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www.ildialogo.org La filosofia messianica di Spinoza<br>Sefardismo, Marranesimo, Qabbalah,di Marco Morselli

La filosofia messianica di Spinoza
Sefardismo, Marranesimo, Qabbalah

di Marco Morselli

Il compito che devo affrontare questa sera è particolarmente arduo. Non penso riuscirò a presentare un discorso compiuto e pienamente convincente: mi limiterò a esporre alcuni argomenti che spero invitino a riflettere sulla plausibilità della mia interpretazione di Spinoza. Alcune premesse del mio discorso sono contenute ne I passi del Messia[1], in particolare per quanto riguarda il rapporto tra ebraismo e cristianesimo. Desidero ringraziare la mia amica Pina Totaro, illustre spinozista, con la quale da anni discuto di questi temi. Devo anche aggiungere che delle mie ipotesi e argomentazioni sono il solo a portare la responsabilità.
Per molti, Spinoza è un filosofo razionalista, ateo, materialista, rigoroso immanentista, negatore del libero arbitrio, dell’immortalità dell’anima, del finalismo, confutatore della Rivelazione, critico di tutte le tradizioni religiose e innanzi tutto di quella ebraica, cristiana e “giudaico-cristiana”.
Penso invece che Spinoza sia profondamente inserito nelle vicende della Diaspora sefardita, molto coinvolto nel dramma dei Marrani (che era ancora in pieno svolgimento ai suoi tempi, e che non si è ancora concluso ai nostri) e che il suo intento sia stato quello di insegnare la Torah ad gentes, ossia all’umanità. La Torah, non il Vetus Testamentum in qualche modo contrapposto al Novum Testamentum, ma la Torah scritta e la Torah orale (il Talmud e la Qabbalah). La Torah: dunque filosofia e teologia. In philosophos Spinoza ha scritto l’Etica, in theologos il Trattato teologico-politico.
 
1. Moshè ben Maimon riporta una tradizione secondo la quale gli ebrei di Spagna erano degli esiliati di Gerusalemme, provenienti proprio dalla Città Santa.
A quando risale l'arrivo a Sefarad (il nome ebraico per indicare la Spagna) dei primi ebrei? Almeno al IV secolo, in quanto il Sinodo di Elvira formula delle disposizioni relative ai rapporti tra cristiani ed ebrei. Sotto il regno dei Visigoti, dagli inizi del V agli inizi dell'VIII secolo, vennero promulgate le prime leggi antiebraiche, finché la conquista arabo-islamica del Paese nel 711 creò per gli ebrei nuove condizioni politiche, psicologiche, sociali.
Nel X secolo Cordova era divenuta un rinomato centro di studi e di cultura, come anche Toledo e Granada. Vi si sviluppò un'intensa attività intellettuale di mediazione con la cultura greca classica e con la cultura arabo-islamica. Grammatici, poeti, rabbini e cabbalisti diedero vita a un'epoca che è conosciuta sotto il  nome di «età dell'oro». Vedono la luce in questo periodo Mai­monide, Yehudah ha-Levi, Ibn Gabirol, Ibn Ezra. Gran parte di questa produzione poetica e teologico-filosofica viene scritta da­gli ebrei in lingua araba. Non vi sono equivalenti nella storia degli uomini di una simile riuscita mediazione di tre culture e tre reli­gioni: ebraismo, cristianesimo, islamismo.

 

Con la progressiva «riconquista» cattolica del Paese le cose iniziarono a cambiare, e nel 1391 si ebbe la prima grande ondata di conversioni forzate, con la creazione di decine di migliaia di «cristiani nuovi» o «conversos». La riconquista terminò nel 1492 con la presa di Granada, che costituiva l'ultimo baluardo islamico in Spagna[2].
Altre volte gli ebrei avevano dovuto abbandonare il paese in cui vivevano: nel 1290 erano stati espulsi dall’Inghilterra, nel 1394 dalla Francia. Ma il caso degli ebrei di Spagna era diverso: «Dopo più di otto secoli di vita nel paese, centinaia di migliaia di persone dovettero abbandonare una terra che sentivano come propria, al cui sviluppo politico, sociale, economico, linguistico e culturale avevano attivamente collaborato, la cui lingua avevano creato insieme con gli spagnoli e con gli arabi: non la dimenticheranno più. Dovettero prepararsi a partire, vendere tutto quello che poterono per una miseria, lasciare la maggior parte dei beni invenduta. Inoltre l’altro non meno grande problema era: dove andare? Verso quali paesi dirigere il passo dell’ebreo errante? Le coste dell’Africa, dove esistevano regni musulmani, e le coste dell’Italia furono quelle che sembrarono di più facile accesso; inoltre, il vicino Portogallo. Un 9 di Av, il 2 agosto 1492, dopo aver salutato i loro morti, lasciarono – a piedi, sugli asini, sulle navi – la terra che mai si sarebbe cancellata dalle loro anime. Il loro grido risoluto fu: ce ne andiamo in nome del Signore»[3].
Come racconta Elia Boccara, la maggioranza degli ebrei spagnoli che volevano restare fedeli all’ebraismo si recarono in Portogallo. Nel 1497 sarebbe dovuto avvenire il Gherush Portugal, che
però non ci fu. Circa ventimila persone che attendevano nel porto per imbarcarsi vennero circondate dai soldati, condotte in diverse chiese e battezzate. Vennero chiamate i baptisados em pé, battezzati in piedi.
I Gherushim e le loro conseguenze costituiscono un capitolo importante, anzi il più importante, della storia del Marranesimo. Proprio l’esigenza di separare i nuovi cristiani dagli ebrei fu alla base del Gherush del 1492, ossia dell’espulsione degli ebrei dalla Spagna. Come si osserva nel preambolo dell’editto, «gli ebrei cercano con tutti i mezzi possibili di sottrarre i fedeli cristiani alla Santa Fede Cattolica, di distoglierli, di sviarli e di attirarli alla loro fede e opinioni dannate: li istruiscono delle cerimonie ed osservanze della loro Legge, organizzano riunioni dove dicono e insegnano loro ciò che devono credere e praticare seguendo la loro Legge, si occupano della circoncisione loro e dei loro figli, danno loro i libri di preghiere, li informano dei digiuni da rispettare, si uniscono a loro per leggere e insegnare loro le storie della loro Legge, li informano dell’arrivo della Pasqua e li avvisano di ciò che devono fare e osservare in questa occasione, danno loro, portandoglielo a casa, il pane azzimo e le carni macellate ritualmente, li avvertono dei cibi da cui devono astenersi e di quelli che devono mangiare in obbedienza alla loro Legge, e li persuadono ad osservare e praticare per quanto possono la Legge di Mosè, facendo loro credere che non esiste altra legge o altra verità che quella»[4].
            Come si riconosce un marrano? Un manuale degli inquisitori insegna a fare attenzione a queste cose: se il venerdì pomeriggio indossa abiti puliti e festivi e accende candele nuove, se osserva i digiuni di Purim e di Kippur, se mangia pane non lievitato nella settimana di Pesah, se recita berakhot sul vino e sul pane, se osserva la kasherut, se dà ai suoi figli nome biblici, se li benedice imponendo le mani sul loro capo [5].
            Proprio quest’anno ricorre il V Centenario dell’espulsione degli ebrei e dei marrani dal Regno di Napoli. La prammatica sanzione con la quale si ordinava agli ebrei e ai neofiti di lasciare il Regno di Napoli entro quattro mesi venne pubblicata il 23 novembre 1510[6]. Il Re era Ferdinando il Cattolico, il Viceré Raimondo da Cardona. Nel maggio 1515 venne ribadito che anche i “nuovi cristiani” dovevano abbandonare il Regno. A duecento famiglie venne concesso di restare fino alla espulsione “definitiva” del 1541. Il Gerùsh dall’Italia del Sud è dunque avvenuto nel corso di cinquant’anni: ha inizio nel 1492-3 con l’espulsione dalla Sicilia e dalla Sardegna e termina nel 1541.
Le conseguenze del Gherush Sefarad sono state molto vaste e ad esso sono legate sia la formulazione della Qabbalah luriana[7] che l’esplosione del Sabbatianesimo[8], ossia del più importante movimento messianico della storia ebraica dopo quello gesuano del I secolo. Due filosofi, fra tutti, hanno riflettuto in modo particolare sul Gherush, il primo, e sul Gherush e il martirio dei marrani, il secondo. Sono Isaac Abravanel (1437-1508) e appunto Barukh Spinoza.
            Abravanel ha redatto a Monopoli tra il 1496 e il 1498 una trilogia messianica[9], il secondo ha scritto il Trattato teologico-politico, che, come vedremo, potrebbe essere considerato come un vero e proprio manifesto per la liberazione dei marrani.
             
2. Bento Spinoza nasce ad Amsterdam nel 1632, in una famiglia ebraica di origine portoghese. Nel 1597 il suo bisnonno Gabriel Alvares era stato condannato a morte dall’Inquisizione con l’accusa di “giudaizzare”; la pena venne poi commutata in un periodo di carcere e due anni di lavoro forzato ai remi di una galera. Nel 1639 Bento inizia a frequentare la scuola della Comunità, e continuerà a farlo fino al 1651. La sua è una vita ebraica ortodossa, divisa tra studio e preghiera. Frequenta quotidianamente la Sinagoga. Nel 1645 diventa bar miswah. Nel 1656 Bento viene allontanato dalla Comunità ebraica con un herem. Non sappiamo per quali ragioni. Spinoza scriverà una Apologia in spagnolo, che non ci è pervenuta. Non chiederà mai di essere riammesso, ma, pur essendo in contatto con numerosi “cristiani eterodossi” (mennoniti, collegianti, quaccheri) non aderirà a nessuna altra confessione religiosa.
            Inizia a frequentare la scuola di Franciscus van den Enden, un ex gesuita, dove impara il latino. Il latino gli consentirà di leggere la filosofia scolastica e cartesiana, soprattutto, e di scrivere le sue opere. Per mantenersi lavora alla molatura delle lenti. Forse la prima opera che compone è il Tractatus de intellectus emendatione, seguita dalla Korte Verhandeling, il Breve trattato su Dio, l’uomo e la sua felicità, che ci è giunto solo in olandese. Inizia a riformulare more geometrico il Breve trattato e nasce così, la prima parte dell’Ethica. Nel 1670 viene pubblicato, anonimo, il Tractatus teologico-politicus. Nel 1673 gli viene offerta una cattedra, che lui rifiuta, all’Università di Heidelberg. Egli si informa invece sulla possibilità di ottenere asilo a Livorno. Nel 1677 muore a L’Aja. Nello stesso anno i suoi discepoli pubblicano gli Opera Posthuma in latino e nederlandese.
 
            3. Spinoza ha espresso in veste geometrica e in lingua latina una serie di insegnamenti della Torah, del Talmud e della Qabbalah. Che la storia della fortuna di Spinoza sia soprattutto la storia della sua sfortuna (come dice Pina Totaro) trova in questo la sua ragione. Spinoza inserisce nei termini della tradizione filosofico-teologica europea contenuti propri della tradizione ebraica. Ad esempio, “Theologia” viene riportato al significato originario di “Devar Ha-Shem”, Parola di D, “obedientia” è il termine che Spinoza sceglie per indicare l’osservanza delle miswot, i precetti. E’ un’indicazione metodologica che va sempre seguita leggendo le sue opere: ripensare in ebraico ciò che lui ha formulato in latino.
La straordinaria complessità della sua opera deriva dall’aver messo in contatto mondi che tra loro non comunicavano. Vorrei fare due esempi, il primo riguardante la Qabbalah, il secondo il Talmud.
 
Deus sive Natura. Questa formula è stata interpretata come espressione del naturalismo spinoziano, come se volesse dire: Dio non è altro che la Natura, non esiste niente di soprannaturale. Per cui Spinoza sarebbe un radicale negatore della trascendenza e assertore di una assoluta immanenza. Ora, Deus sive Natura è un detto cabbalistico, tradotto da Spinoza in latino. Una delle più importanti tecniche cabbalistiche è la Gematriyah, che consiste nello stabilire rapporti tra parole che hanno lo stesso valore numerico[10]. Uno dei Nomi di D., Eloqim, ha valore numerico 86 come anche la parola ebraica Ha-Tevah\ Natura. Si veda su questo un importante studio di Moshé Idel[11].
            Nella Metafisica spinoziana solo D. è sostanza, sostanza infinita, che si esprime infinitamente in un’infinità di attributi, di cui noi ne conosciamo soltanto due: pensiero ed estensione. Niente di più lontano da una riduzione di D. a ciò che vediamo, tocchiamo o anche pensiamo.
 
Il Noachismo. Come potrebbe il Creatore dei cieli e della terra aver dimenticato l’intera umanità per dedicarsi solo a un piccolo popolo? Questa domanda nasce da una insufficiente conoscenza della Torah. Nella Torah il Santo, benedetto Egli sia, si ricorda dell’umanità molto prima che abbia inizio l’avventura di Abramo, il primo ad essere chiamato ivrì, e molto prima che abbia inizio l’avventura di Mosè e dei suoi discepoli, il popolo d’Israele. La Prima Alleanza è in effetti un’alleanza con Noè e i suoi discendenti, ossia con l’intera umanità.
«Quanto a me, ecco Io stabilisco la mia alleanza con voi e con la vostra discendenza dopo di voi» (Gn 9,9). Quali siano le condizioni di questa alleanza noachide, la Torah scritta però non lo dice. Per saperlo, occorre rivolgersi alla Torah orale: «I nostri dottori hanno detto che sette comandamenti sono stati imposti ai figli di Noè: il primo prescrive loro di istituire magistrati; gli altri sei proibiscono: 1) il sacrilegio; 2) il politeismo; 3) l’incesto; 4) l’omicidio; 5) il furto; 6) l’uso delle membra di un animale vivo» (Sanhedrin 56 b). La legge di Noè è stata la legge di Adamo, di Noè, di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, di tutti i loro discendenti e dello stesso Mosè prima della rivelazione del Sinai. Chiunque accetti i sette comandamenti e li osservi con cura avrà parte alla vita nel mondo a venire.
Ora, Spinoza parla dei 7 precetti noachidi in TTP,V e cita le Leggi dei Re (11,8) di Maimonide. L’unico punto di dissenso riguarda il fatto se siano salvifici solo se considerati comandamenti divini profeticamente rivelati o se lo siano anche allorché siano considerati come un semplice dettato della ragione[12]. Tuttavia è lui stesso a non dare troppa importanza a tale differenza di opinioni, poiché conclude: «Ma non è il caso di discutere di questi argomenti in modo troppo approfondito». Poiché non possiamo conoscere nessuno se non attraverso le sue opere, chi abbonda di amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza e dominio di sé «costui, che sia stato istruito dalla sola ragione o dalla sola Scrittura, è stato in realtà istruito da D. stesso, ed è perfettamente beato»[13].
            Il tema dell’obbedienza, ossia delle opere è centrale nel TTP. E’ un tema che differenzia Spinoza se non da Paolo, certo dal paolinismo ed è in netta contrapposizione anche con il sola fide dalla Riforma luterana. Leggiamo due passi:
TTP, XIV,6-7: «Illustrerò ora invece, brevemente, le conclusioni che da questa definizione derivano.
1. La fede non è salvifica di per sé, ma solo in rapporto all’obbedienza, ovvero – come dice l’Ep. di Giacomo 2,17 –, in sé, la fede, senza le opere, è morta; su questo argomento, si veda l’intero capitolo 2 della stessa Epistola.
[§7] 2. Per conseguenza, colui che è realmente obbediente possiede necessariamente la fede vera e salvifica. Infatti, presuppostasi l’obbedienza, è necessario si presupponga anche la fede, come abbiamo detto, e come dice espressamente anche lo stesso apostolo (Ep. di Giacomo 2,18) con queste parole: «mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede». E nella I Ep. di Giovanni 4,7-8 si legge: «chiunque ama (il prossimo) è generato da Dio e conosce Dio; chi non ama, non conosce Dio, perché Dio è amore». Dal che segue, a sua volta, che non possiamo giudicare nessuno come fedele o infedele se non dalle opere: ovvero, se le opere di un uomo sono buone, anche ove egli dissenta in fatto di dogmi dagli altri fedeli, costui è tuttavia fedele; se, al contrario, sono cattive, anche ove egli sia a parole in accordo con gli altri fedeli, costui è tuttavia infedele. Presuppostasi infatti l’obbedienza, deve necessariamente supporsi la fede, e la fede senza le opere è morta, come insegna espressamente anche Giovanni, nel versetto 13 del medesimo capitolo: «Da questo», dice, «sappiamo che noi rimaniamo in lui ed egli rimane in noi: egli ci ha fatto dono del suo spirito», cioè dell’amore. Giovanni aveva infatti precedentemente detto che Dio è amore, donde (cioè in base ai principi da lui allora accettati) quindi conclude che colui che ha amore ha realmente lo spirito di Dio. Anzi, dal fatto che nessuno ha mai visto Dio, l’apostolo conclude che nessuno avverte o percepisce Dio se non grazie all’amore verso il prossimo, e dunque suppone – a maggior ragione – che nessuno possa conoscere altro attributo di Dio che quest’amore, in quanto noi ne partecipiamo. Sebbene queste argomentazioni non siano, in verità, decisive, illustrano tuttavia abbastanza chiaramente il pensiero dell’apostolo, ma ancor più limpidamente lo esprimono quelle esposte in I Ep. di Giovanni 2,3-4, ov’egli insegna in termini nitidissimi ciò che qui vogliamo sostenere: «E da questo», dice, «sappiamo d’averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti. Chi dice: “Lo conosco” e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e la verità non è in lui». Da ciò inoltre consegue che coloro i quali perseguitano gli uomini onesti e amanti della giustizia perché hanno opinioni diverse dalle loro e non condividono con loro gli stessi dogmi di fede, sono dei veri anticristi; sappiamo infatti che coloro che amano la giustizia e l’amore, già per questo solo motivo, sono fedeli; e chi perseguita i fedeli è un anticristo».
 
TTP, XX,13: «Quale peggior sventura si può immaginare, per uno Stato, del fatto che degli uomini onesti vengano mandati in esilio quasi fossero furfanti, solo perché hanno opinioni diverse e non le sanno dissimulare? Cosa può esservi – ribadisco – di più funesto del fatto che alcuni uomini vengano trattati come nemici, non a causa di un delitto o di un misfatto, ma solo perché sono di indole liberale, e che siano per questa colpa condotti a morte? Cosa di più pernicioso che il patibolo, terrore dei malviventi, diventi un bellissimo teatro ove offrire il più alto esempio di coraggio e di virtù, a sommo disonore della suprema maestà? Coloro che sanno di essere onesti non temono – diversamente dai malfattori – né la morte, né il supplizio: il loro animo non è infatti oppresso dal rimorso di un turpe delitto, ed essi considerano anzi un onore, piuttosto che un supplizio, morire per una giusta causa, e degno di gloria cadere per la libertà. Che esempio viene dato, quindi, con la morte di tali individui, la cui causa è ignorata dagli uomini deboli e senza ideali, odiata dai rivoltosi e amata dagli onesti? Certamente nessuno può trarre un esempio da quella morte, se non per imitarla, o – quanto meno – per ammirarla».
 
TTP, XX,20: «Abbiamo così dimostrato:
I. che è impossibile togliere agli uomini la libertà di dire quello che pensano.
II. Che questa libertà può essere concessa ad ogni cittadino, senza con ciò ledere il diritto e l’autorità delle somme potestà; e che ognuno può conservare tale libertà – fermo restando quello stesso diritto –, ove non ne desuma un’autorizzazione ad introdurre nello Stato qualche innovazione in tema di diritto, o non ne deduca la licenza di commettere qualche atto che sia contrario alle leggi riconosciute.
III. Che ognuno può godere di questa libertà, ma solo ove essa non comprometta la pace dello Stato; e che da tale libertà non nasce alcun inconveniente che non possa essere facilmente gestito.
IV. Che ognuno può godere di questa libertà, anche nel rispetto della pietà religiosa.
V. Che le leggi concernenti le questioni di ordine speculativo sono del tutto inutili.
VI. Abbiamo infine dimostrato che questa libertà non soltanto può essere concessa senza compromettere la pace dello Stato, la pietà e il diritto delle somme potestà, ma che, anzi, deve essere concessa proprio per conservare tutte queste prerogative.
Quando infatti si cerca, al contrario, di privare gli uomini di tale libertà, e si citano in giudizio le opinioni dei dissidenti (ma non le loro intenzioni, che, sole, possono essere colpevoli), si finisce per colpire proprio le persone dabbene, e con esemplari condanne: ma queste assumono piuttosto l’apparenza di martirii, eccitando ancor più – invece di atterrirlo – l’animo di coloro che si intendeva minacciare, e spingendoli alla compassione verso le vittime, se non incitandoli a vendicarle. Conseguentemente, le attività produttive e la buona fede si corrompono, gli adulatori e gli ingannatori sono incoraggiati, ed i nemici della rettitudine trionfano, in quanto si è ceduto alla loro ira, ed anche perché hanno reso i detentori del potere seguaci della loro dottrina, di cui sono considerati gli interpreti: è logico ch’essi giungano poi ad usurpare l’autorità e il diritto di chi governa, e che non si vergognino di sostenere d’esser stati scelti direttamente da Dio, né di proclamare che i loro decreti sono divini, e quelli delle somme potestà, invece, solamente umani, pretendendo perciò che questi ultimi siano subordinati ai decreti divini, ovvero ai propri. Nessuno può ignorare come tutto ciò sia assolutamente incompatibile con la sicurezza dello Stato. [§17] Dobbiamo perciò qui concludere (così come abbiamo fatto supra, al Capitolo XVIII) che nulla garantisce la sicurezza dello Stato quanto il fatto che la pietà e la religione siano limitate al solo esercizio della carità e della giustizia, e che il diritto delle somme potestà − sia in materia ecclesiastica che civile − si applichi soltanto alle azioni: per il resto, sia concesso ad ognuno di pensare quel che vuole e di dire quel che pensa». (Traduzione di Pina Totaro, Bibliopolis 2007; i neretti sono miei).           
            La riflessione sul Gherush e sul martirio dei marrani porta Spinoza a ripensare il rapporto tra ebraismo e cristianesimo a partire dal I secolo (di qui, tra l’altro, il suo interesse per le opere di Flavio Giuseppe) allorché non avvenne la conversione degli ebrei al cristianesimo, ma al contrario i goyim, le genti, entrarono nell’Alleanza d’Israele.
Verso il 3810 (49-50 e. c.) si svolse a Yerushalayim una riunione alla quale presero parte le tre colonne della Comunità (Yaaqov, Shimon e Yohanan) e Shaul. I goyim entravano numerosi nell’Alleanza, e si doveva decidere se essi dovessero fare la milah (la circoncisione) e la tevilah (il battesimo) e poi osservare le miswot, oppure se essi dovessero avere una diversa condizione. Venne deciso che essi dovessero limitarsi ad astenersi dalle carni immolate agli idoli, dal sangue, dalla carne di animali soffocati e dalla fornicazione (cfr. At 15).
            Non venne neppure preso in considerazione il problema se gli ebrei entrati nella Comunità dovessero continuare ad osservare le miswot. Eppure, con il passare dei secoli, i termini della questione subirono un tale rovesciamento che, nella Ecclesia ex gentibus, come abbiamo visto, l’osservanza di qualche miswah divenne ragione sufficiente per essere mandati al rogo.
             Nel 5737 (1980 e. c.) Giovanni Paolo II riconosceva che la Prima Alleanza non è mai stata revocata. Per fedeltà a quella Alleanza gli ebrei erano espulsi e i marrani venivano messi sul rogo!
Ai sette precetti noachidi Spinoza aggiunge i sette dogmi della fede universale (cfr. TTP XIV, §10).
 
4. «Dopo che l’esperienza mi ebbe insegnato che tutte le cose che frequentemente si incontrano nella vita comune sono vane e futili […] decisi infine di ricercare se si desse qualcosa che fosse un bene vero e condivisibile, e dal quale soltanto, respinti tutti gli altri, l’animo fosse affetto; anzi se esistesse qualcosa grazie al quale, una volta scoperto e acquisito, godessi in eterno una gioia continua e suprema»[14]. Questo è l’incipit del Trattato sull’emendazione dell’intelletto, che già nel titolo contiene un termine chiave della Qabbalah luriana: tiqqun (emendatio). Né ricchezza, né onore, né piacere costituiscono il bene supremo e anzi, dopo un’assidua meditazione, Spinoza giunge a considerarli mal certi. E’ un momento drammatico della sua esistenza: «Mi vedevo infatti versare in estremo pericolo e costretto a cercare con tutte le forze un rimedio, per quanto incerto; come un malato affetto da una malattia mortale…»[15]. Dopo aver compreso che felicità e infelicità risiedono solo nella qualità dell’oggetto al quale l’amore ci lega, egli giunge alla conclusione che «l’amore verso una cosa eterna e infinita nutre l’animo di sola gioia ed è privo di ogni tristezza: questo si deve desiderare grandemente e cercare con tutte le forze»[16].
Questo programma di vita trova il suo compimento nell’Etica, in particolare nella V parte. Tutta la metafisica spinoziana è il tentativo di pensare il versetto di Yohanan\Giovanni: «Da questo sappiamo che restiamo in D. e D. in noi, perché ci ha dato del Suo Spirito (Ruah\Mens)» (1Gv 4,13).
L’Ethica ordine geometrico demonstrata è un itinerarium mentis in Deum, dall’immaginazione, alla ragione, all’intelletto. Noi immaginiamo di essere mortali, arriviamo a sapere e sperimentare di essere eterni. Siamo corpi e anime (corpi animati, anime incorporate)[17]; l’ immaginazione ci porta a credere che i nostri corpi e le nostre anime siano mortali, l’intelletto a sapere e sperimentare che i nostri corpi e le nostre anime\menti sono eterne. Dal tempo all’eternità, che è vita: Hayyim le-olam wa-ed, per sempre. Questa è la Torat Hayyim, la Torah di vita, che Spinoza espone in veste geometrica.
La voce della Torah era così nuova per l’Europa del XVII secolo che il progetto di Spinoza è stato frainteso ed è fallito. L’Europa del XXI secolo è forse più disposta ad ascoltarlo?
 
5. Affermando che Spinoza è un ebreo cristiano, o un ebreo messianico, non intendo dire che è un cerchio quadrato, né fare di lui un precursore dei “Jews for Jesus”. Non intendo parlare di un ebreo convertito che intenda svolgere attività missionaria per la conversione degli ebrei. Intendo parlare di un ebreo che ritiene che Yeshua sia il Messia in un senso che non è lo stesso di quello per cui i cristiani ex gentibus ritengono che sia il Cristo.
La filosofia della storia propria della visione cristiana tradizionale, che procede dalla natura lapsa ll’instaurarsi del Regno di D. non trova accoglienza nel TTP. In Spinoza la natura è tutt’altro che lapsa, ossia decaduta a causa del peccato originale. Qual è invece la vicenda storico-universale propria del TTP?
Come l’opera di Herrera, anche l’opera di Spinoza è influenzata dalla Qabbalah di Luria. I vasi si sono infranti, le scintille si sono disperse nei gusci, occorre liberarle. Spinoza si propone di liberare le anime dei marrani ancora prigionieri della Cristianità gentilesca. Ma questa liberazione è al contempo anche un tiqqun della Cristianità dalla teologia della sostituzione e dall’insegnamento del disprezzo. In questo Spinoza non aveva torto, era solo in anticipo di tre secoli.
Per Spinoza la vera religio coincide con la antiqua religio: quello che il cristianesimo era alle origini, e che, come anche Rav Elia Benamozegh credeva, tornerà ad essere un giorno.


[1] M. Morselli, I passi del Messia. Per una teologia ebraica del cristianesimo, Marietti, Genova-Milano 2007.
[2] La cacciata dei «moriscos» avvenne nel 1609.
[3] L. Sestieri, Gli ebrei nella storia di tre millenni, Carucci, Roma 1986, pp. 146-147.
[4] A. Foa, Ebrei in Europa. Dalla peste nera all’emancipazione, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 111-2.
[5] C. Roth, Storia dei Marrani, tr. di A. M. Tedeschi Falco, Marietti, Genova-Milano 2003, pp. 98-9.
[6] A. Milano, Storia degli ebrei in Italia, Einaudi, Torino 1963, pp. 230-1. Devo a Cesare Colafemmina la precisazione che il bando riguardava anche i neofiti.
[7] Rav Yishaq Luria (1534-72).
[8] Shabbetai Sevi (1626-76).
[9] Cfr. R. Goetschel, Isaac Abravanel conseiller des princes et philosophe, Albin Michel, Paris 1996.
[10] Ricordiamo che ogni lettera dell’alfabeto ebraico corrisponde a un numero.
[11] M. Idel, Maimonide e la mistica ebraica, a cura di R. Gatti, il melangolo, Genova 2000, pp. 145-186. Idel cita un anonimocabalsta discepolo di Gikatilla che identifica Eloqim e la Natura come il mare superiore e con la struttura antropomorfica divina rappresentata dallo Shiur Qomah, ma anche con il Primo essere, la Gloria, il Trono e l’Intelletto.
«Tutti i fimi vanno al mare» (Qo 1,7) si tratta del mare superiore: la vitalità di tutte le creature viene da Lui e a Lui ritorna (p. 162). Più avanti Idel cita un midrash della Mishnah che presenta D. come colui che imprime sulle sue creature il tovea, il simbolo originario, il syngraphum di cui parla Spinoza
[12] Benedictus de Spinoza, Tractatus teologico-politicus.Trattato teologico-politico, a cura di P. Totaro, Bibliopolis, Napoli 2007, p. 149.
[13] ivi, p. 151.
[14] Spinoza, Opere, a cura di F. Mignini e O. Proietti, Mondadori, Milano 2007, p. 25.
[15] ivi, p. 27.
[16] ivi, p. 28.
[17] Corpi dotati di mente, menti dotate di corpo.


Venerd́ 26 Febbraio,2010 Ore: 12:17
 
 
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