la Pace e la Verità, tre colonne su cui si regge il mondo. Le iniziali di queste tre parole in ebraico (zèdeq, shalòm, èmet) formano la parola «dèshe/vegetazione»: quando nel mondo sorgono giustizia, pace e verità tutta la terra germoglia come l’erba verdeggiante. Per forma e contenuto è uno dei salmi più belli di tutto il salterio.
 
Rit. Mostraci, Signore, la tua misericordia.

1. 9 Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore:
egli annuncia la pace
per il suo popolo, per i suoi fedeli.
10 Sì, la sua salvezza è vicina a chi lo teme,
perché la sua gloria abiti la nostra terra. Rit.
12 Verità germoglierà dalla terra
e giustizia si affaccerà dal cielo. Rit.
3. 13 Certo, il Signore donerà il suo bene
e la nostra terra darà il suo frutto;
14 giustizia camminerà davanti a lui:
2. 11 Amore e verità s’incontreranno,
giustizia e pace si baceranno.
i suoi passi tracceranno il cammino. Rit.

 
Seconda lettura Ef 1,3-14 (lett. breve 1,3-10). La lettera agli Efesini è stata scritta probabilmente tra il 61 e il 63  durante la prima prigionia. Paolo ha già scritto le grandi lettere (Romani, Corinzi e Galati). Ora Paolo fa il punto della situazione, alla luce anche della polemica con il giudaismo e il sincretismo religioso diffuso specialmente tra le comunità di Colosse e Efeso. La lettera si apre con benedizione a Dio che la liturgia riporta per intero, modulata alla maniera della benedizione giudaica, ma dove il Giudeo ringrazia Dio per il dono della Toràh, Paolo ringrazia per il dono del Figlio[4].
 
Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesini Ef 1,3-14 (lett. breve 1,3-10)
Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato. In lui, mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe, secondo la ricchezza della sua grazia. Egli l’ha riversata in abbondanza su di noi con ogni sapienza e intelligenza, facendoci conoscere il mistero della sua volontà, secondo la benevolenza che in lui si era proposto 10 per il governo della pienezza dei tempi: ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra. 11 In lui siamo stati fatti anche eredi, essendo stati predestinati secondo il piano di colui che tutto opera efficacemente conforme alla sua volontà, 12 perché noi fossimo a lode della sua gloria, noi, che per primi abbiamo sperato in Cristo. 13 In lui anche voi, dopo aver ascoltato la parola della verità, il Vangelo della vostra salvezza, e avere in esso creduto, avete ricevuto il suggello dello Spirito santo che era stato promesso, 14 il quale è caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato, a lode della sua gloria. - Parola di Dio.
 
Vangelo Mc 6,7-13. Gesù è reduce da un doppio insuccesso: l’incomprensione dei suoi discepoli (racconto dell’emorroissa in 5,30-31: cf dom. 13a x annum-B) e dell’ambiente del suo paese (reazioni dei Nazeretani in 6, 1-3: cf dom. 14a x annum-B) e nel suo cuore è ancora viva la notizia della morte violenta di Giovanni Battista (6,21-30). Egli decide di inviare i discepoli ad imparare dalla vita e dal contatto diretto con le persone e i loro bisogni che cosa significhi credere nel Dio dell’«universalità». Nell’inviarli nel mondo, prescrive i criteri della loro vita di «viandanti»: il bagaglio materiale e l’atteggiamento interiore con chi li accoglie o li rifiuta. Questi criteri non sono quelli dell’efficienza e della potenza esteriore, ma esprimono il primato della coscienza e dell’incontro personale. Anche nella scelta dei mezzi apostolici, il discepolo deve dare testimonianza di essere nel mondo, ma non del mondo (Gv 8,23; 17,11.14).
 
 
Dal Vangelo secondo Marco Mc 6,7-13.
In quel tempo, 7 Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. 8 ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche. 10 E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. 11 Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro». 12 Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, 13 scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano. - Parola del Signore
 
 
 
Spunti di omelia
Domenica scorsa avevamo sintetizzato tutta la liturgia con la categoria della «sazietà» che è un ostacolo non solo all’intelligenza di prendere coscienza degli eventi, ma anche alla missione e quindi alla relazione con gli altri. La sazietà paralizza, appesantisce, assopisce e rende vulnerabili. Non è un caso che l’invito costante del Vangelo è la vigilanza: «Siate sobri, vegliate» (1Pt 5,8; cf Mt 24,42; 25,13; 1Cor 16,13; Eb12,15). Non basta essere vigilanti per non cadere nelle trappole della sazietà, ma bisogna anche essere «distaccati» perché il viaggio del vangelo non sia appesantito da bagagli superflui. Due cose sono necessarie: essere inviati da qualcuno e avere l’autorità sugli spiriti impuri (Mc 6,7)[5]. Per svolgere questo compito l’equipaggiamento è descritto nei minimi particolari perché il missionario non abbia la scusa di avere frainteso. Gesù dice cosa si può portare: un bastone, i sandali e una tunica; e cosa non si può portare: pane, bisaccia, denaro e tunica di riserva (Mc 6,8-9).
Il testo dice che Gesù «ordinò loro» (Mc 6,8). Il greco usa il verbo paranghèllō che significa ordino/prescrivo/avverto/ammonisco/do in consegna e qui è l’unica volta in Mc riferito agli apostoli (in Mc 8,6 è riferito alla folla). Nei Sinottici il verbo ha sempre Gesù come soggetto (Mt 14,19; Lc 5,14; 9,21, ecc.), segno che potremmo anche considerarlo come un verbo «riservato» ed esclusivo. Non è solo un ordine, ma una consegna che vale per sempre, un ammonimento a non smarrirlo per strada. In una parola è un comandamento[6].
L’equipaggiamento del missionario non è casuale perché l’essenzialità riguarda il viaggio, il camminare (bastone, sandali e tunica): chiunque vede il missionario deve immediatamente capire che egli non persegue interessi materiali e nemmeno di sopravvivenza. Chi vede l’uomo di Dio, deve vedere subito la Parola che tracima dalla sua vita che deve riflettere il volto umano di Dio, volto di tenerezza. Egli è solo uno che cammina e da questo punto di vista credere è avere le gambe per camminare, libero da qualsiasi necessità, fossero anche le necessità primarie come mangiare e dormire che devono essere parte dell’accoglienza perché «l’operaio è degno del suo salario» (1Tm 5,8). In sostanza il missionario non deve preoccuparsi né perdere tempo: il Dio che nutre gli uccelli dell’aria e veste i gigli del campo, si prenderà cura dei «servi della parola»: «non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete … guardate gli uccelli del cielo … osservate i gigli del campo» (Mt 6,25-34, qui 25.26.28).
Un altro elemento fondamentale della missione è l’assoluta mancanza d’imposizione: bisogna fare la proposta, ma senza imposizione, lasciando la libertà di dire anche di «no». E’ il metodo di Gesù e deve essere il metodo della evangelizzazione in un contesto multi-culturale e pluri-religioso. Il concilio ha definitivamente seppellito la teologia e i documenti pontifici precedenti che rispecchiavano la «Chiesa-Christiànitas», alleata al potere di turno, in modo particolari gli insegnamenti aberranti di Gregorio XVI, Pio IX, Leone XIII, Pio X che ritenevano la libertà di coscienza un errore «funesto»[7]
Accostiamoci al testo e con l’aiuto dello Spirito cerchiamo di coglierne la profondità per quanto ne siamo capaci. Il discorso della missione che Gesù affida ai suoi discepoli è riportato dai Sinottici in due versione: la forma breve (vangelo di Mc, liturgia di oggi) e la forma lunga (vangeli di Mt e Lc). Mt vi dedica il capitolo 10 e ne fa un «discorso» pilastro del suo vangelo, insieme ad altri quattro grandi discorsi per un totale di «cinque discorsi» di cui si compone il suo Vangelo, quasi una Toràh della nuova alleanza in corrispondenza con quella di Mosè, composta da «cinque libri». Lc (9,3-5), da parte sua, conserva la forma breve di Mc, a cui s’ispira ma riporta anche una seconda versione più lunga (10,1-12.17-20), segno che orami nell’ultimo quarto del secolo I d.C. si era perso il contesto storico del discorso stesso. Mc conserva solo la forma breve riportata nel vangelo di oggi e che forse corrisponde alla forma originaria, più vicina alla realtà. Tutto è segno dell’esistenza di diverse tradizioni che gli evangelisti non sono riusciti o non hanno voluto armonizzare meglio.
Gesù è reduce da un duplice insuccesso: i suoi discepoli non capiscono la portata messianica della sua missione (rimprovero a Gesù a proposito del mantello della emorroissa: domenica 14a-B ) e Israele non lo accoglie (reazioni nella sinagoga di Nàzaret: domenica 13a-B ). Sia gli uni che gli altri lo vogliono rinchiudere negli ambiti ristretti e angusti del particolarismo della loro visione della storia: i discepoli schiacciati nelle proprie convinzioni religiose e i Nazaretani alla loro gelosia frutto dei loro pregiudizi. La chiusura e il pregiudizio sono la prigione della vita. Gesù decide per una scelta radicale e manda i suoi discepoli allo sbaraglio, nel cuore della vita, là dove si vivono le vere relazioni umane: l’incontro con le persone e i loro bisogni aprirà loro la mente e il cuore oppure li seppellirà. Bisogna rischiare e Gesù rischia, mandando gli apostoli da soli, equipaggiandoli con istruzioni sul comportamento che devono avere con chi li accoglie e con chi non li accoglie. Infine l’evangelista nei vv. 12-13 riporta un sommario dell’attività dei discepoli.
Alcune osservazioni interpretative: i discepoli sono inviati «a due a due» (Mc 6,7) che è un rimando alla loro chiamata iniziale che avvenne in coppia (Mc1,16-21); il mandato non comporta la predicazione, che invece era compresa nella scelta dei dodici (Mc 3,14), ma solo il dominio sugli spiriti impuri (Mc 6,7) e la verifica dell’ospitalità (Mc 6,10-11) che diventa una discriminante anche geografica: al v. 10 l’accoglienza avviene in una «casa», cioè in uno spazio di relazioni familiari e affettive, mentre al v. 11 il rifiuto trasforma «la casa di relazioni» in un «luogo», qualcosa di anonimo e senza vita e di cui non si deve conservare traccia, come si fa quando si ritorna da un territorio pagano: scuotendo la polvere dai sandali per non portare l’impurità dentro la casa. Il rifiuto dell’accoglienza dello straniero che porta una Parola nuova, trasforma in pagani, cioè in essere ostili.
I discepoli, ubriacati dal loro nuovo stato e dal loro entusiasmo acritico, vanno oltre il mandato ricevuto e non si attengono alla consegna del Maestro che circoscriveva il loro mandato alla testimonianza attraverso lo stile di vita povero e il potere sugli spiriti. Essi da veri Giudei in cerca di «proselitismo»[8]Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì» (Mc 6,10). Il vangelo prima di essere una «dottrina» è l’incontro vero tra persone che condividono la vita.  I discepoli scacciano gli spiriti impuri e guariscono i «prostràti» (Mc 6,13; cf 6,5), cioè gli abbattuti, quelli che non vedono speranza davanti a loro e vivono la vita come un peso insopportabile: la guarigione dei malati (gr. kakôs èchontas – [alla lettera] che erano male in arnese) è una prerogativa di Gesù (Mc 1,34). Essi hanno bisogno di porre gesti sensibili come  ungere con olio, a differenza di Gesù che impone la mano  e guarisce a distanza (Mc 6,5). Infine non fanno l’esperienza del rifiuto di cui Gesù parla al v. 11. invece predicano la conversione come Giovanni il Battista (Mc 1,5) e cercano di imitare Gesù che l’aveva posta come condizione  previa per ricevere il Vangelo e predisporsi ad accogliere il Regno (Mc 11,15), quindi un passo successivo. Il primo atto della «pastorale» è l’incontro, la conoscenza sperimentale delle persone: «
Concludendo questa breve panoramica sul brano evangelico di oggi, traiamo una conclusione per noi, evidenziando tre momenti/atteggiamenti. Il primo: Gesù si preoccupa di fare uscire i suoi discepoli dalle «sicurezze ingannevoli»[9] in cui erano prigionieri, perché in quanto Ebrei essi ritenevano insignificante il valore morale e religioso del mondo non-ebraico che era rifiutato e disprezzato da Dio. Mandandoli in mezzo al mondo non-giudaico Gesù dichiara finita e innaturale la separazione tra sacro e profano perché tutto è nel segno della benevolenza di Dio: nulla è estraneo a lui e non c’è più un recinto o un confine che determina ciò che è sacro e ciò che non lo è.  Più che di fronte ad uno schema di missione ci troviamo davanti ad un metodo di cambiamento di mentalità del personale apostolico.
Il secondo momento/atteggiamento è questo: il missionario non deve programmare la sua accoglienza, ma deve affidarsi alla disponibilità degli uomini di cui deve fidarsi. La sua stessa sopravvivenza come il mangiare, dipende dall’ospitalità che deve essere gratuita perché nessuno può comprare o vendere Dio e tanto meno il cuore delle persone. Giuseppe Flavio (Guerre Giudaiche, II, 125) testimonia che gli Ebrei in ogni città avevano un incaricato responsabile di accogliere i pellegrini e offrire loro cibo e vestito. Ogni diocesi dovrebbe avere un centro di accoglienza per gli immigrati cristiani, almeno in prima battuta, i quali dovrebbero sentirsi accolti nella propria casa e non essere sbandati allo sbaraglio, stranieri nella loro stessa Chiesa. Siamo diventati custodi della illegalità dello Stato pagano a danno delle moralità richiesta dal Vangelo.
Il terzo momento/atteggiamento è la scuotimento della polvere dai calzari che non è giudizio morale, ma un’affermazione di responsabilità. Il gesto è un atto simbolico che ogni ebreo compie dopo un viaggio in terre abitate da non giudei. La terra forma un tutt’uno con le persone e il loro atteggiamento morale e religioso (cf Nm 5,17): separarsi dagli impuri significa distaccarsi anche dalla loro terra. Con questo gesto l’inviato mette coloro che li rifiutano di fronte alla loro responsabilità che resta intera anche nelle conseguenze. Dio non impone nemmeno se stesso, ma si offre alla libera ospitalità perché senza libertà non può esserci né umanità né fede. Quando riusciremo a scuotere la polvere della nostra incredulità, allora potremmo pensare di potere iniziare il lungo cammino del catecumenato che ci condurrà, a Dio piacendo, prima a diventare discepoli, quindi catechisti-testimoni e infine contemplativi della volontà di Dio, una volontà senza confini e senza condizioni, universale e aperta: «cattolica» nel vero senso della parola.


[1] I testi liturgici sono tratti dal nuovo lezionario, entrato in vigore con la 1a domenica di Avvento-A (2007).
[2] Nella Chiesa cattolica, non di rado accade che si nominino vescovi «uomini di apparato» come un tempo i partiti sceglievano come parlamentari solo chi proveniva dai partiti e li garantiva. I «vescovi di cordata» sono una iattura per la Chiesa perché non conoscono il popolo di Dio e le sue fatiche, ma solo gli ambienti edulcorati che li hanno generati, al di fuori della realtà e della vita. Quando piombano in mezzo al popolo se ne sentono i padroni e da padroni si comportano: eterei e astratti, dove passano non lasciano segni di vita perché indotti naturalmente a pensare che la Chiesa sono loro.
[3]  Betèl (= Casa di Dio: Bet-casa/tempio e El-Dio) attuale Beitìn, km 3 a NE di Ramàllah. Secondo Gen 12,8 (tradizione yahvista) Abramo edificò l’altare in un luogo tra Betèl e Ai (identificazione: Burj el-Beitìn); però la parte maggiore è attribuita a Giacobbe (Gen 28,10-22: tradizione jahvista ed elohista). Giacobbe si ferma al maqôm (= luogo)! Vede in sogno la scala (= ziqquràt), erige la massebàh (= stele di pietra, in genere due: massebòt), la unge con olio, fa voto di pagare la decima, vi ripassa in Gen 35,1-9.14-15 al ritorno dalla Mesopotamia. A Betèl vi era un santuario patriarcale ove si andava in pellegrinaggio, si ungeva una stele e si pagava la decima (pellegrinaggio in 1Sam 10,3; decima in Am 4,4). Per Gdc 20,18.26-28; 21,2 Israele si riuniva a Betèl «davanti a Yhwh», offriva sacrifici e consultava Dio. Per un certo tempo vi dimorò l’Arca. In seguito la fortuna di Betèl-santuario fu promossa da Geroboamo I. Importante notare per Betèl: El (= dio) era il capo del pantheon cananeo (cfr il dio «Betèl» in Ger 48,13); ma Giacobbe ha inteso El come il suo Dio che gli si era manifestato. Anche a Betèl il culto di Yhwh ha sostituito quello di una divinità dei Cananei (cf Virginio Ravanelli ofm, I santuari dell’Antico Testamento. Conferenza per animatori di pellegrinaggio presso il Patriarcato Latino di Gerusalemme il 28 dicembre 2004, pro manuscripto, ad uso privato).
[4] Per approfondire i quattro inni maggiori di Paolo (Fil 2,6-11; Col 1,15-20; Ef 1,3-14; 2,14-18) in una visione d’insieme, esegeticamente aggiornata, cf A. M. Buscemi, Gli inni di Paolo. Una sinfonia a Cristo Signore, (SBF Analecta 48), Franciscan Printing Press, Jerusalem 2000.
[5] «Spiriti impuri» non ha alcun riferimento al sesso. Essi sono le condizioni che rendono inabili al rapporto con Dio perché si è chiusi nel proprio egoismo che impedisce di vedere gli orizzonti di Dio. Essi sono l’attuazione di strategie per mettere il nostro individualismo al centro dell’universo e considerarci «onnipotenti». E’ dominato dagli spiriti impuri chi si crede indispensabile, chi sa fare tutto da solo, chi ha sempre ragione, chi cerca solo il suo interesse, spesso e volentieri a scapito di quello degli altri; è «impuro» chi considera Dio uno strumento da manipolare e usa la religione per manipolare la volontà degli altri. All’inizio del terzo millennio l’impurità pere eccellenza è l’uso ipocrita della Chiesa per avere favori o per ricevere consenso, che arriva a formulare un connubio che trasforma la fede in Gesù Cristo in una anonima «religione civile», basata «sui valori» che invece sono pura merce di scambio. L’impurità è la falsità scambiata per la verità.
[6] Quando si vedono ecclesiastici bardati con vesti e trapunte carnevalesche, con colori diversi per differenziare «gradi» e carriere viene spontaneo domandarsi se siamo ancora nei confini del vangelo o se siamo in partibus infidelium. Una Chiesa che distribuisce titoli e onori come qualsiasi società mondana, atea e malata di appariscenza può essere credibile nell’annunciare il vangelo della sobrietà, del bastone e dei sandali? Non è moralismo a buon mercato, ma questione di coerenza nella verità: O il vangelo è un proclama di alleanza con le sue esigenze di austerità o è scritto con parole segnate sulla sabbia che il vento disperde e la coscienza non riesce a raccogliere.
[7] «E’ un errore affermare che ogni uomo è libero di abbracciare e di professare la religione che egli riterrà essere vera ai lumi della ragione» (Pio IX, Sillabo,1864). «I Cattolici non possono sostenere questa opinione erronea, funesta per la salvezza delle anime: la libertà di coscienza e di culto è un diritto proprio di ogni uomo. Questo diritto deve essere proclamato e garantito dalla legge in ogni società ben organizzata. I cittadini hanno il diritto alla piena libertà di manifestare ad alta voce e pubblicamente le proprie opinioni qualunque esse siano , con la parola, la stampa o qualunque altro mezzo senza che l'autorità civile o ecclesiastica possa imporre un limite» (Pio IX, Quanta Cura,1864). Il ribaltamento delle posizioni avviene con il Concilio Vaticano II che non può considerarsi come insegnamento in continuità con Pio IX, ma costituisce una rottura formale del pensiero pontificio e magisteriale precedente: «Questo Concilio Vaticano dichiara che la persona umana ha il diritto alla libertà religiosa. Il contenuto di una tale libertà è che gli esseri umani devono essere immuni dalla coercizione da parte dei singoli individui, di gruppi sociali e di qualsivoglia potere umano, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità ad essa: privatamente o pubblicamente, in forma individuale o associata. Inoltre dichiara che il diritto alla libertà religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana quale l’hanno fatta conoscere la parola di Dio rivelata e la stessa ragione [… nota …]. Questo diritto della persona umana alla libertà religiosa deve essere riconosciuto e sancito come diritto civile nell’ordinamento giuridico della società … gli esseri umani non sono in grado di soddisfare [all’obbligo di ricercare le verità], in modo rispondente alla loro natura, se non godono della libertà psicologica e nello stesso tempo dell’immunità dalla coercizione esterna. Il diritto alla libertà religiosa non si fonda quindi su una disposizione soggettiva della persona, ma sulla sua stessa natura. Per cui il diritto ad una tale immunità perdura anche in coloro che non soddisfano l'obbligo di cercare la verità e di aderire ad essa, e il suo esercizio, qualora sia rispettato l'ordine pubblico informato a giustizia, non può essere impedito» (Concilio Vaticano II, Dichiar. Dignitatis Humanae, 2). Tra Pio IX (+ Leone XIII e Pio X) non sappiamo come e dove si possa vedere la continuità dottrinale; a noi pare che la discontinuità, anzi l’opposizione, sia totale: due visioni radicalmente diverse.
[8] «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo prosèlito, e quando lo è divenuto, lo rendete figlio della Geenna due volte più di voi» (Mt 23,15)
[9] E. Mounier, «L’agonie du christianisme?», in Oeuvres, voll. 3, Seuil, Paris 1961-1963, 529-713, qui vol. 3, 531 (Traduz. it.: Cristianità nella Storia, Edizioni Ecumenica, Bari 1979, 15).

 

Nota: L’uso di questi commenti è consentito citandone la fonte bibliografica
Paolo Farinella, prete – 12/07/2009 – San Torpete – Genova 


Venerd́ 10 Luglio,2009 Ore: 16:04
 
 
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