- Scrivi commento -- Leggi commenti ce ne sono (1)
Visite totali: (535) - Visite oggi : (2)
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori Sostienici!
ISSN 2420-997X

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito

www.ildialogo.org Sazietà,a cura di don Paolo Farinella, prete

Domenica 14a per annum – B – 05 luglio 2009 –
Sazietà

a cura di don Paolo Farinella, prete

Domenica 14a per annum – B
– 05 luglio 2009 –
Per riassumere in una sola parola gli atteggiamenti che descrive la liturgia di oggi, domenica 14a per annum – B, non esitiamo a scegliere il termine «sazietà». Sono sazi gli Ebrei a cui si rivolge il profeta Ezechiele, sazi di benessere e di comodità, di ricchezze e di prosperità, di autonomia e anche sazi di Dio. L’esperienza insegna che si può essere bulimici di Dio ed essere senza Dio. I famelici di Dio e i difensori dei «diritti di Dio», coloro che fingono di dare la vita per la trascendenza di Dio, negando di fatto la pienezza della sua umanità, finiscono per trattarlo come un vecchietto abbandonato in un ospizio perché impedisce le agognate vacanze. Gli Ebrei sono così sazi che solo l’esilio e la conseguente schiavitù riuscirà a ridargli la coscienza della loro abbondanza di religione e nel contempo della loro povertà di fede. Gli Ebrei del VI sec. a. C. sono talmente sicuri di sé da fare della durezza di cuore lo stile della loro vita e del loro futuro. Vivono la Toràh come garanzia di privilegio e non come impegno di responsabilità. Della Legge della libertà hanno preso la durezza impenetrabile della pietra. Per loro Dio è un ornamento da mostrare nei giorni di festa, un feticcio da usare come scusa per giustificare l’immoralità dei loro traffici e della loro ingiustizia che arriva a calpestare i poveri e a sentirsi al tempo stesso buoni credenti o meglio praticanti interessati. Nei giorni feriali rinchiudono Dio nella prigione della sua divinità, dichiarata estranea alla vita feriale di tutti i giorni e nei giorni di festa cantano a squarciagola «Alleluia!» e pagano il pedaggio del loro ateismo religioso. Si può essere atei per troppa religione.
San Paolo porta in sé conficcata «una spina nella carne» che non è una malattia, ma l’ostilità dei suoi stessi fratelli nella fede che non lo riconoscono come apostolo, perché non proviene dalla loro cerchia e diffidano del suo pensiero che non coincide con il loro. Essi lo boicottano dovunque egli vada, denigrandolo davanti alle comunità da lui stesso fondate e inviando spie: «falsi fratelli intrusi» (2Cor 11,26; Gal 2,4) I Giudei convertiti al cristianesimo vogliono che il messaggio di Gesù resti sottomesso alle prescrizioni moisaiche, annullando così la novità dirompente della morte e risurrezione del Figlio di Dio. I «crociati» di questa compagna antipaolina provengono dalla Chiesa di Gerusalemme, dal gruppo di Giacomo, «fratello del Signore» (Gal 1,19) che contestano le aperture di Paolo ai pagani. Per loro non si può diventare cristiani senza «prima» farsi giudei attraverso la circoncisione: sono i sazi del «si è sempre fatto così», bloccando la crescita e il futuro. Dio è il passato.
I «milites Christi» e i legionari di Cristo o di Maria di ogni tempo[1] e di ogni religione-regime sono così sazi e zelanti della religione che la trasformano in «ideologia» aberrante arrivando a giustificare in nome di Dio anche i delitti più feroci e le azioni più immorali (la guerra, l’inquisizione, la tortura, la lapidazione della donna adultera, ecc). Essi di solito hanno una concezione della vita e dei fatti che accadono e la identificano semplicemente con «la volontà di Dio». Il giorno in cui scopriranno che il dio in cui si sono illusi di credere era soltanto il fantoccio della loro perversa fantasia, diranno che «è Dio a sbagliare, non loro».
E’ una costante nella storia delle religioni, come anche il dramma di ogni conservatorismo che presume di essere superiore a qualsiasi forma di rinnovamento, dichiarato estraneo anche da Dio perché incompatibile con le loro tradizioni umane e le loro incongruenze affettive. Immaturi umanamente si attaccano alla «loro» tradizione che senza pudore identificano col volere di Dio finché coincide con il loro, arrivando spesso ad uccidere le persone e ad annullare la Parola stessa di Dio in nome delle loro manie che chiamano «tradizioni» e che loro stessi si sono tramandate, come fondamento di sicurezza per la loro instabilità teologica ed affettiva. Gesù stesso accusa i farisei e gli scribi del suo tempo e di tutti i tempi e di ogni religione di anteporre i loro piccoli orizzonti alla Maestà della Parola di Dio (cf Mc 7,9.13).
Essi sono credenti finché sono convinti che Dio pensa come loro, ma quando la stessa Chiesa prende strade differenti non esitano ad accusarla di «eresia» e ad agire per proprio conto. I tradizionalisti caparbi, infatti, sono persone irrisolte affettivamente, inastabili psicologicamente e gelose della libertà degli altri: non esitano a dare la scomunica a chi pensa in modo differente da loro. Sono così sazi di sé e della loro prosopopea che non credono in nulla, ma si consumano nell’idolatria delle loro tradizioni come contenitore delle fragilità e povertà che nascondono dietro un formalismo che è un muro d’incenso e di ritualità. Atei in veste religiosa.
Nel vangelo ci troviamo di fronte ad una nuova sazietà: quella dell’ambiente circostante che vive di chiacchiericcio e di mentalità paesane che non cambiano nemmeno di fronte ai «segni» compiuti da Gesù. I compaesani di Gesù non possono accettare che uno di loro possa avere successo, specialmente se è stato catalogato come un poco di buono: è uno scandalo che uno come lui di cui conosciamo la nascita e la famiglia possa «dire e fare» queste cose e se le fa e le dice significa che sotto deve esserci un trucco. Come è possibile che parli in nome di Dio «il figlio di Maria» (Mc 6,3)? L’espressione è fortemente dispregiativa perché Gesù è considerato dall’ambiente figlio illegittimo di ragazza-madre. E’ la sazietà dell’opinione pubblica che bolla le persone in nome di un perbenismo di facciata. Essi invece di approfittare e curare i propri malati, perdono il tempo a scandalizzarsi (Mc 6,3): preferiscono la morte piuttosto che mettere in discussione la loro presunzione.
Ieri come oggi, i paladini pubblici della moralità e i censori più accaniti sono coloro che privatamente sono immorali per debolezza o per convenienza; parlano di «principi non negoziabili», di difesa della vita, di dignità della persona e poi fanno affari e alleanze con chi denigra e calpesta quegli stessi valori, disattendendoli nella vita. Chi svolge una funzione pubblica deve essere uno specchio trasparente. In modo particolare i vescovi che sanno usare le parole di circostanza e del mestiere, saranno giudicati anche per i loro silenzi che spesso sovrastano le grida del popolo di Dio che invoca una parola chiara di orientamento ai credenti disorientati di fronte a comportamenti di uomini di potere che pagano il silenzio con leggi acquiescenti e con denaro d’iniquità. Chi non ammette mai di sbagliare, giudica gli altri in modo negativo perché dovrebbe cambiare vita e molti muoiono atrofizzati nella loro presunzione morale. Gesù si meraviglia della loro incredulità (Mc 6,6) e, annota l’evangelista amaramente, «non vi poté operare nessun prodigio» (Mc 6,5). E’ necessario un ritorno urgente alla morale della pagliuzza e della trave (Mt 7,3-5). Nell’omelia cercheremo di capire le ragioni di questo atteggiamento.
La liturgia con queste letture intende dirci che dovremmo sempre avere un po’ di fame, anche quando siamo sazi e non dare per scontato nulla perché ogni giorno è nuovo e porta con sé ragioni che ieri non conoscevamo. Bisogna essere liberi, specialmente da noi stessi, se vogliamo cogliere la presenza di Dio che oggi ci parla e ci nutre nel sacramento dell’Eucaristia, il luogo della verità di Dio e nostra. Entriamo dunque con la preghiera del Salmista che c’introduce alle invocazioni dello Spirito Santo (Sal 48/47, 10-11): «O Dio, meditiamo il tuo amore dentro il tuo tempio. Come il tuo amore, così la tua lode si estende sin o all’estremità della terra;di giustizia è piena la tua destra».
 
 
Testi biblici
Prima letturaEz 2,2-5. Profeta e sacerdote, Ezechiele è deportato a Babilonia durante l’esilio del sec. VI a.C. (587-538). Qui vive tra gli esiliati alimentando la speranza del ritorno e il rinnovamento interiore perché l’esilio è la conseguenza disastrosa di un agire non conforme all’alleanza. Nella vocazione di Ezechiele non c’è la solennità di altre vocazioni profetiche, ma solo la pochezza dell’inviato, un semplice «figlio d’uomo» che deve contrastare una infedeltà durata secoli. La fragilità della parola e della figura del profeta mette in evidenza per contrasto la grandezza dell’ideale che ha le sue radici nel cuore stesso di Dio[2].
 
Dal libro del profeta Ezechiele Ez 2,2-5
In quei giorni, uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi parlava. Mi disse: «Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli d’Israele, a una razza di ribelli, che si sono rivoltati contro di me. Essi e i loro padri si sono sollevati contro di me fino ad oggi. Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito. Tu dirai loro: “Dice il Signore Dio”. 5 Ascoltino o non ascoltino — dal momento che sono una genìa di ribelli —, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro». - Parola di Dio.
 
Salmo responsoriale 123/122,1-2a; 2bc; 3-4. Il popolo in esilio ripensa alla sua vita spensierata prima della catastrofe, quando viveva sazio della sua autosufficienza, indipendentemente di Dio, perpetuando il peccato di Adam. Ora in esilio ha perso tutto:  l’indipendenza, l’agiatezza e anche la dignità. In questa commovente supplica collettiva dall’abisso dell’esilio (vv. 1-2), l’orante invoca l’intervento di Dio che si manifesta nel suo perdono (vv. 3-4).
 
Rit. I nostri occhi sono rivolti al Signore.

1. 1 A te alzo i miei occhi,
a te che siedi nei cieli.
2 Ecco, come gli occhi dei servi
alla mano dei loro padroni. Rit.
così i nostri occhi al Signore nostro Dio,
finché abbia pietà di noi. Rit.
3. 3 Pietà di noi, Signore, pietà di noi,
siamo già troppo sazi di disprezzo,
2. Come gli occhi di una schiava
alla mano della sua padrona,
4 troppo sazi noi siamo dello scherno dei gaudenti,
del disprezzo dei superbi. Rit.

 
Seconda lettura2Cor 12,7-10. Per screditare Paolo nella comunità di Corinto, i suoi avversari, i giudeo-cristiani della chiesa di Gerusalemme legati alle tradizioni giudaiche, si vantano della loro superiorità in fatto di carismi. Essi non si sono mai fidati di paolo che per tutta la vita si è sentito estraneo alla stessa vita apostolica, fino a vantarsi di essere stato fortunato di non avere conosciuto Gesù materialmente (cf 2Cor 5,16). Paolo non teme i suoi avversari che chiama «falsi fratelli» (2Cor 11,26; Gal 2,4), ma preferisce mettere in risalto la sua fragilità sull’apparenza dei carismi perché non propone se stesso come punto di arrivo, ma il vangelo che ha ricevuto da Gesù risorto[3]. La «spina nella carne» di cui Paolo (v. 7) è probabilmente una malattia o un impedimento fisico (vista?) che gli rallentavano la sua attività di apostolo del vangelo.
 
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi 2Cor 12,7-10
Fratelli, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». 10 Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte. - Parola di Dio.
 
VangeloMc 6,1 -6. Durante un giro missionario, Gesù passa per Nàzaret, la sua città e come suo solito, di sabato, va in sinagoga e legge la 2a lettura, tratta dai profeti e riservata ai laici che potevano commentarla. Gesù si avvale di questa facoltà (cf Lc 4,16-30), ma non trova che rifiuto e disprezzo: viene indicato addirittura con il nome di «figlio di Maria», un titolo dispregiativo per dire «figlio senza padre», forse, perché sua madre era ritenuta una ragazza-madre. Coloro che più d’ogni altro avrebbero dovuto conoscerlo sono chiusi nel loro «pre-giudizio» e non possono accettare che uno così possa parlare con «sapienza» (v 2). Piuttosto che rinunciare al loro schema popolato di scandali (v. 3), preferiscono tenersi malati e non giovarsi dei suoi prodigi (v. 5). Non basta essere parenti di Gesù per coglierne l’anima come non basta non professare la religione per essere uomini e donne di fede.
 
 
 
Dal Vangelo secondo Marco Mc 6,1 -6
In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità. Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando. - Parola del Signore.
 
Spunti di omelia
L’esperienza di disprezzo che vive Gesù nel suo paese di residenza ci apre ad una dimensione non solo della personalità di Gesù, ma anche della nostra fede che si concretizza in scelte missionarie. Durante uno dei suoi viaggi missionari Gesù decide di tornare nella sua regione in Galilea e al suo paese, Nàzaret, nella sua famiglia. Forse l’obiettivo è riposarsi accanto a sua madre e nello stesso tempo condividere con i suoi concittadini i frutti della sua missione. Egli probabilmente si aspetta un minimo di accoglienza che qualunque paese avrebbe tributato a un figlio che cominciava a diventare famoso. Non raccoglie che stupore è disprezzo (Mc 6, 2-3). Marco ci offre un indizio per spiegare il comportamento ostile dell’ambiente: «Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Joses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?» (v. 3).
Secondo l’uso dell’epoca che vive ancora oggi, un figlio è identificato non con il proprio nome, ma come «figlio del padre», per cui di Gesù si dovrebbe dire: « Non è costui il carpentiere, il figlio di Giuseppe – bar Josèph, il fratello di…». Così fanno per motivi teologici gli altri due sinottici (Mt 13,54; Lc 4,22) che cercano di stemperare la dirompenza dell’affermazione «figlio di Maria» che era non solo offensiva, ma era il segno di un disprezzo pubblico: come dire in una struttura sociale di stampo patriarcale che Gesù è senza padre e sua madre è una poco di buono, come spiegheremo subito. La donna al momento del parto perde la propria identità individuale e diventa per tutti «la madre di…», per cui Maria è comunemente conosciuta come la madre di Gesù – èm Joshuà (cf Gv 2,1.3; At 1,14). Se osserviamo in parallelo i tre Sinottici ce ne rendiamo conto immediatamente:
 

Mc 6,1-3
Mt 13, 53-56
Lc 4,22
Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga.
53 Terminate queste parabole, Gesù partì di là. 54 Venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga
 
E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano:
e la gente rimaneva stupita e diceva:
22 Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati
“Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani?
“Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi?
delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano:
Non è costui il falegname, il figlio di Maria,
55 Non è costui il figlio del falegname?
 “Non ècostui il figlio di Giuseppe?”.
il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?”.
E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? 56 E le sue sorelle, non stanno tutte da noi?”.
 

 
Mc non ha particolari preoccupazioni da tutelare perché i suoi uditori non hanno problemi di discendenza giudaica e quindi afferma con semplicità e senza problemi che i paesani di Gesù, usando la formula «figlio di Maria» danno un giudizio dispregiativo perché l’espressione significa che Gesù non ha una paternità reale essendo solo figlio di una donna: egli è bollato come illegittimo e per questo è scandaloso che operi miracoli e parli delle cose di Dio. Come è possibile che il «figlio di una ragazza madre» possa essere scelto da Dio per una missione di evangelizzazione? E’ probabile che molti abbiano anche pensato: perché non mio figlio che è «regolare»? Noi osserviamo tutte le regole, mentre costui «figlio di Maria» pretende anche di essere un profeta di Dio.
 
«Anche se era ammesso che un fidanzato avesse rapporti con la sua promessa, le chiacchiere su una nascita prematura avevano via libera a Nàzaret.  Maria dovette soffrire per questo (cf  il senso da dare forse a Lc 2,35) e dopo essere rimasta incinta si assentò spesso da Nàzaret, particolarmente al momento della sua gravidanza (Lc 1,56; Mt 2,21-22) per non dare eccessivamente nell’occhio e di evitare polemiche. Essere la madre del Messia non è soltanto un privilegio: la Vergine impara a portare il disonore come Gesù imparerà a portare la croce»[4].
 
Mt che invece scrive per i Giudei credenti in Gesù, si pone il problema e sfuma l’identificazione di Gesù, chiamandolo con l’espressione «figlio del carpentiere», dove ancora non si dice il nome di suo padre, lasciando intravedere qualche problematicità. Lc invece che è fuori da queste prospettive e forse perché al suo tempo, ormai Gesù è solo il Signore risorto, non ha problemi a usare il nome del padre per cui Gesù è semplicemente: «figlio di Giuseppe» come stabilisce la Toràh (Mt 1,20-21). In questo modo elimina ogni fraintendimento e risolve il problema dell’identità di Gesù e dell’imbarazzo che invece prova Mt e i nazaretani.
Mc dunque ci mette di fronte alle reazioni di coloro che incontrano Gesù. I suoi paesani sanno (credono di sapere) tutto di lui: conoscono la famiglia, i suoi parenti, lo hanno visto crescere, ne hanno sperimentato l’evoluzione della crescita, forse sono andati a farsi servire da lui in bottega, eppure hanno messo una siepe insormontabile davanti ai loro occhi: essi non lo conoscono. Non basta guardare per vedere dentro e non basta sapere i fatti esteriori per conoscere l’anima e il cuore di una persona. Bisogna volere vedere e ascoltare. Lo hanno rinchiuso e condannato nel loro pregiudizio per cui anche i miracoli diventano stranezze. Se solo potessimo immaginare cosa ha vissuto Maria la madre di Gesù, nel suo paese natale! Additata da tutti come ragazza che ha partorito un figlio senza padre, ha portato in sé il marchio del ludibrio e il figlio ha subito sulla sua pelle il disprezzo dell’ambiente puritano e religioso. Per cogliere il senso degli avvenimenti, è necessario essere liberi da pregiudizi e preconcetti, ben disposti a «volere vedere» persone ed eventi come sono, senza steccati.
Questo atteggiamento preclude ogni conoscenza di Dio perché chi è prevenuto non può accettare un Dio incarnato che ci parla attraverso due comandamenti: gli avvenimenti e le persone. Coloro che sono prevenuti sono uomini e donne delle tradizioni, dell’immutabilità, dell’implacabilità e se un Dio esiste non può che penare come loro. I tre Sinottici mettono in straziante evidenza che l’ambiente circostante è impenetrabile e non cambia nemmeno di fronte ai miracoli fatti da Gesù. Per loro è un illegittimo, uno cioè che nemmeno Dio può prendere sul serio se vuole essere serio lui. Qui è il primo passo verso l’incarnazione: Gesù vive l’esperienza umana in tutta la sua interezza a cominciare dal rifiuto e dal disprezzo. A ragione San Paolo dirà parlando di sé: « la forza si manifesta pienamente nella debolezza» (2a lettura: 2Cor 12,9)
Questa pagina di vangelo ci dice come spesso noi ci facciamo di Dio una nostra illusione e invece di impegnare la vita a conformare la nostra con la sua volontà di salvezza, perdiamo, buttiamo la nostra intera esistenza a costruirci un simulacro di Dio sul cui altare siamo disposti a sacrificare tutto purché corrisponda alla nostra idea e ci garantisca nelle nostre perversità. Aveva pienamente ragione Karl Marx quando affermava che la «religione è l’oppio dei popoli» e aveva presente proprio questo tipo di religiosità pagana che si serve di Dio per uccidere le persone e i popoli, magari dal chiuso del proprio comodo perbenismo.
Quando il popolo d’Israele trasforma il Dio dell’esodo in un idolo, vede aprirsi le porte dell’esilio come viaggio di purificazione e ritorno alla schiavitù d’Egitto. Per vedere Dio all’opera nella storia e nelle persone che incontriamo, al di là di ogni apparenza, è necessario purificare la religione della nozione di Dio stesso. E’ stato il tentativo del Concilio Ecumenico Vaticano II che oggi sembra abortito perché parte della gerarchia e del laicato hanno avuto paura di esplorare le vie nuove dello Spirito Santo e si sforzano di rifugiarsi nel loro passato e nel ritorno ad una impossibile cristianità come regime e contenitore di una religiosità scomparsa e che mai più potrà ritornare. Il concilio Vaticano II ha liberato Dio dall’etichetta di «cattolico» e lo ha restituito all’umanità intera e questo comporta un prezzo: la confusione iniziale, la paura di sbandare, il terrore del futuro, il disorientamento provvisorio, tipico di un popolo che esce dalla tranquillità monoculturale per entrare a pieno titolo e senza privilegi in un contesto umano di multi-etnicità e policulturale.
Non c’è più una sola religione che ha il monopolio di Dio, ma bisogna prendere atto di una molteplicità di «Chiese» con la stessa dignità e diritti. Tornano in auge le processioni e i rituali ante-concilio perché è più facile organizzare una liturgia esteticamente perfetta che incontrare la fame e il problema dell’acqua che attanagliano il mondo; è più facile e gratificante fare una processione che affrontare il problema degli immigrati; è più facile e più rilassante cantare in gregoriano che impolverarsi camminando a fianco delle fatiche e dei dubbi degli uomini e delle donne di oggi.
Paolo ai suoi denigratori risponde mettendo in luce la sua debolezza perché risplenda colui che lo ha chiamato e il vangelo che annuncia, lotta e si oppone a viso aperto anche a Pietro pur di essere fedele alla sua chiamata e alla sua coscienza: «Quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché aveva torto» (Gal 2,11) perché si comportava in modo contrastante a seconda che fossero presente Giudei o Greci. Paolo gli rinfaccia la doppia morale e lo obbliga a fare una scelta pubblica. Paolo non è mai stato accettato come apostolo e la Chiesa di Gerusalemme che faceva capo all’apostolo Giacomo dubitò sempre della sua apostolicità, creando in Paolo una sofferenza interiore che potrebbe identificarsi anche la «spina» conficcata nella sua carne di cui parla la lettura di oggi e con la quale convive, ma senza lasciarsi intimidire e senza scendere a compromesso con essa[5]. Anche di fronte all’ostilità più dura bisogna mantenere l’umorismo dello Spirito che ci guida con il suo discernimento e quando questa ostilità proviene direttamente dall’autorità di riferimento, non possiamo temerla e nello stesso tempo non possiamo tacere, perché se è vero che l’autorità è responsabile della nostra salvezza, è anche vero che noi abbiamo una responsabilità ancora maggiore: davanti a Dio siamo responsabili di chi detiene il servizio dell’autorità che dobbiamo aiutare a servire non a spadroneggiare. E’ compito dei figli educare i genitori a comprendere i tempi dei figli, altrimenti come fanno a leggere i «segni dei tempi» che vanno verso il futuro.
Se siamo veri, se siamo coerenti, se siamo fedeli alla vocazione della nostra anima, nulla e nessuno potrà mai separaci dall’amore di Cristo, ma saremo sempre pronti di rendere conto a tutti della speranza (1Pt 3,15) che è in noi e ci stupiremo, sì, delle opere di Dio perché sapremo leggerle e accettarle per quello che realmente sono: opera di salvezza e di liberazione. Che possiamo non essere mai gelosi dei doni e delle ricchezze degli altri, con l’aiuto di Dio.


[1] Il linguaggio militare che si va estendendo, anche dopo il concilio Vaticano II, è il sintomo di una porzione di Chiesa che si vede come «cittadella» assediata, detentrice dell’unica verità e guarda al mondo con occhi ostili perché lo considera un nemico, nonostante le parole di tenerezza del Signore «che giudicherà il mondo con giustizia» (Sal 96/95,13) e «ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito» (Gv 3,16).
[2] P. Auvray, «Ezéchiel I-III, essai d’analyse littéraire», in Rev. Bibl. (1960), 481-502.
[3] J. Cambier, «Le Critère paulinien de l’apostolat», in Bibl. 1962, 481-518.
[4] Maertens T. - Frisque J., Guida all’assemblea cristiana, V, Torino, 1970, 271.
[5] Ormai nessuno pensa più che la «spina» sia uno stimolo sessuale come invece pensava Sant’Agostino. Con ogni probabilità si tratta delle difficoltà che l’apostolo incontra nel suo ministero. Accanto a queste difficoltà potrebbe esserci anche una malattia o una fragilità fisica che gli rallentava il dinamismo della sua ferrea volontà di arrivare a tutto il mondo. Da una parte egli sa di essere un apostolo mandato al mondo pagano e dall’altra questo mandato è impedito. La richiesta di Paolo a Dio di levargli la spina è coerente perché chiede solo che il Signore lo metta in condizione di svolgere al meglio il suo mandato di apostolo del vangelo.


Venerdì 03 Luglio,2009 Ore: 17:06
 
 
Commenti

Gli ultimi messaggi sono posti alla fine

Autore Città Giorno Ora
Eugenio Bisceglia Cosenza 22/7/2009 12.29
Titolo:
Gentile Don Paolo, ho letto la Sua lettera aperta al Cardinale Bagnasco e sono rimasto profondamente colpito delle Sue forti accuse.
Condivido pienamente il suo pensiero e da cristiano cattolico (non più praticante) sono completamente frastornato - per dire poco - su quanto sta avvenendo nella chiesa cattolica. -
Sono il difensore di Padre Fedele Bisceglia (non sò se Lei lo conosce) accusato di una violenza carnale ai danni di una suora. - Accusa decisamente infondata e costruita da un complotto strategico e misterioso da fare rabbrividire. Avrei bisogno di parlare con lei non nella qualità di avvocato ma quale semplice cattolico credente in Dio, ma non più nella "santa romana chiesa". -
La ringrazio del tempo che vorrà dedicarmi.
Le auguro buona giornata.
Eugenio Bisceglia

Ti piace l'articolo? Allora Sostienici!
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori

Print Friendly and PDFPrintPrint Friendly and PDFPDF -- Segnala amico -- Salva sul tuo PC
Scrivi commento -- Leggi commenti (1) -- Condividi sul tuo sito
Segnala su: Digg - Facebook - StumbleUpon - del.icio.us - Reddit - Google
Tweet
Indice completo articoli sezione:
Il Vangelo della domenica

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito


Ove non diversamente specificato, i materiali contenuti in questo sito sono liberamente riproducibili per uso personale, con l’obbligo di citare la fonte (www.ildialogo.org), non stravolgerne il significato e non utilizzarli a scopo di lucro.
Gli abusi saranno perseguiti a norma di legge.
Per tutte le NOTE LEGALI clicca qui
Questo sito fa uso dei cookie soltanto
per facilitare la navigazione.
Vedi
Info