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www.ildialogo.org Articoli di Lidia Menapace pubblicati negli ultimi mesi da Liberazione,

Articoli di Lidia Menapace pubblicati negli ultimi mesi da Liberazione

Lidia Menapace
«Tutto rosso è il sangue umano e tutto umano è», scrive un poeta senegalese, e credo valga anche per il Dna. La storia di cercar di identificare “scientificamente” appartenenze biologiche alle “razze”, che è un nonsenso scientifico, indica che ci si muove sul terreno dei più puri e pericolosi e vili pregiudizi. La cosa viene da lontano, come il dire che tutte le donne sono puttane, o “porca Eva”, così che tutti i Neri sono sporchi, gli Ebrei avari, i Gialli infidi e gli Arabi poi depositari di ogni crudeltà, sorpassati solo dai Romeni detti anche Rom, che è persino un’altra cultura. Questo è già razzismo, cioè rendere uno o una sospettabile di qualcosa, non perché ci sono indizi o prove che l’abbia fatta, ma per quello che è. E se non si vince fino in fondo, non si sradica dalle fondamenta qualsiasi traccia di pregiudizio legato a ciò che siamo, il pregiudizio riciccia nelle forme più inverosimili, così gli Italiani migranti erano discriminati e noi discriminiamo gli immigrati, gli Ebrei furono sottoposti alla Shoà e ripetono lo sterminio a Gaza. Per un certo periodo sembrò che il furto fosse ignoto in Italia e che ce lo avessero portato gli Albanesi.
Adesso si vuol far credere che lo stupro è caratteristico di un gruppo culturale umano e si cerca di “dimostrarlo” in un modo che fa fare solo brutti pericolosi inquinanti errori. Si chiama “petizione di principio” ed è uno dei più noti errori di logica classica: una cosa inventata dagli uomini, che sono campioni “a prescindere” di razionalità (altro diffuso pregiudizio). Orbene. Lo stupro è in ogni cultura, più in quelle stanziali e fondate sulla proprietà (anche la donna è merce e deve essere “nuova”), era considerato e persino sancito come un diritto degli eserciti vittoriosi, e diffuso soprattutto nelle famiglie a motivo del loro ordinamento patriarcale, col padre investito della patria potesta se arbitro di vita e di morte sui figli. E’ stato fino a pochi decenni fa coperto dalle leggi: in Italia, “patria del diritto”, era un reato contro la morale e non contro la persona e comportava indagini sulla moralità della vittima (la donna provoca, mente e simula!). E per ottenere che il parlamento italiano votasse una legge che lo definisce un reato contro la persona, ci sono volute un milione di firme raccolte da associazioni di donne sotto un testo di iniziativa popolare e ben due legislature, con un tenace impegno di donne parlamentari.
Infine il parlamento italiano si sentì “costretto” ad approvare una legge contro la violenza sessuale che è una delle migliori in Europa. Naturalmente se nella polizia e nella magistratura permangono i pregiudizi che uno stupratore è per forza romeno e una donna provoca se gira senza una ronda di scorta, non si fa un passo avanti, anzi si rotola indietro. Considero un enorme vanto civile che noi donne del Comitato per la legge non abbiamo voluto allora un inasprimento delle pene, perché abbiamo sempre confidato in e voluto un mutamento di cultura e non un incrudimento repressivo. La Gelmini, sempre più Beata Ignoranza, presentando la sua “nuova materia”, da non confondere - dice lei - con la “vecchia educazione civica” perde una splendida occasione: tra tutte le cose che elenca sotto il titolo della nuova materia scolastica, non pensa nemmeno per sbaglio di citare l’informazione sessuale e la lotta contro il pregiudizio e il razzismo. Peccato! l’avrei applaudita, anche col rischio di farmi male (al cuore).                            
Lidia Menapace
 
Se il terremoto è imprevedibile, come è ad oggi tra gli scienziati, allora bisogna sempre prevederlo. Mi spiego: di fronte a un evento che si sa destinato a succedere una volta o l’altra nelle zone ad elevato rischio sismico, bisogna attivare una formazione generale di base, un addestramento diffuso e introiettato.
Che metta la popolazione nella condizione migliore possibile per resistere all’evento. Tutto ciò si fa a cominciare da esercizi quotidiani nelle scuole, fino a che diventino spontanei, quasi riflessi condizionati e quindi scattino immediatamente ogni volta: nulla di peggio vi è - nelle sciagure - del panico che ti blocca. Inoltre, cognizioni sulla condizione del terreno, capacità e addestramento a leggere i primi indizi, come un tempo era noto fare per semplice esperienza e memoria trasmessa.
Predisporre piccoli magazzini con riserve (alimentari coperte medicinali e mezzi sanitari di primo soccorso ecc.) stanziati in molti luoghi del territorio. Gruppi di anziani e anziane potranno - in periodi di vita tranquilla - fare i magazzinieri e tenere tutelate e rinnovate le scorte.
Analogamente bisognerebbe fare con tende, ospedali e cucine da campo, stanziate e tenute pronte in molti luoghi.
In tutte le aree a grande rischio queste riserve e risorse di base debbono esserci, essere note alla popolazione e tutti e tutte devono avere imparato a usarle a montarle a predisporle, sia perchè imparare qualcosa serve sempre, sia e soprattutto perchè dà sicurezza e coraggio alla popolazione colpita.
Poiché - come dicevamo - una delle prime necessità è sottrarre la popolazione al panico alla passività e alla fuga, tutto ciò che è stato tratteggiato fin qui serve molto: ma soprattutto serve per capire che cinquantamila sfollati e più significano che nulla di tutto ciò fu lì mai fatto e che perciò si arriva presto al “si salvi chi può!” Cinquantamila che sfollano di propria iniziativa singola significa una popolazione che non sa più né maneggiare né governare il suo territorio (come oggi non sappiamo quasi tutti): ma le popolazioni di montagna non sbagliavano a fare case dove venivano valanghe e quelle rivierasche dove i fiumi rompevano gli argini ecc. ecc. Adesso ciascuno crede di potersi accampare dove capita, dove il terreno costa meno, dove la costruzione cresce più alla svelta.
Se Berlusconi a questo punto insiste col suo delittuoso piano casa, indurrà a costruire allegramente un piano sopra ogni piccola casa inadatta, destinata a non reggere nemmeno il primo grado della scala Mercalli.
Molti ponti arditissimi costruiti su burroni profondi si chiamano “del Diavolo”, ma segnalano solo la straordinaria bravura di chi li costruì sì con mezzi arretrati, ma ben conoscendo dove poggiare le teste di ponte e come caricare le arcate. Siamo certi che le Tav e i ponti sugli stretti siano anche loro almeno “del Diavolo”?
Ne dubito perché avvengono nel momento del “trionfo e decadenza” dell’economia capitalistica, incapace di prendere in considerazione progetti complessi e invece abile a tener conto solo del profitto bruto, quello che per l’appunto ha generato la crisi di sovrapproduzione, la finanza tossica, e la pretesa irragionevole di voler prolungare orario e tempo di lavoro industriale.
Sui terremoti la memoria dell’umanità è lunga e tenace: tutti e tutte fin da bambini sapevamo come si deve fare, a scuola ci facevano esercitare, come si defluisce, dove ci si ripara, magari sotto un arco, vicino a un muro maestro, mai buttarsi per le scale, magari mettersi sotto un tavolo, persino una sedia, che protegge la testa e fa un cubo d’aria, se cade qualcosa intorno, e respiri, una bottiglia o una borraccia d’acqua, mai camminare sotto i cornicioni, moltissime avvertenze.
Soprattutto, poi, costruire case scuole ospedali in modo che resistano alle scosse, fare ponti viadotti ecc. che non crollino: se c’è un Paese esperto di costruzioni antisismiche dovrebbe essere il nostro: ma semmai andiamo a imparare in Giappone o in California.
Invece scuole e ospedali che vanno in rovina, case nuove che crollano i centri storici lasciati andare a ramengo e anche opere mastodontiche, piani in più e via così.
La tutela del territorio è uno dei doveri civici di ogni cittadino e cittadina, che si abitui a chiedere garanzie, a controllare esecuzioni e collaudi, e il territorio che venga adattato a chiunque ci viva, uomo donna vecchia giovane atleta o disabile.
Ricordiamo i friulani che raccolsero a uno a uno i sassi dei loro centri storici diroccati e li ordinarono e ricostruirono nei loro bellissimi sperduti paesi.
Ricordiamo i vietnamiti che sotto le bombe organizzarono la vita civile con tale abilità politica che lasciarono ammirato il mondo: le gerarchie sociali nella stretta tragica della guerra furono ribaltate e la cuoca divenne la più importante carica politica riconosciuta nel villaggio. E le maestre le più affidabili cui lasciare in mano i piccoli, sempre, mentre le madri erano in campagna a lavorare, e i padri in guerra.
In altri termini, anche per uscire dal terremoto ci vuole una capacità politica alternativa, non basta la pur generosa solidarietà e i soccorsi: ci vuole una azione sociale diretta e organizzata come un inizio di costruzione di nuova società, sotto le macerie della vecchia: non è solo una metafora.     
Lidia Menapace
 
Tutti e tutte abbiamo paura di perdere individualmente la memoria, che ci venga l’Alzheimer, perchè l’identità e tutti gli indicatori utili per relazionarci al mondo così si perdono, stingono e non abbiamo più cognizione di noi stessi. Non si capisce perchè invece un Alzheimer politicamente indotto dovrebbe essere salutare ed essere accolto e addirittura praticato, consigliato, divenire programma politico. Oppure si capisce anche troppo bene: un popolo immemore di se stesso può essere condotto ovunque,  non ha difese, perde il passato e non ha come costruirsi un futuro.
Perciò il tentativo di Fini di cancellare l’antifascismo, dato che il fascismo non c’è più - lui stesso che se ne intende lo afferma - è molto pericoloso.
Lasciamo stare per un momento di vedere se il fascismo non c’è proprio più, se il ventre che lo ha generato, davvero non è più fecondo: molti tentativi di semplificazione del sistema istituzionale vanno in senso autoritario, tendono a ridurre la democrazia multilivello e multiordinamento territoriale per averne una più spiccia  e facile da comandare: ma, come si è visto ancora dal terremoto dell’Aquila, una Protezione civile molto veloce attiva e non criticabile, se però non è stazionata sul territorio da prima, e non accumula memoria degli altri sismi che pure non ci sono più, e non lavora per addestrare la popolazione trasmettendole memoria, alla fine non riesce ad evitare un numero esorbitante di rovine e soprattutto di morti.
Ma veniamo al 25 aprile, Festa della Liberazione: da che? dal fascismo e dal nazismo.
Almeno per capire il senso della festa bisogna sapere da che ci siamo liberati.
Le vicende storiche si affrontano in termini di conoscenza, la più critica e ragionata possibile, evitando a priori le operazioni di manipolazione, come è stato fatto per l’appunto sul nostro recente passato, quando si propose la politica della memoria condivisa: la storiografia naturalmente non può proporsi di costruire una memoria condivisa , è antiscientifico fare storia avendo già un  fine da dimostrare.
Purtroppo ciò era già stato fatto in tempi non democratici (anche prima del fascismo, che come non è un episodio da cancellare, non fu nemmeno la repentina malattia di un sistema politico perfetto, il che in qualche modo riteneva Croce) con la memoria della costruzione dello stato italiano: infatti ciò che del Risorgimento si volle trasmettere fu il tentativo di “condividere” una storia raccontata falsamente: il progetto di costruire gli Italiani dopo costruita l’Italia su un modello di suddito obbediente e disposto a versare sangue in  guerre e avventure di ogni genere, non funzionò come dimostrano - a tacer d’altro - la “Questione romana” e il “Banditismo del Mezzogiorno”: e sarà un caso che la laicità dello stato e il  governo della criminalità sono problemi ancora aperti?
Tutto ciò è noto, storia che si studia a scuola. Ma vorrei provare a dimostrare che una trasmissione acritica e pregiudiziale non funziona, non solo nel male, ma anche nel bene e che le coscienze riescono sì a superare i vincoli e a dissipare il fumo indotto da una storiografia ufficiale e apologetica, solo però con grande fatica. Ma la fiducia che la ragione e la coscienza possono mutare lo stato delle cose presenti, agendo in modo coordinato e attivo è il fondamento etico della democrazia, forma della politica eccellente perchè autocorreggibile e poggiata su una fiducia forte nella specie umana. Che da “plebe all’opre china” può trasformarsi in soggetto che ha “ideali in cui sperar”, ad onta di tutta la intrinsecamente non democratica antipolitica e di ogni qualunquismo denigratorio.
La Resistenza è una dimostrazione dolorosa ma limpidissima di tutto ciò: se centinaia di migliaia di militari italiani presi prigionieri su tutti i fronti dai Nazi dopo l’otto settembre 1943 trovarono modo coraggio e coscienza di dire no a Hitler e a Mussolini; se i giovani meridionali sorpresi dall’armistizio a nord della linea gotica presero parte in gran numero alla Resistenza (che fu evento del nord solo per dislocazione territoriale dalle Alpi fino a Massa e a Carrara e fino alla Maiella, ma nazionale per la presenza delle persone che vi presero parte); se i ragazzi delle giovani generazioni rifiutarono di obbedire ai bandi di Graziani (eppure a scuola si doveva dare ogni anno l’esame di dottrina del fascismo); e se le ragazze e le donne che erano sempre state escluse dalla politica trovarono il coraggio e la capacità di entrare nella Resistenza in molte forme e con decisione e autonomia, ciò significa che la nuova storia italiana nasce da una precisa rottura infrazione discontinuità col passato monarchico e fascista. Credo che i fascisti se ne siano resi conto allora, perchè inventarono la più triste delle canzoni di guerra, ancor più triste di Lili Marleen, e dice : “le donne non ci vogliono più bene perchè portiamo la camicia nera” ecc. Qui, persino nella dichiarata impossibilità che esista il più elementare rapporto tra uomo e donna si mostra un ostacolo senza rimedio, un rifiuto che resta storico e deve essere ricordato in modo civile e non vendicativo certo, ma non può essere ridotto a una notte in cui tutto è per l’appunto “nero”.
O eguagliato in un ordine del tricolore offeso e macchiato.
La storia dell’Italia non più suddita nasce in quegli anni, in quei mesi tragici e non è possibire fondare il patto politico sommo se non sulla Costituzione  che ci rese cittadini e cittadine appunto sconfiggendo monarchia e fascismo e scrivendo la coscienza antifascista di un intero popolo.                         
Lidia Menapace
 
Oddio! Baget Bozzo! Mi spiace toh! Aveva qualche mese meno di me e io sono sempre contenta che i miei e le mie coetanee restino qui sulla terra a lungo e bene (con me). Ma a parte questo, il personaggio era davvero molesto, fastidioso, irritante.
Poco prima di morire ha confessato che aveva avuto pulsioni omosessuali da giovane, ma che si era fatto prete quasi solo per tenere l’omosessualità sotto controllo: può essere una chiave di lettura della sua personalità da lui stesso suggerita: essere - come si dice volgarmente - una “checca coperta”, comporta un tale livello di doppiezza, atteggiamento sfuggente, insincero prima di tutto con se stesso, di contorsione etica e sentimentale, che forse si può attribuire a questa sua libertà autonomamente negata tutto il seguito di contorsioni politiche che lo hanno contraddistinto.
Si pensi tuttavia che cosa era la Dc, quando poteva attirare due persone (due vocazioni tardive) come il cristallino durissimo antifascista Dossetti e Baget Bozzo! Baget aveva un ingegno molto fervido e mobile, un parlare vorticoso e travolgente, un brillare dell’intelligenza legato a battute e slogans, non un eloquio meditato e riflesso, ma nervoso e immediatamente reattivo. Strano che con simile modo di essere poi proclamasse sempre di non volere spiegazioni sentimentali per le scelte religiose, che volesse tutto legato alla ragione più raffinata e giocata. Invece era poi uomo di passioni politiche travolgenti, e lo dimostrò quando incontrò Craxi, un fulmine a ciel sereno: di Craxi gli piacque l’anticomunismo viscerale (come allora si diceva) che dava fiato al suo, il gioco della politica senza scrupoli, il cinismo, anche il coinvolgimento personale sia negli affetti che negli odi, il gestire un confronto di tipo cortigiano, dunque il leaderismo: tutto ciò concordava col suo giudizio negativo sulla specie umana, da lui considerata degna solo di comando, e di spazi di libertà ben delimitati.
Non era molto incline ai diritti e alla libertà, né si oppose mai alle derive autoritarie di Craxi, ma chi lo travolse definitivamente fu Berlusconi, del quale ammirava la capacità di divenire popolare e amato dalle folle: forse risentiva di un suo atteggiarsi e presentarsi che non suscitava simpatia né seguito. Doveva rimanere all’ombra di un capo che lo riconoscesse di tanto in tanto.
Disconosceva il Concilio, proprio per il tasso di libertà, autonomia e autodeterminazione che alcuni testi riconoscono ai singoli credenti e alle chiese nazionali, sarebbe stato quasi un lefevbriano, se non fosse stato legato alla chiesa italiana.
Era un conservatore molto intelligente, capace di trovare le più sofistiche scuse a chi appoggiava ed era disposto anche a servire; ma era anche disposto a sfidare l’autorità: ad esempio, quando Craxi gli propose la candidatura al parlamento europeo, ben sapendo che per il Concordato i preti non possono fare politica, accettò, sfidando l’autorità ecclesiatica (era tra l’altro laureato in giurisprudenza e direttore della rivista di teologia della Diocesi di Genova, compito che gli era stato affidato dal cardinale Siri, il più grande tra i vescovi di destra, della chiesa italiana e ben due volte entrato in conclave papa e uscito cardinale, come dice il proverbio).
 Il suo livello di laicità, che era notevole, inserito su un background reazionario, era arrivato fino a fargli dire che sarebbe stato lecito abortire per una donna stuprata in guerra. Già meglio di altri reazionari a proposito di altre donne.
Ultimamente non si era espresso sui temi cosiddetti sensibili, non saprei dire se per malattia che lo impedisse, o per una qualche resipiscenza: mi augurerei che fosse perché i cattolici che incontrava nel Pdl erano troppo lontani dalla sua funesta grandezza autoritaria e gli si presentavano come meschini piccini servili. Sarebbe quasi una redenzione e poiché de mortuis nihil nisi bene gli auguro di cuore di essersi pentito, alla fine, della compagnia in cui si era buttato a corpo morto
Lidia Menapace
 
 
Lidia Menapace
E’ una icona antichissima, quella che mostra Davide, fornito solo della fionda come fosse un ragazzo dell’Intifada, aver ragione del gigantesco Golia, immagine stessa della forza bruta. E quell’icona si perpetua e viene ripresa anche in alcune famose foto del recente passato: chi può dimenticare la ragazzina vietnamita sottile piccola fiera, che tiene prigioniero, quasi al guinzaglio, un gigantesco soldato americano? E chi non ricorda lo studente leggero sfottente che danza allegro e senza paura davanti a un gigantesco carrarmato cinese nella enorme piazza Tien an Men? Come vorrei che a questa galleria di persone che credono più nella ragione che nella forza, nella giustizia che nelle armi si potesse aggiungere anche l’icona di Rachel Carrie! Ma davanti al suo corpo il carrarmato israeliano non si fermò! Certamente la rivoluzione cinese e la Cina comunista sono state speranze vive per molti e molte di noi, soprattutto per alcune caratteristiche specifiche di grande prospettiva: il modello di industrializzazione che non punta sull’industria pesante, ma su quella che produce beni di uso comune e aiuta a sollevare ogni giorno un po’ il livello di vita del popolo; l’internazionalismo pratico che afferma non potersi né volere in Cina puntare su un miglioramento delle condizioni di vita del popolo, una volta raggiunto il minimo vitale («un pugno di riso al giorno per tutti e tutte, un paio di sandali per ogni paio di piedi, una casa su tutte le teste») fino a che non si potesse procedere insieme agli altri popoli poveri; L’attenzione alla questione di genere che portò Mao a discutere con le donne che protestarono quando disse che erano la “seconda” metà del cielo, e quando si corresse che erano “l’altra” metà del cielo, placandosi solo quando si abituò a dire che le donne erano, come gli uomini, “una” metà del cielo: segno della piena comprensione di quanto sia importante il liguaggio come simbolo del reale.
Ma non solo questo: perché tutti e tutte potessero uscire dall’analfabetismo Mao fece trascrivere il cinese scontentando i Mandarini che lo rimproverarono di uccidere le straordinarie sfumature e sottigliezze e raffinatezze della lingua cinese per apprendere la quale nelle scuole mandarine si imparava a dipingere per l’appunto 10.000 segni. Mai un povero contadino sarebbe riuscito ad arrivare al “merito” necessario. Uguale senso della giustizia di classe mostrò verso la tradizionale medicina cinese, inventando i “medici dai piedi scalzi”, preparati a sovvenire ai principali problemi igienico-sanitari della popolazione (ad esempio a non tagliare un cordone ombelicale con forbici non sterili o arrugginite).
Al termine di questi processi culturali disse che secondo lui - al contrario di quanto diceva il proverbio - «i mandarini puzzano e i contadini no» e che uno sarebbe stato un vero intellettuale comunista quando avesse sentito “puzzare i mandarini”.
Esprime qui un disprezzo e giudizio greve sulla antichissima cultura cinese che lo indusse anche a misure repressive verso gli intellettuali, e fu l’inizio di un processo di degrado della libertà che arriva fino alla piazza Tien an Men e alle lotte studentesche.
Quella della lotta contro la cultura borghese e il privilegio del sapere è una delle scelte più delicate e difficili, quando si produce dopo una rottura rivoluzionaria e vi è l’obbligo di sottoporre ad attento vaglio tutto il passato.
La Rivoluzione culturale fu di certo la più rischiosa e mal finita parte della Rivoluzione cinese e resta a noi il compito di definire la scelta culturale, prima fra tutte le libertà “sovrastrutturali”.
E dalla Rivoluzione cinese perciò molto resta comunque da studiare, capire, imitare anche nelle sue innovazioni, ma restano anche molti problemi irrisolti e penso che lo studente che sfida il carrarmato rappresenti tutto ciò in modo straordinario e limpido: la libertà di parola, insegnamento, ricerca è il più sicuro indicatore della democrazia reale, e si tratta di libertà senza aggettivi, libertà religiosa per poter dire no a qualsiasi infrazione della laicità, libertà di studio per poter dire no alla riedizione dei mandarini nostrani, libertà di innovazione, quando i simboli che invadono ancora la Cina di bandiere rosse, stelle rosse, falci e martelli non corrispondono più a una vera libertà, quando si vede che i poveri vengono lasciati indietro e il lusso brilla nelle metropoli delle Repubblica popolare cinese. I simboli sono straordinari veicoli di senso, fino a quando non diventano riti solenni, ma vuoti e assomigliano a quelli che si celebrano nelle cerimonie religiose.
Lidia Menapace
 
Alcune settimane fa il ministro La Russa diede notizia che erano state inviate in Afghanistan Forze Speciali e la Folgore; aggiunse però che nulla mutava nelle regole di ingaggio dei nostri militari. Ebbi qualche reazione di incredulità, data la natura delle truppe inviate, ma non volevo essere quella che si allarma sempre.
Seguirono a ritmo sempre più ravvicinato notizie di scontri a fuoco tra forze armate italiane e “miliziani”, anche con qualche ferito nostro e “perdite maggiori” degli avversari. Il linguaggio si faceva sempre più bellicoso, fino a ricordare il tristemente famoso lessico dei bollettini di guerra come è a me ben noto.
Mi aspettavo notizie della convocazione delle Camere, su richiesta di qualche gruppo politico che abbia a cuore la Costituzione, ma non mi pare che ce ne siano state. Ancor più mi aspettavo reazioni delle varie famiglie pacifiste: ma non si è mosso niente. Sia passività, disperazione, disattenzione, sia disinformazione fomentata da un assetto spesso servile di parte della stampa, tutto ciò è già molto preoccupante, segnala un altro avanzamento della barbarie tra noi.
Ma adesso la notizia ulteriore è che Berlusconi, andando a Washington per invitare Obama al G8 di luglio a L’Aquila, presenterà anche richiesta di entrare a pieno titolo nella guerra afgana.
Può darsi che Obama abbia fatto sapere di essere favorevole allo scambio G8-Afghanistan e che si incomincino a vedere le prime ricadute in armi delle sue misure anticrisi neokeynesiane.
Il fatto è che sarebbe la prima volta che una guerra di invasione e di aggressione viene palesemente dichiarata da noi senza alcuna foglia di fico. E non si può davvero tacere, sia per la gravità della cosa in sé, sia perché “si può spiegare” quasi solo come un segno che Berlusconi intende favorire La Russa rispetto a Fini nel suo partito e chiudere a suo favore la mano della partita in corso tra aree del Pdl e Lega.
E’ una cosa abietta? Lo è. Ci vanno di mezzo vite umane?
Certamente e non faccio gerarchie sul valore di esse. Ci va di mezzo la Costituzione? Sì, e con una manovra avvolgente che la sostituisce con una costituzione materiale neonazionalista, neoimperialista e neocoloniale.
Ho appena bisogno di ricordare che dal Dal Molin e da Aviano possono alzarsi in volo aerei verso l’Afghanistan senza nemmeno bisogno che sia chiesto il permesso al governo italiano.
Ricominciare a chiedere le dimissioni del governo, manifestare, studiare un testo per una proposta di legge di iniziativa popolare per introdurre l’empeachment mi sembra il minimo. Anche perché, se non ci si attrezza ad usare tutte le forme legali di lotta in modo proprio, serio e convinto ci si può facilmente rendere conto di quale mirabile argine alla illegalità sarebbe un parlamento scelto da un capo eletto plebiscitariamente (e quindi non sfiduciabile) e che lo stesso capo può licenziare a volontà, se già questo, di parlamento, è così facilmente asservito.  Lidia Menapace
 
Mi pare importantissimo che il nostro giornale voglia sottolineare ciò che dovrebbe essere visibile a tutti, e cioè la straordinaria presenza delle donne di qualsiasi età nel movimento iraniano.
Questa decisione smuove dentro di me ricordi che cominciano da lontano. La prima immagine è quella della allora giovane figlia di Rafsanjani in visita a Roma, che chiede di incontrare le femministe romane: veniamo invitate all’ambasciata dell’Iran e decidiamo di andarci tutte a capo scoperto e braccia nude (era estate). L’ambasciata ci accoglie con l’aria condizionata al massino, sicchè corriamo a tirar fuori dalle borse tutti gli scialletti le sciarpe i foulard che abbiamo, e si comincia, capendo che tra popoli antichi l’esercizio della allusione è comune. La giovane iraniana è vestita di un abito beige accollato, maniche lunghe, calze di cotone bianco e sembra una monachina, ha in capo una specie di copricapo da suora.
Appena incomincia a parlare appare molto colta anche di cultura italiana, libera, capace politicamente e capiamo che per il corpo delle donne il vestiario è simbolicamente fortissimo, e quando viene trasformato dal corpo-mente della donna che lo abita, questo è un successo ancora più grande.
Lidia Menapace
 
Comunque con lei è una conversazione molto bella, di vera rapida relazione tra noi. Chiediamo di una giovane adultera lapidata e ci dice che su pressione delle donne il giudice che ha emesso la barbara sentenza è stato cacciato ecc. A un certo punto chiediamo se il velo è d’obbligo per il Corano e improvvisamente da una stanza appresso esce un giovane che dice essere lui autorizzato a rispondere su materia religiosa.
E’ un giovane bellissimo, un bello impossibile, sembra la canzone della Nannini. Dice che il corpo della donna deve essere tenuto coperto perché provoca eccitazione e ciò deve essere riservato al solo marito. Restiamo incredule che una cosa così si possa ufficialmente sostenere. Ma, a proposito di eccitazione, qualcuna tra noi comincia ad ammiccare: in fin dei conti il bello impossibile è abbastanza eccitante e allora incominciamo a dirgli che i suoi occhi eccitano e soprattutto il bel collo bianco muscoloso e nudo che esce dal colletto della camicia: il povero scappa! Anni dopo a Pechino, l’Udi, di cui faccio parte, incontra donne islamiche e discutiamo un po’ fra noi su come debbono essere valutate le varie delegazioni dei paesi islamici. Le delegazioni degli Emirati vengono dette “Ong dei governi” dalle libere donne islamiche di altre delegazioni. E ci dicono che sotto gli abiti neri e le mascherine a tutto volto hanno macchine fotografiche che cavano fuori appena vedono una donna dai tratti mediorientali a capo scoperto. Sicché da allora tutte noi appena vediamo una donna tutta velata ci mettiamo davanti a quelle che vuole fotografare: debbono esserci un tot di mie foto nei loro archivi.
E a questo punto non posso non ricordare la donna iraniana esule a Parigi che narra la sua storia. Era studente all’università di Teheran quando cadde lo Schah Reza Pahlevì e per esprimersi contro la occidentalizzazione forzata che egli aveva imposto anche vietando il velo, se lo era appunto rimesso in capo. Appena torna a casa, sua madre che la vede velata scoppia a piangere e le dice: «Tu non sai che cosa c’è, che cosa c’era sotto il velo!» e madre e figlia si raccontano molte complicate cose su come il progresso economico tecnico sociale possa legarsi anche al più tremendo regresso culturale e religioso.
E se veniamo al movimento odierno è stato quasi simbolicamente rappresentato dalla campagna elettorale durante la quale il primo avversario di Ahmadinejad fa comizi e viaggi insieme alla moglie che dicono anche sua ispiratrice politica. E mentre vado ad Adria per un ultimo comizio per il ballottaggio viene a prendermi alla stazione una compagna iraniana che sta lì e che con altri immigrati e immigrate forniti di cittadinanza hanno sostenuto la nostra lista fino dal primo turno. Considero ciò un grande titolo di gloria. La compagna iraniana spera per il suo paese, parla, è contenta.
E le immagini che ci arrivano sono un vero trionfo di ragazze a capo scoperto, di giovani donne ridenti e disinvolte col velo, di donne mature più caute e con abiti più tradizionali: ma è del tutto evidente che le donne sono uno dei punti più importanti sui quali si gioca la partita. E quando sugli schermi compare il volto della figlia di Rafsanjani scarcerata dopo essere stata presa durante i “disordini”; e poi l’avvocata esule premio Nobel per i diritti civili, sentiamo donne col velo magari, ma che sanno bene quali sono i diritti e citano testi di legge e denunciano le illegalità. Mentre sulla piazza i ragazzi del movimento si chinano sgomenti e commossi sul corpo della loro giovanissima compagna uccisa.
Viene fuori una lotta grandiosa per la liberazione gestita insieme tra donne molto diverse tra loro. E da tutto il popolo giovane e consapevole. Lasciare che possa spegnersi o che venga violentemente spenta una tale primavera politica del mondo sarebbe un vero crimine: è dovere di chiunque gridare che non si possono reprimere diritti fondamentali, un simile bisogno di libertà e cammino di liberazione, quando appaiono. Si capisce o no che non si tratta di vedere se Obama ce la fa o se ce la fa l’Inghilterra, secondo logiche imperiali?
E se Obama non farebbe bene a diffidare di troppo zelanti e servili alleati?
Se bisogna criticare l’invito dell’Iran a Venezia? Bisogna chiedere che le Nazioni unite chiamino l’Iran a rendere conto della soppressione delle fondamentali libertà civili e politiche della maggioranza della popolazione e della legalità di un evento elettorale del quale i risultati escono due ore dopo chiusi i seggi e il controllo consisterebbe nel sostenere che si sono trovati tre milioni in più degli elettori, ma ciò non fa problema! Che l’Iran renda noti i suoi straordinari metodi di conteggio dei voti, che compriamo tutti il brevetto.
Non dobbiamo permettere che le cose del mondo vengano gestite da un uomo solo o da scambi invisibili tra pochi.
E per tutti e soprattutto per tutte deve essere chiaro che non si può scambiare aiuiti alle banche con guerra in Afghanistan, borse e oppressione delle donne. Per le donne arrivare ad essere cittadine passa per la scuola e l’università, l’accesso al lavoro e alla società, non per l’essere veline.
In questo senso l’Iran insegna. Secondo me, se si potesse affidare la risoluzione dei problemi iraniani a un comitato di molte donne, come è successo al concerto di Milano per l’Abruzzo, verrebbe fuori che siamo anche capaci di organizzarci e di essere efficaci (talvolta persino più degli uomini: parlo di concerti ovviamente).         
Lidia Menapace
 
Uso moltissimo il treno,  che considero un mezzo di trasporto popolare e democratico: ma è venuto via via perdendo questo carattere, sicchè ormai si sta trasformando in uno strumento di divisione tra classi e in concorrenza con l’aereo. Questo processo si è venuto sviluppando sempre più da quando si è intensificata la privatizzazione, che ha finito per mutare le ferrovie in una impresa, da servizio pubblico che erano.
Tutto è  cominciato da quando l’intero servizio è stato diviso e molta parte di esso è stata “esternalizzata”. Appena è cominciato l’affidamento di parti ad aziende esterne sulle quali la ferrovia non ha controllo, il livello è calato: tutta l’opera di pulizia è appaltata a cooperative e davvero è in condizioni pietose; le pulizie vengono fatte in tutta fretta tra un arrivo e una partenza e rimane misterioso perchè i vetri dei finestrini non vengano mai lavati. Ho chiesto a un ferroviere e mi ha risposto che la pulizia non dipende più da Trenitalia e lui non ha modo di controllare nulla; chiedo a un pulitore mentre passa e mi dice che i vetri non fanno parte del suo mansionario: sembrerebbe che negli appalti i vetri vengano lasciati alla pioggia, sicchè sono sempre annebbiati. Le portiere che non si aprono sono numerose, ce n’è quasi su ogni treno, tanto che per scendere bisogna spesso fare un’intera vettura, a rischio di restare a bordo, perchè magari si vede all’ultimo momento il foglietto giallo appiccicato con l’indicazione che la porta è guasta. In cambio le porte dei bagni spesso non si chiudono.
Del resto bagni chiusi d’autorità perchè non funzionanti non mancano. Sicché avendo una volta  chiesto a un ferroviere se anche la manutenzione meccanica fosse gestita allo stesso modo, mi è stato risposto di sì e questo è davvero preoccupante, perché freni ruote motori non ben controllati sono un pericolo.
Anche la scarsità del personale dà qualche insicurezza, ad esempio che alla guida anche su lunghe percorrenze ci sia uno solo a me non rassicura.
Che la notte spesso non si veda nessuno pure: speriamo che non ci mettano le ronde.
La cosa più sorprendente tuttavia l’ho sentita proprio appena dopo il disastro di Viareggio, quando un signore del CdA di Trenitalia, richiesto da una giornalista di rispondere alle critiche dei sindacati sulla manutenzione, ha detto alquanto seccato e sprezzante che i carri deragliati appartengono a una ditta di Vienna e che ciascuno risponde solo di ciò che è di sua proprietà. Credo che carri non manutenuti, o fatti correre a velocità eccessiva, oppure non adatti ai percorsi tortuosi caratteristici della morfologia del nostro paese, possano essere causa di simili tragedie, che già infatti sono state sfiorate due volte in poco tempo.
Lidia Menapace
 
Si dà prontamente la colpa alle regole europee e di ciò si può chiedere al commissario ai trasporti di Bruxelles che è italiano: ma penso siano regole indicative del minimo obbligatorio di prudenza e che non sia certo vietato renderle più stringenti semmai. O più adatte a carichi molto pericolosi. Si apprende che in effetti i carri di Viareggio sono di proprietà di una ditta Usa che ha la filiale a Vienna e avevano caricato vicino a Novara: chi controlla? Mi sa tanto che ci sia di mezzo il Wto.
Che vi sia un generale degrado è di tutta evidenza: persino le mirabolanti Freccerosse e argento ecc. si  vede che non vengono lavate, hanno già vernici scrostate, gli appoggiapiedi non si muovono, i sedili spesso non si allungano, non parliamo delle tendine controsole, che o non salgono o non scendono o non ci sono del tutto.
I servizi appartengono all’economia della riproduzione sociale. E’ ovvio che debbono essere ben amministrati: ma il criterio del profitto non è il loro, non debbono perseguire il profitto, bensì fornire alla cittadinanza un servizio puntuale, sicuro, pulito, tendenzialmente democratico, non troppo diseguale nelle prestazioni.
 Sono stufa marcia di vedere a ogni sciagura Berlusconi che va a fare la ruota, cancella gli enti locali e pensa solo alle case da costruire: persino i terremoti, che non si possono prevedere, debbono però essere contrastati con una adeguata prevenzione, con edifici antisismici e addestramento della popolazione ad agire nel tempo del sisma: le case si possono ricostruire, ma le vittime sono andate e non si può assistere passivi a un simile spreco di vite, così doloroso e rilevante. Trecento morti all’Aquila per un terremoto che in Giappone non avrebbe fatto nemmeno una vittima, 17 per un deragliamento che si poteva prevedere. Il mercato non è adatto a tutto, ai servizi ad esempio davvero no: dunque no per treni aerei scuole ospedali rifiuti e così via.
Lidia Menapace
 
Non ero ancora ripartita da Vicenza, che mi raggiungeva la telefonata di una compagna e amica preoccupata di come stessi: stavo per attribuire le sue parore a una giusta sollecitudine perché - all’età che ho - ancora vado a manifestazioni che comportano  marce di chilometri sotto il sole, con un gran caldo, sempre in piedi. Invece la compagna era preoccupata perché su internet aveva letto la notizia di scontri con feriti.
La rassicuravo, niente scontri: la notizia era falsa, la manifestazione era stata sospesa dal Comitato che l’aveva convocata prima che tutto ciò accadesse. Ma perché internet dava notizia di scontri e i giornali del giorno dopo parlavano di una manifestazione cominciata con scontri e finita pacificamente? cosa mai successa, e  infatti nemmeno il 4 luglio a Vicenza.
La cosa che più mi aveva colpito da subito era lo straordinario, davvero eccessivo schieramento di carabinieri polizia e finanza fin dalla mattina: ero arrivata in treno a Vicenza da Bolzano presto, alle 12,24, e la stazione era già più piena di polizia che di viaggiatori, così il piazzale antistante, così il percorso, e un elicottero già sorvolava la città e ha continuato tutto il giorno: che spreco di soldi, tempo e mezzi, benzina, straordinari, armi, blindati! Senza contare tutti quelli che non si vedevano, servizi segreti, poliziotti infiltrati, ecc., quanta inutile fatica per gli appartenenti alle forze dell’ordine, che hanno passato la giornata nelle loro pesanti divise, negli stivali alti, con addosso i giubbotti e i caschi, allineati lungo il percorso del corteo allegro colorato vestito leggero! Mi facevano un po’ pena.
Noi eravamo lì per un evento che si preannunciava come politicamente molto importante e che era saldamente diretto e organizzato dal Comitato e quasi patrocinato dal Comune. Di contro il solito copione di Genova: costruire una situazione così oppressiva, costretta e pesante da produrre reazioni incontrollate e forse provocazioni predisposte. Ma già si era visto a Genova, pur pagando carissimo, che le provocazioni prima o poi si scoprono e che l’azione nonviolenta si addestra sempre meglio. Secondo me molto efficace e ferma la posizione presa dal Comitato, che dal palco eretto vicino al Presidio permanente richiamava le caratteristiche politiche del 4 luglio a Vicenza, e teneva saldamente la direzione della iniziativa.
Una direzione quasi tutta femminile, che si è  caratterizzata per saper rispondere alla violenza di stato, oppressiva del diritto di manifestare, senza cadere nella trappola del  “colpo su colpo”.
L’azione nonviolenta non è imitativa, sposta sempre il conflitto su altri piani anche simbolici e Cinzia Bottene (e le altre e altri) ha tenuto limpidamente questo modo di rispondere. Alla fine ha concluso con grande coraggio civile  che era perdente lo Stato fedifrago e mancante di parola e vincente il movimento che aveva saputo leggere quella violenza e renderla inutile, uno scempio della democrazia davvero insostenibile, che simboleggia perfettamente lo scempio del raddoppio e di tutte le spese e azioni mlitari qui e altrove.
Il senso di responsabilità verso le vite delle persone che avevano aderito alla iniziativa era pure forte, come il diniego di avvalorare una arcaica cultura dello scontro “eroico” o del “punto d’onore” - avrebbe detto Manzoni.
Insomma una cosa politicamente matura che alcuni stupidi interni e provocatori o infiltrati hanno cercato di sabotare senza riuscirci. Avrei addirittura preferito che restassimo nel prato davanti al Presidio a ballare cantare bere mangiare tutta la notte “alla faccia loro”. Ma notoriamente io sono frivola ed epicurea.
Non so se ci si rende conto che grande maturità politica è quella di migliaia di persone arrivate a Vicenza anche da lontano per manifestare e che accettano la consapevole disciplina verso chi aveva indetto la manifestazione rinunciando a svolgerla nelle forme pattuite con i rappresentanti dello Stato. Cosa vergognosa che non si dimentica, nuovo restringimento degli spazi democratici cui bisognerà attrezzarsi a resistere con forme di lotta diverse, via via mettendo tra le anticaglie quelle che possono essere infiltrate dallo Stato e imitate anche da organizzazioni di estrema destra come Casapound e simili.                                                                                                              


Giovedì 27 Agosto,2009 Ore: 11:56
 
 
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